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Verso nuovi immaginari comuni: conversazione con Renata Coluccini

Marzo 21, 2019 Nessun commento redazione

Siamo a Castelfiorentino, sede insieme a Empoli della IX edizione di Teatro fra le generazioni, organizzato dalla compagnia residente Giallo Mare Minimal Teatro. Una delle modalità che abbiamo scelto per raccontare i quattro giorni di quest’anno (dal 19 al 23 marzo 2019) è una serie di brevi conversazioni con alcuni dei professionisti presenti, in cui ci concentreremo particolarmente sul rapporto che l’arte intesse con la pedagogia all’interno del teatro per ragazzi.

La prima di queste interviste è a Renata Coluccini, del Teatro del Buratto. La incontriamo al Teatro del Popolo di Castelfiorentino, immediatamente al termine di Amici per la pelle (il titolo è ancora provvisorio), una coproduzione Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera di cui è regista. Lo spettacolo, con la drammaturgia di Emanuele Aldrovandi e Jessica Montanari, apre il secondo giorno del festival. Gli interpreti sono Mila Boeri e David Remondini.

Lo spettacolo presentato in forma di studio è al suo debutto. Al termine, la Coluccini non manca di domandare ai bambini le loro impressioni. Cosa non hanno capito, cosa li ha resi tristi e cosa li ha fatti ridere. Del resto, come ci dice poco dopo, recepire le reazioni, positive o meno, dei propri interlocutori è il primo passo per cercare nuove strade, per arrivare a un momento di “ridefinizione”.

Come si manifesta in questo spettacolo il rapporto tra arte e pedagogia?

Devo premettere che per questo lavoro si sono incontrate per la prima volta diverse persone e diverse realtà: Emanuele Aldrovandi e Jessica Montanari che hanno scritto il testo, gli attori, Mila Boeri e David Remondini, che vengono dall’Atir Ringhiera, e io che sono del Teatro del Buratto. Io vengo dal teatro per ragazzi, gli altri no, o non solo. Perciò durante tutto il percorso, nelle discussioni sul testo, sulla messinscena, la regia, mi sono trovata spesso a dire “questo è giusto per i ragazzi, quest’altro non lo è”. In questo modo ho anche dovuto pormi degli interrogativi sulla questione, dare delle risposte e motivarle. Non sempre è stato facile, ma certamente è stato utile.

L’educazione comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in scena.

In questo caso l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Ci ha colpito molto l’essenzialità della rappresentazione. È uno strumento per accendere l’immaginazione nel tuo pubblico?

Questo è un punto cruciale. Il teatro, per ragazzi ma non solo, più evoca e meno descrive e meglio è. Solo così diventa un incontro, un momento comunitario tra chi lo mette in scena e chi partecipa da spettatore allo spettacolo. Se porti il pubblico a mettere la sua carne, il suo pensiero, il suo cuore nello spettacolo, senti di costruire dei paesaggi immaginari comuni, che cambiano a seconda di dove vai e degli spettatori che incontri. È una delle cose più affascinanti del teatro per ragazzi, il pubblico ti fa davvero cambiare lo spettacolo.

L’ho detto anche ai miei attori per questo spettacolo: se riuscite a prendere i ragazzi per mano e a fare un viaggio con loro, una volta terminato, sarete cambiati anche voi. Certo, è un’esperienza che dura poco, 50 minuti, ma ogni volta è tangibile e differente, ogni volta si incontrano nuove reazioni e si creano nuovi immaginari.

L’essenzialità poi aiuta a fare emergere le parole – e in questo spettacolo ce n’erano di particolarmente belle – ma anche il silenzio. Di immagini direi che forse siamo anche saturi.

La presenza così forte di silenzi potrebbe essere una sfida rispetto ai tempi frenetici della contemporaneità?

Sì, come anche la presenza di dialoghi lunghi e complessi. Ci ha sorpreso quanti concetti “difficili” o “da adulti” sono arrivati con forza ai ragazzi e li hanno colpiti.

Cosa pensi che manchi oggi al mondo del teatro per ragazzi?

Sicuramente lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade conosciute, e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo, a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione, in cui chiedersi cos’è oggi quello che facciamo, in cui fare un punto.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci

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