Erotismo e infanzia: l’educazione oltre i tabù

La ricca e variegata vetrina di Bari di quest’anno ha suscitato diverse riflessioni, tra le quali una riferita al corpo come possibilità drammaturgica, come linguaggio in grado di parlare all’infanzia per la propria potenza simbolica. Il corpo nella sua espressione energica e vitale contiene una forte componente erotica intesa come desiderio, istinto, movimento verso.
Una delle domande che ci siamo posti a partire dall’analisi del corpo in scena ha a che fare con la possibilità di presentare al pubblico bambino uno spettacolo di cui il contenuto erotico possa risultare evidente e diventare, così, opportunità di confronto (più o meno consapevole) con i moti interiori e le sensazioni fisiche dello spettatore. Nella breve inchiesta che abbiamo condotto al festival si faceva riferimento a un’infanzia verso la quale, spesso, nutriamo pregiudizi che ci portano a preservarla da temi considerati tabù e, a questo proposito, sono state illuminanti le parole di Luigi D’Elia, secondo il quale ci troviamo in un’epoca in cui viene negato il corpo al bambino. E di conseguenza tutto ciò che da esso deriva e che a esso è collegato. È possibile che questa negazione del corpo sia ancora una volta determinata dalla paura dell’adulto? Da un’ipocrita repressione degli istinti alla quale consegue una tendenza a lasciar confluire nel (forse, per molti, poco chiaro) concetto di eros unicamente gli aspetti legati alla violenza e al male?
Luigi D’Elia per raccontare il suo lavoro di narratore in Zanna Bianca non può fare a meno di parlare di eccitazione, che corrisponde a un risvegliarsi dell’energia vitale. Le stesse parole pronunciate da D’Elia, magistralmente tessute dalla sensibilità di Francesco Niccolini, che nello smontare e rimontare un classico della letteratura, instaurando un dialogo intenso e rispettoso con l’autore, riesce a cogliere il senso profondo di una storia selvaggia eppure tutta umana, si generano a partire dal corpo stesso del narratore. Il corpo, racconta D’Elia, non si muove sulla scena assecondando una partitura gestuale prefissata e immutabile, ma ogni volta nuova e guidata dall’energia del momento, da un istinto animale, una pulsione di vita che è anche pulsione sessuale, perché corrisponde all’energia della creazione. Se non si libera questa eccitazione come si può raccontare di un lupo visceralmente legato alla sua foresta e, benché allevato come un cane, incapace di dimenticare il proprio istinto selvaggio? Come diventare lupi noi stessi e sentire il richiamo della luna senza lasciarsi invadere dall’energia vitale che si libera insieme a un ululato di gioia e gratitudine per la ritrovata Madre-foresta? Questa pulsione di vita prende un carattere ancora più marcatamente erotico quando Zanna Bianca incontra nella foresta una lupa, con la quale completerà il suo percorso di ritorno alla Natura accoppiandosi. Sullo sfondo lupi costruiti dallo stesso D’Elia con la garza, il ferro e la pietra, materia viva, immobili prima di un salto, prima di serrare le mascelle sulla carne calda e sussultante di una preda troppo lenta. E intanto le parole vibranti di un narratore che ci mostra paesaggi e stagioni e umori accompagnandoci, lupo tra i lupi, in una storia che è di tutti, che tocca antiche comuni corde nascoste e profonde: un richiamo, dalla foresta. Tutto questo inizia e finisce con il sentimento dell’eccitazione, che è istinto ma anche amore per la vita, perché nulla esiste senza amore. Eros e amore. Eros è amore. E non se ne dovrebbe aver paura, piuttosto lasciarlo scorrere come naturale moto vitale dal quale tutto si origina e al quale tutto ritorna.

In Sogno di Fontemaggiore Teatro tratto da Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, l’erotismo è ancora una volta nei corpi guizzanti degli attori che, ispirandosi alla commedia dell’arte, si esibiscono in vere e proprie danze amorose: corpi che si protendono e si ritraggono sotto il potere di un fiore che, all’improvviso, esplode e invade la scena con il suo polline magico. Una metafora, ancora una volta, dell’erotismo che prende il sopravvento, sconvolge, muove, eccita. E in questo turbinio di emozioni Puck e Fiordipisello scoprono l’amore; non sono in grado di riconoscerlo subito, ma basta uno sguardo o il suono della voce dell’altro perché i loro corpi inizino ad agitarsi, le sensazioni ad amplificarsi, l’energia vitale a scorrere… a questo punto non resta più nulla da capire, ma solo da sentire e lasciarsi prendere da questa energia, cedere al desiderio dell’amore.
Amore ed erotismo li ritroviamo ancora in Canto la storia dell’astuto Ulisse, uno spettacolo irresistibile, scritto e diretto da Flavio Albanese, in cui con leggerezza, profondità e con la poesia delle ombre di Emanuele Luzzati, capaci di sospendere il tempo della storia, il mito diventa fiaba per arrivare dritto al cuore delle esperienze di ogni spettatore. Ulisse e Penelope, alla fine del lungo e avventuroso viaggio del sovrano greco più famoso di tutti i tempi, si riconoscono e si abbracciano; a questo punto gli dei intervengono per rendere la loro notte “la più bella che potesse essere mai sognata”. Le parole sono esplicite, si allude a una notte d’amore e ci sembra quasi di vedere le luci che si abbassano e i due innamorati sparire tra coltri di lana ruvida e pesante. Albanese, però, sottolinea che a emergere non è l’atto sessuale in sé, che non riveste un particolare interesse, ma piuttosto la bellezza del ritrovarsi e del riconoscersi di due innamorati. Penelope e Ulisse, infatti, ottengono in dono dagli dei la giovinezza e la freschezza dei loro corpi, la stessa della prima volta che si erano conosciuti e dunque, viene restituita loro quella spinta vitale, erotica, di un corpo verso un altro corpo, quella curiosità, quel desiderio inscindibili dall’amore o dall’innamoramento, da quel bisogno, insomma, di entrare in relazione con ciò che ci attrae. Ancora una volta amore e eros, indivisibili facce di una stessa medaglia.
In Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale, un fiore, una rosa che passa dalle mani della bambina a quelle del lupo, anche qui, come in Sogno, diventa metafora del desiderio, rafforzata da una danza ambigua come la storia stessa di Charles Perrault. Il regista esplicita il doppio senso presente nel racconto originale e non edulcorato dell’autore francese in cui, nella morale, si mettono in guardia “i bambini e specialmente le bambine” dai lupi che “hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e belle maniere”, proprio come il lupo di Campanale, un uomo elegante e aggraziato ballerino. Sebbene, probabilmente, i bambini non colgano la sottigliezza di questo passaggio, restano comunque certamente colpiti dall’immagine di un tipo di persone da evitare. E infatti il lupo che divora a tradimento una bambina indifesa si definisce come un personaggio cattivo e meritevole di morte. Il problema, però, non è quello di essere un lupo con i propri istinti. Zanna Bianca è un lupo, ma ha tutta la comprensione e l’affetto degli spettatori e segue l’istinto della sopravvivenza, che comprende anche la necessità di procacciarsi del cibo uccidendo una preda indifesa. Ma lo fa lottando, con quella ”ostinazione” della foresta di cui parlano Niccolini e D’Elia. Il lupo di Cappuccetto Rosso, invece, è prima di tutto un ingannatore, non si mostra per ciò che è. Non ha istinti sinceri e naturali, non lotta alla pari, non ha rispetto. Così come, dunque, il problema non è essere un lupo, allo stesso modo, forse, il problema non è parlare di eros, ma pensare che a questo concetto corrisponda solo un’idea distorta dell’amore.
È possibile che ci sia bisogno di restituire importanza al corpo e agli istinti parlando con naturalezza di erotismo, inteso come energia vitale e creativa, piuttosto che nascondersi ancora dietro a un’idea edulcorata, romanzata e idealizzata dell’amore, dimenticando quell’aspetto legato all’eccitazione che è spinta alla vita?
La risposta non sta nell’occultare l’elemento erotico e neppure nell’affrontarlo in maniera banale e superficiale. In un’epoca in cui la sessualità è diventata oggetto di consumo e l’erotismo strumento privilegiato del marketing, sembra determinante affrontare questo argomento. In questo senso l’arte, come gli spettacoli analizzati hanno in parte dimostrato, può avere un ruolo pedagogico essenziale, per i bambini come per gli adulti.

Nella Califano

(fotografie di Massimo Bertoni)




“La guerra dei bottoni” o la fine dell’avventura. Qualche domanda su tabù e luoghi comuni del teatro ragazzi

Fa una certa impressione veder portato (o per meglio dire ri-portato) in scena un romanzo d’avventura come La guerra dei bottoni di Louis Pergaud. Che il teatro ragazzi abbia guardato spesso ai romanzi d’avventura per messe in scena originali è cosa nota, e anche ovvia. D’altronde almeno per un paio di secoli i romanzi d’avventura sono stati i testi di formazione e di evasione per moltissime generazioni di ragazzi. Tutto normale? No, al contrario. Di fiabe se ne vedono sempre tante. La fiaba anzi diventa spesso l’occasione per aggiungere interpretazioni, variazioni, attualizzazioni. Invece la presenza dei racconti d’avventura tende a diminuire così tanto che, quando riappare, suona come una campana stonata.
La guerra dei bottoni di Tib Teatro (per la regia di Giuseppe di Bello, con Massimiliano di Corato, Andrea Lopez Nunes, Caterina Pilon) è costruita secondo moduli narrativi forti, segue modalità rappresentative coinvolgenti ed è ben sostenuta dal lavoro degli attori. È uno spettacolo che si è meritato una lunga vita, con centinaia di repliche alle spalle e molti anni di tournée. Per noi è un ottimo pretesto per provare a ragionare sul genere d’avventura a teatro. Si racconta infatti di bande di ragazzini che si sfidano a colpi di fionda e bastonate. L’epilogo è la punizione di genitori furibondi che per calmare gli spiriti ed educare i propri figliuoli tirano fuori la cinghia dei pantaloni e non risparmiano frustate. Siamo nella società contadina francese di fine Ottocento. I ragazzini si arrampicano sugli alberi e costruiscono le proprie fortezze dentro il bosco. Si muovono per bande e giocano alla guerra. E così crescono. Tutto normale, verrebbe da dire; ma fermandosi un attimo a osservare con distacco quel che accade, l’impressione è l’acuirsi di una distanza. Il mondo descritto appare così lontano che per noi è più facile relegarlo nelle pagine scritte della finzione letteraria. Se lo si prendesse sul serio, questi ragazzini oggi sarebbero tutti soggetti BES, tipici bulletti di provincia, bisognosi di insegnanti di sostegno. I genitori poi verrebbero seguiti dagli assistenti sociali, se non proprio rinchiusi in gattabuia per violenza domestica su minori. Dunque verrebbe da chiedersi: un mondo incivile contro la nostra civiltà? Oppure si stava meglio quando si stava peggio? Domande oziose a dire il vero. Il fatto è che, in cento anni, è cambiato il mondo intero. A parte due guerre mondiali, il Novecento è stato il secolo in cui, citando le parole di Kapuscinski, si è compiuto il “genocidio dei contadini”. E di conseguenza ogni cosa è mutata.
Eppure anche tutto questo è ormai Storia. La nota stonata non riguarda lo spettacolo e in fin dei conti nemmeno il romanzo messo in scena, anche se il bosco della campagna francese appare alla stregua del mare in tempesta dell’Isola di Mompracem di Salgari. La nota stonata suona dentro di noi, cioè nella ricezione. Di fronte alla recente produzione del teatro ragazzi l’impressione è che non sia il romanzo d’avventura in sé a essere desueto, ma la sua ossatura formativa. Ciò che si fatica a rintracciare sulla scena è la dinamica dello scoprire, esplorare, conoscere; superare i pericoli, instaurare amicizie, combattere; avere coraggio. E ancora: costruire di nuovo amicizie e avere un contatto purchessia con la natura. Dolore e gioia. E poi si cresce. Infine si può tornare a casa. C’è una famiglia da cui si parte e a cui si torna. Una famiglia che premia o che punisce, comprensibile o ottusa, ma presente. Si sbaglia e si cresce. Amici, fatica, scoperte. E si cresce. Questo percorso sembra essere diventato così accidentato e frastagliato che l’attenzione della produzione teatrale di oggi pare a volte essersi concentrato più sulle zone d’ombra, sulle fragilità, sulle interruzioni, che non sulla gioia dell’andare avanti. Eppure in senso lato l’avventura non è altro che una forma intensa del compiere esperienza. Come può risultare invecchiata la forma esperienziale?
Si dice spesso, che vigono dei tabù nel teatro ragazzi. Ed è verissimo (così come se ne trovano tanti nel mercato editoriale per i più piccoli). Spesso questi tabù derivano da miopie, paure, incapacità, furbizie e pregiudizi. Un buon teatro ragazzi deve avere il coraggio di andare controcorrente e affrontare in modo intelligente anche i temi di cui poco si parla. E ci sono esempi mirabili, anche in questi ultimi tempi.
Però nell’elenco dei tabù del teatro ragazzi (al cui primo posto c’è sempre la morte) rischia di scivolare pure la “vita” e la gioia della crescita. L’ossatura formativa, composta di fatica, pericoli, sforzo, ma anche grande vitalità ed esperienze, sembra essere stata messa da parte o simbolizzata/psicologizzata talmente tanto da apparire come ombra confusa.
I tempi stanno cambiando molto velocemente e certi esempi di radicalità a volte rischiano di apparire come luoghi comuni. Più che altro quando si dice radicalità e contemporaneo si entra subito in questioni formali, stilistiche e autoriali, mentre queste dovrebbero essere coniugate alla ricerca di senso e alla capacità di avere un progetto forte in testa. Ecco allora alcune contrapposizioni che forse varrebbe la pena ridiscutere non assegnando sempre al primo polo la patente di radicalità: opera contemporanea vs messa in scena convenzionale; critica alla società e destrutturazione vs linea affermativa e modalità rappresentative; paura vs evasione; narrazione non lineare vs drammaturgia narrativa e schematica; costruzione di un’atmosfera e libertà interpretativa vs opera didascalica;  emozioni e sentimenti  vs conoscenza didattica; inconscio, fantastico vs realtà, povertà del realismo.
E se la radicalità oggi fosse proprio quella di non piegarsi alle cupezze del presente con eccessivo compiacimento? E se invece si provasse a ridiscutere la grammatica della crescita, con una reinvenzione formale che sappia ibridare e reinventare i due poli?

Rodolfo Sacchettini




Sporgersi di fronte all’abisso. Sulla necessità del teatro ragazzi

In un presente che ha relegato l’infanzia a categoria merceologica e che spesso la considera condizione da superare, di Teatro ragazzi occorre parlare e discutere; in un sistema teatrale che riconosce e finanzia le arti rivolte all’infanzia attraverso specifiche voci di decreti, di teatro ragazzi occorre occuparsi; considerando poi un andamento storico che, a partire dagli anni ‘70, vede gli artisti italiani “uscire dai teatri” in cerca di nuove domande e ossigeno, per rigenerare il teatro e la società, di teatro per e tra le generazioni occorre necessariamente occuparsi, in cerca dei fili nel presente che ci riportano a quella vocazione “fondativa”.

Questi e altri motivi immediati ci fanno affermare che il teatro ragazzi va seguito da vicino, dismettendo una colpevole disattenzione della quale pochissimi possono dirsi immuni (come il maestro Mario Bianchi). Dal canto opposto però non va fatto l’errore di pensare al teatro ragazzi come a un’arte della quale si possa discettare senza rinnovare gli strumenti della critica teatrale. Di teatro che si rivolge all’infanzia ci si deve occupare provando a nutrirsi di domande almeno in parte di provenienza pedagogica ed educativa, perché altrimenti rischiamo di fare un’approssimazione potenzialmente dannosa. Il pubblico di questo teatro non ha scelto di stare a teatro, c’è sempre qualche adulto che sta operando una scelta in sua vece; il pubblico di questo teatro è un pubblico che sta crescendo, dunque l’esperienza artistica non può che entrare a far parte del percorso di crescita dei bambini e adolescenti, magari per contestare le loro domande sul mondo e le nostre domande educative, o spaesarle e confermarle e aprirle.
Che possa esistere – o che per certi versi anche “debba” – una vocazione a rivolgersi all’infanzia ci pare dunque importante e cruciale, se per infanzia intendiamo la tensione a porsi una domanda sull’origine. Infanzia, o “ragazzi”, dunque non come categoria da intrattenere accomodare e divertire (anzi: mai da intrattenere accomodare divertire se è solo questo lo scopo di fondo), ma come occasione per domandarci qualcosa sull’origine delle cose, rimettendo al centro collettivamente le grandi domande dell’esistenza. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perché moriremo, cos’è l’amore. Abbandonando magari certe pretese estetiche “adulte”, che a volte rischiano di trasformarsi in pretenziosità. Avendo cioè il coraggio di ritrovare anche una forma “gioiosamente infantile” con cui porci quegli interrogativi, una semplicità che non sia semplicismo. In una piccola inchiesta che abbiamo condotto l’anno scorso, Simone Guerro diceva che trattare “tematiche difficili” con i bambini significa «trovare la matrice da cui le cose partono e si diffondono», negli automatismi del pensiero in primo luogo, nella società, fin quasi nell’immaginario collettivo di un’epoca.
Vista da questa prospettiva, l’etichetta del “teatro ragazzi” non solo è chiara e immediatamente utilizzabile, ma può individuare una tensione da incoraggiare e un’area da praticare, anche da chi non l’ha mai considerata, anche da parte di chi pensa di non esserne “titolato”. Perché, come sostiene Piergiorgio Giacchè nel suo importante saggio, prima che diventasse un “servizio” l’animazione teatrale e le sue forme storiche (fra le quali il teatro che dialoga con l’infanzia) sono state e possono tornare a essere il manifestarsi nell’arte di una domanda sul proprio senso, a un tempo dolorosa e non nichilista. Vista da questa prospettiva, ci sia concessa un’amichevole polemica con la provocazione di Renzo Francabandera, quando propone la nuova etichetta di “teatro ad alta accessibilità”. Quella di Francabandera è una sollecitazione che ha il grande merito di tenere acceso un dibattito che pochi scelgono di praticare (segnaliamo anche in questo senso l’intervista a Tam Teatro Musica firmata da Renata Savo su Scene Contemporanee, oltre all’importante contributo di Mario Bianchi su ateatro sui tabù). Ma, segnalto il merito del dibattito ed entrando nel merito della questione, ci sentiamo di dire: altro che accessibilità! Quando ci poniamo le domande dell’origine stiamo facendo un’operazione di complessità, ci stiamo affacciando sul vuoto, stiamo prendendo per mano i bambini, i ragazzi, i giovani e insieme a loro stiamo guardando l’abisso. Di fronte a un abisso si piange, si ride, ci si commuove e ci si dispera. Torniamo allora a parlare delle grandi questioni che ci legano, come umani, e non di un’accessibilità che rischia di incoraggiare, alla lunga, la percezione di una spettatorialità incapace di raggiungere certe vette, alla quale va facilitata la comprensione rimuovendo ostacoli e barriere. Dovremmo allora probabilmente dismettere il concetto stesso di accessibilità culturale, non quello di teatro ragazzi, un concetto che deve continuare a farci discutere e a discutersi, senza ritenersi in pace con se stesso, “contestandosi” dall’interno per provare a uscire dal ghetto che anche per proprie colpe è stato creato negli ultimi decenni. Sapendo che per uscire da questo isolamento è necessario porsi domande difficili, non semplificate: se la cultura è quello che ci tiene insieme, rarissime volte questa sarà un pranzo di gala, quasi sempre invece si rivelerà un processo complesso, denso, faticoso. Un sentiero ripido da scalare e pieno di insidie, ma quanta aria circola quando siamo lassù insieme di fronte all’abisso! Di abissi accessibili non se ne sono mai visti.

Lorenzo Donati




Di cosa parliamo, quando parliamo di Teatro Ragazzi oggi? Un convegno a Castelfiorentino

In occasione del festival “Teatro fra le generazioni” organizzato da Giallo Mare Minimal Teatro, (Castelfiorentino, dal 21 al 23 marzo), Planetarium collabora alla costruzione di un pomeriggio di incontro/dibattito attorno al teatro che dialoga con le giovani generazioni, previsto per il 23 marzo dalle 15 alle 18.

Di cosa parliamo quando parliamo di Teatro Ragazzi oggi?
Incontro su critica e scena/platea delle nuove generazioni. In collaborazione con Festival Segnali e Maggio all’Infanzia.

Presso ex oratorio San Carlo, h 15.00

Nel marzo 2017 proprio a Castelfiorentino ci fu la prima tappa del percorso-progetto Planetarium creatosi grazie alla collaborazione fra i festival e una rete di operatori attivi nella pratica della critica teatrale quali Altre Velocità, Stratagemmi, Tamburo di Kattrin e Teatro e Critica. Il tema di questa collaborazione è l’ampliamento e la qualificazione, oltre al ruolo che storicamente svolge Eolo, dell’osservatorio di analisi critica e di restituzione dell’area creativa e culturale che in Italia si occupa prioritariamente della scena per le Nuove Generazioni.
Teatro Fra le Generazioni 2018 vuole replicare e qualificare l’esperienza attivata nella passata stagione e, oltre al lavoro di cronaca e dibattito che il festival offre, dare spazio al confronto su questi temi.

Partecipano: Patrizia Coletta (Fondazione Toscana Spettacolo),  Ilaria Fabbri (Regione Toscana); Mario Bianchi (Eolo), Gianluca Balestra (Elsinor Centro di Produzione, Festival Segnali), Renzo Boldrini (Teatro fra le generazioni), Renata Coluccini (Teatro del Buratto, Festival Segnali), Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Rodolfo Sacchettini (Altre Velocità), Sergio Lo Gatto (Teatro e Critica).
Ospiti invitati: Federico Mazzoleni* (disegnatore, Graphic News) e Silvia Mei** (curatrice indipendente e ricercatrice, Università di Bologna)


Il documento che segue contiene alcune domande e spunti in vista della giornata di incontro.

Porsi delle domande rispetto al cosiddetto “teatro-ragazzi” significa chiedersi innanzitutto chi sono i referenti di questo peculiare approccio scenico, di quale sguardo e immaginario li riteniamo portatori. Durante lo scorso anno, Altre Velocità assieme alle redazione di Teatro e Critica, Il Tamburo di Kattrin e Stratagemmi – Prospettive Teatrali ha dato vita al progetto “Planetarium”, un osservatorio critico sul teatro e le nuove generazioni. Siamo stati ospiti ai festival di Teatro fra le generazioni (Castelfiorentino), Segnali (Milano) e Maggio all’infanzia (Bari), incrociando anche la programmazione di SEGNI New Generations Festival (Mantova) con una specifica progettualità.
Abbiamo dunque articolato un percorso di scrittura e osservazione che ha provato a rimettere al centro dell’indagine critica il fenomeno del “teatro-ragazzi”, sia nelle sue espressioni concrete di compagnie, festival e rassegne che sentono di appartenere a una tale “etichetta” sia in quanto domanda di senso relativa allo statuto di quell’etichetta. Di cosa parliamo quando parliamo di teatro-ragazzi (o teatro intergenerazionale, tout public)? Riprendendo una domanda già formulata dal Giallo Mare Minimal Teatro in una precedente edizione del festival, ci chiediamo: Il teatro-ragazzi, oggi in Italia, esiste? Vale a dire, ha senso parlarne come un settore distinto dagli altri per la messa in campo di specificità estetiche e, non da ultimo, produttive?

Vorremo provare a dare delle risposte che siano il più possibile collettive e aperte, invitando operatori e artisti ad alcuni momenti di confronto che saranno poi trascritti e resi pubblici. Negli ultimi anni sembrerebbe che il tema sia stato un po’ accantonato dalla critica e dalla produzione saggistica. Ma – ci rendiamo conto – è forse tutta una serie di nodi più generali a essere uscita dal dibattito pubblico, a segnare un’empasse del discorso sulle arti e l’infanzia. Come si è evoluto il “patto” fra le generazioni? Dove e in cosa rinveniamo ancora istanze pedagogiche-educative che si prefiggano uno sviluppo dei giovani e dei giovanissimi, rispettandone l’autonomia di pensiero e creatività? Qual è – dopo un lungo periodo di continue riforme e aggiustamenti, nel tacito assenso generale se non per l’accensione saltuaria di polemiche di breve gittata – l’idea che abbiamo di scuola e di trasmissione di saperi?

Tali istanze sono state e continuano evidentemente a essere portate avanti da numerose realtà sul territorio, che le declinano nei loro campi di attività e afferenza più contigui (teatro, scuola, educazioni, sociale, impresa culturale, etc.). Ma forse mancano momenti di condivisione e riflessione collettivi, in cui provare a trarre dall’eterogeneità delle pratiche e degli sguardi alcuni principi e stimoli di rilancio comuni.
Anche per questo, nella stagione di festival che è alle porte, abbiamo immaginato alcuni incontri a metà fra il pubblico e il seminariale che coinvolgano artisti, operatori, educatori, critici e studiosi. Il primo di questi si terrà appunto all’interno del festival Teatro fra le generazioni di Castelfiorentino durante l’ultima giornata della rassegna in un convegno curato insieme alla direzione del festival, il prossimo 23 marzo dalle 15 alle 18.
Queste righe sono dunque da considerarsi come invito aperto a chi vorrà partecipare mettendo sul tavolo dubbi, riflessioni e questioni a partire dalle pratiche sostenute quotidianamente.

Ci piacerebbe mantenere la discussione molto ampia e inclusiva. Nel corso dell’anno appena passato, abbiamo individuato alcuni nodi di domande che ci sembrano particolarmente urgenti, nel tentativo soprattutto di provare a capire come si pone (o dovrebbe porre) il teatro ragazzi rispetto alle più recenti evoluzioni della narrazione e dell’intrattenimento nonché rispetto alla complessità crescente e che tutti accomuna nel ricevere e interpretare informazioni. Tali domande possono essere usate come traccia per portare un breve intervento o per inviarci un intervento scritto.

 

  • Esistono temi “difficili” se pensiamo ai giovani e ai giovanissimi?
  • Come andrebbero affrontati a teatro, ma più in generale a livello educativo?
  • Come si dovrebbero comportare il teatro e le arti di fronte alla serialità, a una comunicazione artistica che sembra fare della velocità e dell’intrattenimento “immersivo” le proprie caratteristiche?
  • Esiste un’istanza pedagogica nel teatro ragazzi, è qualcosa che si oppone al didattismo?
  • Più in generale, vorremmo anche provare a capire che cosa qualifica oggi l’immaginario infantile e per l’infanzia, qual è in fin dei conti la nostra idea attuale di infanzia.
  • Dunque, tornando alla domanda iniziale, il teatro-ragazzi esiste, o meglio, può esistere? Di cosa parliamo quando parliamo di Teatro Ragazzi oggi?

 
*Federico Mazzoleni
Disegnatore, ​lavora ​con lo pseudonimo cacofonico e collettivo Brochendors Brothers, si occupa di illustrazione e fumetto, web design e grafica. ​Membro dell’Associazione Mirada di Ravenna,​ nel 2014 ha contribuito a fondare la cooperativa Pequod, che opera nel campo della comunicazione per immagini e della produzione visiva. È tra i principali ideatori del progetto Graphic News, primo portale nativo digitale di informazione giornalistica interamente realizzata a fumetti, e dal 2015 fa parte della redazione.

**Silvia Mei
Opera da indipendente nella cultura teatrale contemporanea come studiosa e producer. Secondo un’ottica transdisciplinare si occupa di teatro e danza nelle loro relazioni novecentesche e nel contemporaneo, con particolare interesse alle forme della scena degli anni Duemila. Dopo il dottorato in Storia delle arti all’Università di Pisa e una borsa di studio internazionale della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, ha proseguito la sua attività di ricerca come assegnista presso l’Università degli Studi di Torino. È docente di Storia del teatro alla Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino e alla Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine. Critica e affiancatrice della nuova scena per la webzine di “Culture Teatrali” (www.cultureteatrali.org), collabora con diverse realtà festivaliere nazionali come consulente scientifica e artistica e dal 2006 svolge formazione del pubblico, ideando con Fabio Acca “L’occhio del Principe. Una scuola per spettatori” dell’Arena del Sole di Bologna. Autrice di diversi saggi e articoli in rivista, in italiano, francese e inglese, frequenta dal 2008 il teatro argentino e ne cura la trasmissione italiana

 




Un osservatorio sul teatro e le nuove generazioni

Il teatro che si rivolge alle nuove generazioni ci invita a un esercizio di pulizia dello sguardo. Non si tratta di porci solo una domanda sul “come”, ma di rimettere al centro una questione sul “perché” andiamo a teatro e su che cosa cerchiamo. Siamo convinti che uno dei nodi più rilevanti per chi oggi si occupa di arte stia nella trasmissione, nella pedagogia, nell’incontro che si esplicita soprattutto nell’incontro con chi ha meno anni di noi. Come il teatro dialoga con chi sta crescendo? Pensando alla costruzione dell’immaginario di chi oggi ha meno di vent’anni, cosa ha da dire il teatro? Ed è il teatro ancora un luogo dove un tale processo può accadere, magari con dinamiche proprie? Di che cosa si nutre chi fabbrica proposte teatrali per e con i giovani? E come le intendono, tali proposte, le nuove generazioni? Grazie alle arti riusciamo ancora a sollecitare dialoghi veri fra le generazioni, che siano spunto per avventure non mediate?

Con queste e altre domande ci apprestiamo a costruire un osservatorio sul teatro e le nuove generazioni, raccogliendo l’invito di tre festival: Teatro fra le generazioni di Giallo Mare Minimal Teatro a Castelfiorentino, Segnali di Teatro del Buratto ed Elsinor a Milano e Maggio all’infanzia del Teatro Kismet a Bari. Planetarium è il nome che abbiamo scelto, sperando di potere in minima parte ricreare l’eccitazione di quando si entra per la prima volta in un planetario, quella meraviglia per un mondo che magicamente appare sopra i nostri occhi, capace di sopravanzare almeno per qualche ora la realtà quotidiana, un mondo che c’invita a immaginare e a conoscere.

Il nostro Planetarium, per questi prossimi mesi, sarà coordinato da Altre Velocità ma è un progetto condiviso da quattro realtà anagraficamente vicine e che da tempo si pongono domande sullo sguardo e sul racconto: Altre Velocità, Stratagemmi, Il Tamburo di Kattrin e Teatro e Critica. Planetarium potrà proseguire in futuro anche con differenti configurazioni e collaborazioni, per adesso insieme cercheremo di condividere un terreno comune di interrogativi, di raccontarvi i tre festival giorno per giorno, invitando a riflettere gli artisti in programma e altri ancora, ma anche figure esterne al mondo dello spettacolo dal vivo come sociologi, educatori, insegnanti. Buona lettura