Riempire gli spazi vuoti: la libertà dell’immaginazione

Nel corso della IX edizione del festival “Teatro fra le Generazioni”, tenutosi tra Castelfiorentino ed Empoli dal 19 al 22 marzo, ci siamo posti diversi interrogativi. Abbiamo coinvolto nelle nostre riflessioni anche gli artisti e le compagnie presenti al festival (QUI): esiste un’istanza pedagogica nel teatro rivolto alle giovani generazioni? Che tipo di linguaggi esso utilizza e in che modo si relaziona con le nuove forme di comunicazione?

Intendiamo affrontare questi argomenti analizzando alcuni degli spettacoli presentati al festival. Tra i più interessanti emergono quelli che non hanno cercato facili scorciatoie, ma si sono rivolti al proprio destinatario con onestà, indagando la complessità dei contenuti proposti.

Si tratta di un teatro che non riduce e non soffoca i propri mezzi espressivi, ma anzi sfrutta strumenti diversificati, dalla figura alle ombre, dalla danza alle proiezioni. La scelta di utilizzare linguaggi evocativi e carichi di suggestioni nasce dal desiderio di lasciare uno spazio vuoto che l’immaginazione dei bambini potesse riempire: i bambini in questo modo si assumono la propria responsabilità di spettatori e prendono parte al gioco teatrale. La scelta di tempi distesi, di lunghe pause tra momenti narrativi e momenti dedicati allo scorrere delle immagini ha dimostrato la necessità, da parte di diverse compagnie, di restituire al pubblico di spettatori bambini quella lentezza e quell’attenzione minate dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

La questione dei linguaggi trova certamente grande spazio di riflessione nel teatro di figura, dove l’utilizzo di ombre, maschere, burattini, marionette, pupazzi e oggetti crea una frattura con la realtà, ma nello stesso tempo riesce a raccontarla evocando mondi e atmosfere. Un esempio di teatro di figura è “La gazza ladra”, spettacolo ideato da Paolo Valli e Katarina Janoskova, anche attori in scena, e pensato per bambini dai 3 anni in su. Il testo, scritto da Francesco Niccolini, che intreccia l’omonima opera di Rossini, della quale Mario Autore ha elaborato le musiche, con la storia del diluvio universale – la gazza fu l’unico animale a non ripararsi sull’Arca, ma a volarci sopra – viene raccontata attraverso immagini ispirate alle opere dell’illustratore genovese Emanuele Luzzati. Gli attori giocano sul palco, inventano ruoli, spazi e azioni sempre nuovi, invitando il pubblico a uno sforzo immaginativo e creativo. Gli spettatori sono immersi in un mondo che si arricchisce progressivamente di luci, sagome di cartone, ombre e musica in un crescendo di entusiasmo fino alla salvezza dal diluvio, che tutto lava riportando il colore.

Si rivolge a una fascia d’età più alta, dai 6 anni, “Non ho l’età”, una produzione di Riserva Canini e Campsirago Residenza, per la regia di Marco Ferro e Valeria Sacco. Lo spettacolo prende vita dalle riflessioni sul tema del tempo, condivise, durante un percorso laboratoriale, con bambini dai 6 ai 10 anni.  Attraverso l’utilizzo di una corda, che assume le più svariate forme, e due pupazzi, gli attori Manuela De Meo e Pietro Traldi costruiscono una partitura fisica che ripercorre le varie fasi della vita: il rapporto dell’uomo con la memoria, la nascita e la morte, l’amore. I rari momenti narrativi sono affidati a una voce fuori campo. I gesti sono concreti, funzionali, privi di qualsiasi stilizzazione e mantengono in questo modo tutta la loro emotività, caricandosi di attesa. Tra l’attesa e la realizzazione della forma c’è un tempo sospeso in cui tutto può essere o non essere, c’è il tempo dell’immaginazione e dell’intuizione. A differenza della colorata esuberanza de “La gazza ladra”, lo spettacolo di Riserva Canini lascia che la semplicità della messinscena tenga aperti tutti gli interrogativi sulla questione del tempo, “in modo che la fantasia possa collegare i puntini e costruire un disegno che sarà diverso per ognuno”, come ricorda l’attrice Manuela De Meo. Il bambino, in questo caso, non solo non viene messo al riparo dalla complessità del mondo, come spesso accade, ma, anzi, le sue stesse riflessioni diventano materia dalla quale attingere per la costruzione dello spettacolo.

locandina di Non ho l’età (dalla pagina Facebook di Riserva Canini Teatro)

Un altro interessante lavoro è La meccanica del cuore, una coproduzione del Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita, tratto dall’omonimo romanzo di Mathias Malzieu e diretto da marco Maccieri e Angela Ruozzi. Si tratta di uno spettacolo in cui sia la parola che l’impianto scenografico occupano un grande spazio. La storia, dai tratti fiabeschi, racconta di Jack, un giovane dall’oscuro passato, che può sopravvivere solo grazie a una magia della sua levatrice, Madeleine. La donna ha applicato al suo cuore un orologio, raccomandando al ragazzo di non innamorarsi mai perché questo sentimento potrebbe distruggere quel marchingegno al quale la sua vita è legata. Una storia che parla di crescita, di identità, del rapporto con la realtà. Scopriremo che l’orologio di Jack non è altro che il tentativo, da parte della sua levatrice, di proteggere il ragazzo dalle emozioni e dal dolore che possono procurare. Il ragazzo per anni vive con il peso della sua fragilità, della sua malattia, della sua infelicità. Jack si fida di Madeleine e solo quando si strappa l’orologio dal petto, preso dalla disperazione per un amore finito, si accorge dell’inganno. La realtà non è sempre come sembra e spesso le nostre convinzioni riescono a stravolgerla.  Si tratta di tematiche molto vicine al pubblico preadolescente al quale lo spettacolo si rivolge. La messinscena guadagna grande fascino grazie all’utilizzo di sagome e ombre, opera di Garioni e Montecchi. L’ombra diviene lo strumento per trattare gli elementi centrali e più sensibili dello spettacolo, come il ricordo, la scoperta dell’amore e della sessualità, il confine tra realtà e finzione. La scelta di questo linguaggio permette di ricreare l’atmosfera onirica del romanzo che si riempie di senso proprio grazie a tutti quegli elementi che lo allontanano dalla nostra realtà quotidiana, ma lo avvicinano alle nostre esperienze emotive. Come descrivere l’amore, la gelosia, la rabbia? “Mi sono sentito come se…” diciamo spesso. A volte abbiamo bisogno di una metafora per farci chiari. In questo spettacolo il linguaggio del teatro di figura diventa metafora di un mondo apparentemente sconosciuto.

Angela Ruozzi, regista de La meccanica del cuore, durante la nostra intervista al Teatro del Popolo di Castelfiorentino

L’utilizzo delle immagini diventa centrale nello spettacolo di Vania Pucci, “Di segno in segno”, una produzione di Giallo Mare Minimal Teatro che quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di repliche. Adriana Zamboni interagisce con l’attrice in scena realizzando delle immagini che per mezzo di una lavagna luminosa vengono proiettate su un fondale bianco, unico elemento scenografico, dando corpo al racconto. Vania Pucci attraverso una finestra guarda il mondo e lo descrive, passando dai pianeti agli oceani. Quando lo spettacolo nacque l’utilizzo della lavagna luminosa era una novità assoluta in teatro e permetteva di comporre in modo immediato le immagini sul fondale. Oggi i linguaggi utilizzati per questo lavoro diventano ancora più interessanti rispetto al discorso sulle nuove tecnologie, che sempre di più mettono i bambini di fronte a immagini preconfezionate. Vedere un’artista che con la sola abilità manuale aggiunge pellicole e colori mettendo insieme una forma dopo l’altra provoca una forte curiosità nello spettatore. “Di segno in segno”, un titolo che non a caso contiene anche il gioco di parole Disegno-Insegno, si colloca tra gli spettacoli che puntano sulla stimolazione sensoriale per raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità immaginative. Uno spettacolo che non rinuncia, dopo vent’anni, a portare in teatro una forma narrativa da fruire pazientemente, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto.

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno

L’utilizzo di linguaggi diversificati è stato dunque utile alle compagnie per rendere leggibile lo spettacolo a più livelli, per ampliare le possibilità di comprensione, per lasciarsi guidare dall’intuito. Il valore pedagogico di uno spettacolo, in fondo, non è rintracciabile anche a partire dalla scelta, di cui si accennava all’inizio, di lasciare degli spazi vuoti da riempire, di non imbrigliare l’immaginazione, ma di lasciarla correre libera? 

Nella Califano, Michele Spinicci




LA PAROLA AI PROTAGONISTI: COSA MANCA OGGI AL TEATRO RAGAZZI? – TERZA PARTE

La terza e ultima parte delle conversazioni con i protagonisti del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino raccoglie le risposte a una domanda che tocca alcuni nervi scoperti del teatro destinato al giovane pubblico e non solo.
Per le conversazioni sul rapporto tra teatro e pedagogia: qui la prima parte, qui la seconda parte.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Uno dei disegni dei bambini coinvolti nel progetto laboratoriale precedente la realizzazione di Non ho l’età (dal sito: comune.prato.it)

Credo che nel teatro ragazzi manchi un rapporto più continuo con i suoi destinatari. Questa è una possibilità che noi ci siamo creati incontrando gruppi di bambini prima di pensare all’allestimento dei nostri spettacoli: per noi è stato molto più funzionale che fare uno spettacolo con un tema al quale agganciare un laboratorio. Questa esperienza, secondo noi fondamentale per un artista, non è né prevista né agevolata da molte strutture, infatti in pochissimi casi esistono spazi in cui si possa sviluppare un lavoro che non si limiti alla performance.

Spesso compagnie che producono spettacoli per adulti quando si confrontano con un pubblico di bambini pensano che si debba abbassare il livello, quando invece è il contrario. I bambini sono interlocutori molto attenti, per loro sono importantissimi dettagli che molto spesso agli adulti sfuggono.

Vania Pucci Di segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Risultati immagini per vania pucci
Vania Pucci (dal sito: empoli.gov.it)

Oggi molti dei “grandi vecchi” del teatro ragazzi hanno messo i remi in barca, mentre i giovani spesso, non sapendo cosa c’è stato prima, finiscono per utilizzare linguaggi già superati, prendendoli per nuovi. In teatro non si inventa niente, al massimo si può restituire in maniera personale qualcosa di già sperimentato.

È cambiata molto anche la scuola e il nostro modo di rapportarci con essa: se prima era un buon alleato, ora dobbiamo ritrovare una complicità. Gli insegnanti si trovano di fronte a grandi difficoltà: ragazzi che vengono da culture diverse, genitori che entrano nello specifico del loro mestiere denigrandone il ruolo. È normale purtroppo che in un momento di crisi, il teatro non rientri più nelle priorità di questa istituzione.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui trovate l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, nello stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Molière, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroveremo in un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro.

È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui trovate l’intervista integrale)

Renata Coluccini (dal sito: ilflaneur.com)

Manca sicuramente lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade conosciute e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione in cui fare il punto e chiedersi cos’è oggi quello che facciamo.

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Seconda parte

Pubblichiamo il seguito delle nostre conversazioni con alcuni dei protagonisti della nona edizione del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino. Ci interroghiamo sul rapporto tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi e sulla scelta dei contenuti e dei linguaggi negli spettacoli da destinare al giovane pubblico. (qui la prima parte)

Simone Guerro Il grande gioco, Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata

Fabio Spadoni e Simone Guerro fuori dal Teatro del Popolo di Castelfiorentino, durante l’intervista per Planetarium.

Per noi il pubblico dell’infanzia non è mai un pubblico di bambini, ma un pubblico di persone, con la loro sensibilità e la loro complessità. La prima questione che mi pongo è quella del linguaggio, che significa essere all’altezza di quel pubblico, che è esigente e ti chiede verità, e non abbassare il livello o adoperare delle semplificazioni. Occuparmi di teatro ragazzi mi permette anche di fare teatro politico: credo, infatti, che oggi il vero teatro politico sia proprio questo perché il pensiero pedagogico è un pensiero politico.

Nello spettacolo “Il grande gioco” la morte è un pretesto per parlare della vita, perché della morte non c’è nulla da dire. Per parlare della vita occorre confrontarsi con il fatto che esiste un inizio e una fine, un tema che cerco di far emergere spesso. È nata così l’idea di due fratelli per i quali la morte diventa la possibilità di fare le cose importanti, di stare insieme, di volersi bene, perché non c’è più tempo da perdere.

L’altro tema fortemente politico di questo spettacolo sta nel fatto che in scena c’è un attore disabile, Fabio Spadoni, considerato dalla società un debole, una persona da accudire e per la quale provare compassione (un’idea che non mi appartiene per niente!). Nello spettacolo, invece, è proprio Fabio, affetto da sindrome di Down, ad avere il ruolo della persona forte, che prova a risollevare il fratello malato. La forza di Fabio sta nella sua gentilezza, nella sua allegria, lui non è mai cattivo e questa forza è quella che ritroviamo nello spettacolo. Far stare in piedi questo ragionamento è arte, è politica. Il tema che mi interessa di più è come una cosa delicata possa avere una forza prorompente: bisogna difendere la delicatezza mostrandone la forza.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Non ho l’età (dal sito:campsiragoresidenza.it)

Da diversi anni costruiamo i nostri spettacoli a partire dal materiale raccolto nei percorsi laboratoriali che facciamo insieme a gruppi di bambini di tutta Italia in presenza degli insegnanti, e che sviluppiamo intorno a un tema specifico. “Non ho l’età” ad esempio si interroga sul concetto di tempo.

Abbiamo incontrato bambini dai 6 ai 10anni e con loro abbiamo ragionato sul presente, sul passato sul futuro e su tutti gli aspetti legati allo scorrere del tempo, come la memoria, il ricordo, le esperienze che si fanno a seconda delle fasi della vita, il rapporto con i nonni e con gli anziani e il rapporto con la morte. Ogni incontro veniva suddiviso in due parti, una prima in cui con un registratore raccoglievamo gli spunti delle discussioni collettive e una seconda in cui a partire da quella discussione iniziavamo a elaborare fisicamente il tema proposto attraverso giochi, esercizi teatrali corporei e percettivi e, infine, attraverso l’espressione artistica (disegni, manipolazione della creta e dell’argilla…).

Questo processo per noi è fondamentale perché ci permette di costruire lo spettacolo con consapevolezza, a partire dalla percezione che il bambino ha sul un certo tema. Per noi l’importante è lavorare a tutto tondo, senza prefissarci degli obiettivi pedagogici, ma creare suggestioni, mettere un tema in campo e lasciare la possibilità ai bambini di svilupparli. Grazie ai bambini si possono aprire delle piste rispetto ai temi trattati, che a volte sono considerati tabù dagli adulti.

Parlare di morte a bambini di sette anni significa riportarli a un’esperienza che molti di loro in qualche modo hanno già vissuto, bisogna solo trovare la chiave giusta per affrontare questi temi, ma non rimuoverli, perché loro sanno bene che esiste una fine della vita. Certo sono temi delicati, per cui ci siamo chiesti quali mmaginari, quali parole, quali ritmi utilizzare per veicolarli. Questo richiede sempre un grande sforzo, per cui spesso ci siamo trovati a dover ricalibrare lo spettacolo a seconda delle reazioni dei bambini.

Katarina Janoskova e Paolo ValliLa gazza ladra, Compagnia L’asina sull’isola

Katarina Janoskova e Paolo Valli durante una scena de La gazza ladra

Nel teatro di figura si opera sempre uno spostamento di senso. Nel caso dell’ombra, quello che ci interessa è la possibilità di proiettare in quella macchia nera tutto ciò che si ha nella testa: non si tratta di una forma definita e questo aiuta i bambini, abituati oggi a immagini già pronte all’uso, a utilizzare l’immaginazione. Questo succede in tutto il teatro di figura perché non c’è il limite del corpo che ha l’attore fatto di carne e ossa. Gli spettatori, sia adulti che bambini, hanno tutto un mondo da investigare, un altrove evocato grazie alla magia dell’artigianalità. I bambini stanno
perdendo la manualità e lo stupore, per cui è necessario riportare la loro attenzione sulle cose semplici: questi antichi saperi sono in grado di farlo e in questo si manifesta decisamente una forma di pedagogia.

Simona GambaroPollicino, Teatro del piccione e Teatro della Tosse

Paolo Piano e Simona Gambaro durante una scena di Pollicino (dal sito: teatrodelpiccione.it)

L’intenzione nel nostro modo di fare teatro è quella di muovere delle domande: non vogliamo insegnare qualcosa, ma lasciare emergere delle questioni sulle quali tutti si possano interrogare. Il linguaggio che scegliamo di utilizzare è certamente calibrato perché possa essere compreso dai bambini, ma la fiaba già di per sé parla a ognuno di noi. Io non faccio uno spettacolo se non sento un fuoco dentro e anche la forma, l’immagine, che curiamo molto, sono sempre al servizio di questo fuoco, di una domanda esistenziale. Ogni volta che il teatro si manifesta, diventa esperienza e smuove qualcosa.

Io sono specchio degli spettatori e tramite insieme a loro di un incontro e in mezzo avviene qualcosa che lascia delle domande. Quando recito in Pollicino sono dentro a questo riverbero e ogni volta ritrovo nello spettacolo un pezzetto di me,della mia vita. Ne “La grammatica della fantasia” Rodari scriveva che le storie sono come un sasso lanciato nello stagno che crea cerchi concentrici:anche se tu non lo vedi, questo riverbero,questo cerchio che si allarga nell’acqua fa muovere tutto il resto, i bordi dello stagno,il filo d’erba e così via. In questo spettacolo noi non mettiamo il pubblico in una condizione di agio,ma di movimento, sperando che qualcosa riverberi ancora e ancora.

I formatori come i genitori e gli insegnanti hanno tra le mani una materia calda informe. Sicuramente dallo spettacolo scariruranno delle domande. Ci si butta insieme. I registi ci hanno detto di affidarci totalmente alla fiaba senza paura,di non aggiungere altro, ma di tenere dentro tutta la vita della fiaba più siamo fedeli e più lasciamo aperture, meno tentiamo di interpretare più lasciamo che quel bosco rappresenti per ognuno di noi un attraversamento diverso

Riccardo RombiVulcania, Compagnia Catalyst

Rosario Campisi e Giorgia Calandrini in una scena di Vulcania

«Il teatro è civile per definizione. I bambini sono pronti a recepire il messaggio che vogliamo trasmettere in modo immediato
con spettacoli come Vulcania, che tratta dei principi della nostra Costituzione Per loro è ovvio e intuitivo che ai diritti corrispondano i doveri. Tra loro non ci sono differenze, si rispettano profondamente, non distinguono le persone per il colore della pelle o per la provenienza. Sono gli adulti che non credono più nei principi della Costituzione e che in nome del realismo sono sempre pronti a porre ostacoli tra loro e i loro doveri. Il teatro oggi può e deve aiutare i bambini a diventare cittadini e persone libere».

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Parte prima

Interrogarsi sul teatro ragazzi significa innanzitutto considerarne il destinatario, lo spettatore bambino, che si trova nel pieno della sua fase di formazione.

Abbiamo approfittato della presenza al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino di attori, registi e drammaturghi che hanno visto nascere l’esperienza del teatro ragazzi o che a esso si sono avvicinati di recente, per domandarci, insieme a loro, in che termini si pone la relazione tra arte e pedagogia in questo contesto spettacolare e se questa relazione sia necessaria. A partire da questa domanda, la discussione si è allargata ai contenuti degli spettacoli e ai linguaggi utilizzati per renderli fruibili allo spettatore. L’utilizzo delle fiabe è una scelta adoperata in moltissime occasioni, ma le modalità di messinscena variano a seconda del valore che le compagnie riconoscono a questi grandi contenitori di archetipi. Lo stesso discorso vale per la scelta dei linguaggi. Abbiamo assistito a spettacoli in cui particolare rilievo era affidato alla parola, ad altri in cui si preferiva evocare la storia o parte della storia, attraverso immagini, ombre, suoni, luci.

La possibilità di confrontarci da una parte con delle
compagnie storiche e dall’altra con artisti approdati al teatro ragazzi in un
contesto storico diverso da quello in cui esso si è sviluppato, ci ha permesso
di riflettere, ascoltando diversi punti vista, sulle eventuali mancanze di cui
oggi il teatro ragazzi soffre e sul cambiamento che esso ha subito rispetto ai
suoi esordi.

In attesa di un racconto più approfondito di alcuni degli spettacoli presenti alla nona edizione del festival e di un ragionamento sui temi emersi nel corso delle nostre visioni, riportiamo la prima parte delle numerose e intense conversazioni raccolte nel corso di queste quattro ricche giornate a Castelfiorentino.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui l’intervista integrale)

Mila Boeri e David Remondini durante una scena di Amici per la pelle

L’educazione comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in scena.

Nel caso del nostro spettacolo l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Giusi Merli Pinocchi,Progetti Carpe Diem/La casa delle storie e Il Lavoratorio

Spesso chi realizza spettacoli di teatro ragazzi crede di rivolgersi a un pubblico che capisce poco o niente, per cui produce rappresentazioni che sono solamente divertenti. Questo però non è teatro, è un affronto ai bambini. Il vero teatro invece, come tutta la vera arte, è già di per sé pedagogico perché sa insegnare l’apertura e la ricettività verso i sentimenti e le emozioni. Sono proprio i bambini quelli più pronti a schiudere la mente, il cervello, l’anima davanti all’energia umana che il teatro porta con sé.

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di mettere in scena soltanto i primi quindici capitoli di “Pinocchio”, nato come un romanzo a puntate che si concludeva con la morte per impiccagione del protagonista. Non ci interessava molto il fatto che Pinocchio imparasse a comportarsi bene e diventasse un bambino vero, preferivamo far emergere l’umanità e la forza dirompente di questo personaggio, che è ciò che può comunicare di più ai bambini e a tutti gli spettatori.

Compagnia Zaches TeatroCappuccetto Rosso (qui l’intervista integrale)

Amalia Ruocco in una scena di Cappuccetto rosso

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.

Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli insegnanti.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della formazione del pubblico, ciò che ricerco è un effetto di meraviglia e la condivisione di essa. Scrivendo, il mio scopo è quello di creare un ponte tra il palco e la platea e fare sì che sia chi sta in scena che lo spettatore percorrano un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una parte. Per dare luogo a questo incontro è necessario un linguaggio comune, intriso di curiosità e meraviglia.  

Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a cuore a chi la racconta. In questo modo sarà in grado di evocare allo spettatore qualcosa della sua vita o, per un bambino, qualcosa che sia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Vania PucciDi segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno (dal sito: giallomare.it)

Tra chi pensa che il teatro ragazzi non debba avere nessun fine didattico ed educativo e chi considera queste componenti essenziali, io mi colloco nel mezzo. Il teatro ragazzi deve esprimere un contenuto artistico, ma non può ignorare che i suoi destinatari si trovino nel bel mezzo del loro processo di formazione.

Io ho studiato pedagogia e ho lavorato nella scuola dell’infanzia per molti anni prima di arrivare al teatro per bambini, che per me è stato un modo diverso e nuovo di relazionarmi con la scuola e i ragazzi; per questo nei miei spettacoli non posso trascurare l’aspetto formativo. La difficoltà è quella di comprendere i confini tra arte e pedagogia e in che modo coniugare questi due aspetti.

Nello spettacolo di oggi, nato venti anni fa, queste due componenti, quella pedagogica e quella artistica, coesistono ed è evidente già nel titolo: “Di segno in segno”, che si può leggere anche come “Disegno insegno”. L’utilizzo della lavagna luminosa nello spettacolo (che fu una novità all’epoca) ha un valore poetico, offre un momento di visione artistica, ma cerca anche di lavorare sulla creatività, facendo accostare i bambini a uno strumento che non conoscono.

Compagnia MaMiMòLa meccanica del cuore, Centro TeatraleMaMiMò e Teatro Gioco Vita (qui l’intervista integrale)

Una scena de La meccanica del cuore (dal sito: canalearte.tv; ph: Nicolò Degl’Incerti Tocci)

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono.

Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Nella Califano, Michele Spinicci




Oltre la fiaba: aprirsi alla complessità del mondo. Conversazione con Francesco Niccolini

Incontriamo al festival Teatro fra le generazioni Francesco Niccolini che esattamente un anno fa, in occasione della presentazione di “Digiunando davanti al mare” al festival di Castelfiorentino , ci ha parlato della sua attività di drammaturgo e della relazione con lo spettatore bambino (QUI l’intervista integrale). In questa nona edizione del festival conversiamo con lui dopo aver assistito ai lavori di due compagnie che si sono avvalse della sua collaborazione: “La gazza ladra” dell’Asina sull’Isola e il progetto “Il grande gioco” di Simone Guerro dell’Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata ATGTP. È emerso un punto di vista stimolante e provocatorio sulla necessità di “superare” la fiaba classica e di assumersi nei confronti delle nuove generazioni la responsabilità di parlare del mondo nella sua complessità.

Una delle domande che
ci siamo posti con il nostro osservatorio sul teatro ragazzi riguarda la
relazione tra arte e pedagogia. È un aspetto presente nei tuoi spettacoli?

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della
formazione del pubblico, io ricerco l’effetto di meraviglia e la possibilità di
condividerla. Io scrivo, per cui il mio scopo è quello di creare un ponte tra
il palco e la platea e fare in modo che l’attore e lo spettatore percorrano
insieme un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una
parte. Per rendere possibile questo incontro è necessario un linguaggio comune,
intriso di curiosità e meraviglia. 
Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a
cuore a chi la racconta; in questo modo sarà in grado di evocare nello
spettatore qualcosa che appartiene alla sua vita o, nel bambino, qualcosa che
stia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco
nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia
quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Quest’anno hai
collaborato alla realizzazione de “La gazza ladra” e del progetto “Il grande
gioco”, che abbiamo visto qui a Teatro fra le generazioni. Si tratta di due
lavori diversissimi. Come si coniugano la tua poetica e i tuoi obiettivi con
questi due risultati così distanti?

Quello che continua a piacermi da morire di questo lavoro è la possibilità di cambiare continuamente le forme del racconto. Ogni volta devi confrontarti con una sfida diversa, ed è ciò che mi incuriosisce e mi stimola: essere pronti a mutare il proprio approccio in base agli elementi presenti, trovare soluzioni capaci di esaltare ogni volta le diverse abilità e potenzialità comunicative presenti in scena. È un gioco sempre diverso in cui trovare la soluzione significa scoprire come gestire l’effetto di meraviglia.

Esistono degli
stereotipi rispetto alle modalità di relazione con l’infanzia, tra questi la
necessità di comunicare attraverso narrazioni edulcorate. Si tratta di un
orientamento presente non di rado anche nel teatro ragazzi. Come ti rapporti a
questa tendenza?

Personalmente non sono così convinto che il politicamente
corretto sia sempre necessario, soprattutto quando diventa un modo per
offuscare la realtà: ne “La gazza ladra” a un certo punto ci sono due animali
che litigano sull’Arca di Noè e si scambiano anche parole come “culo stretto” o
“ciccione”. Può non piacere, può sembrare strano, ma dobbiamo pensare che si
tratta di due personaggi su una nave scossa dalle onde del mare in tempesta.
Immaginare che si mettano a fare una discussione in punta di forchetta sarebbe
assurdo. Non penso che i bambini vadano continuamente protetti, illudendoli di
vivere in una fiaba serena e felice. Lo stesso mondo dei bambini può essere
estremamente crudele. Non voglio dire che si debba cercare un effetto
traumatico, ma rendere progressivamente conto della complessità che ci
circonda. Bisogna cominciare a introdurre tutti gli aspetti duri e anche feroci
della vita, proprio per permettere che i bambini non li affrontino da soli.

Qual è il principale
problema del teatro per ragazzi oggi?

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, allo stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Moliere, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroviamo all’interno di un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro. È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Nella Califano, Michele Spinicci




Vedere il lupo da vicino: conversazione con Zaches Teatro

«Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno
già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono
essere uccisi»

G. K. Chesterston

La compagnia Zaches Teatro utilizza questa citazione per presentare il suo Cappuccetto rosso al festival “Teatro
fra le generazioni”. Una produzione in collaborazione con Giallo Mare Minimal
Teatro, Fondazione Sipario Toscana, La Città del Teatro e Regione Toscana. In
scena, gli interpreti Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Daria Menichetti.

A partire dalle domande su cui ci stiamo interrogando nel corso di questa
IX edizione di “Teatro fra le generazioni” abbiamo intavolato una breve
conversazione con la regista Luana Gramegna (che si è occupata anche della
drammaturgia e della coreografia), Francesco Givone (scene, luci, costumi e maschere)
e Stefano Ciardi (progetto sonoro e musiche originali).

Negli ultimi anni si parla spesso di formazione del pubblico. Quale pensate
sia il legame tra arte e pedagogia?

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia
e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la
nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo
intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.
Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico
quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è
perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione
più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante
offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni
che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli
insegnanti.

A proposito di stimoli: oggi i bambini sono abituati a un sovraccarico di
informazioni, a un flusso rapido di immagini. Voi comunicate attraverso la
danza, la maschera, le ombre e nel vostro spettacolo ci sono molti momenti di
silenzio. Quali sono le ragioni di questa scelta?

Forse il problema più grande degli ultimi anni è legato al ritmo, che
spesso ci obbliga a creare montaggi sempre più serrati per seguire il tipo di
fruizione a cui sono abituati i giovanissimi. Nel nostro modo di lavorare c’è
la volontà di recuperare ciò che da sempre appartiene alla memoria teatrale e
umana, come le maschere e le ombre, che colpiscono il nostro
immaginario più di qualsiasi altro linguaggio. Si tratta di strumenti semplici
ma capaci di parlare ai bambini di oggi.

Lo spettacolo è consigliato a partire dai 4 anni, pensate che questo tipo
di lavoro sia adatto a un pubblico così giovane?

Noi lo consigliamo dai 4 anni perché pensiamo che i bambini a quell’età possiedano la capacità di operare fortissime associazioni attraverso l’uso delle immagini, senza la necessità della parola, che spesso porta a chiudersi dentro alcuni schemi mentali. Nel percorso verso l’età adulta più impariamo, più perdiamo qualcosa. I bambini invece hanno ancora la capacità di avvertire l’archetipo della fiaba, non a livello concettuale, ma emozionale ed è questo che a noi interessa. Esiste già una grande offerta di spettacoli didattici che si occupano di veicolare informazioni, ma per noi è importante che il bambino conservi un’emotività viva.

Il linguaggio che usiamo non è fruibile da tutti allo stesso modo, ma siamo convinti che non sia una debolezza, bensì un punto di forza. Lo spettacolo, che rispetta la struttura originaria della fiaba, può essere letto in modo stratificato: un pubblico più preparato potrà individuare tutti i simboli che la fiaba contiene, esistono però anche livelli di lettura più semplici.

Per la messa in scena del vostro spettacolo avete consultato diverse
versioni della fiaba di Cappuccetto rosso. Come avete presentato agli
spettatori gli elementi più inquietanti e crudeli contenuti in esse?

La fiaba nasce come racconto indirizzato non soltanto ai bambini. Semplificarla e renderla rassicurante equivale a sminuirla. Non si può privare la fiaba di tutti quegli aspetti inquietanti che le appartengono. Nello spettacolo c’è un momento in cui il lupo scende in platea, ma dopo una tensione iniziale, i bambini di solito cominciano ad accarezzargli il muso. Vedere il lupo da vicino assume una funzione catartica, di svelamento e dunque di superamento della paura. Per noi è un momento fondamentale, perché permette ai bambini di avvicinarsi alla paura, conoscerla, darle un volto. La paura nasce da ciò che non conosciamo. Coraggioso non è chi non ha paura, ma chi decide di non sottrarre lo sguardo davanti a essa. La paura non deve essere censurata, ma gestita. Costituisce una parte importante del nostro essere, della nostra crescita. Non abbiamo intenzione di presentare ai bambini un mondo che non esiste, ma di farli rispecchiare nella realtà in cui vivono, prepararli a un universo che diventa sempre più complicato. Il vero problema, oggi, sono gli adulti che non sanno gestire la paura.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




Verso nuovi immaginari comuni: conversazione con Renata Coluccini

Siamo
a Castelfiorentino, sede insieme a Empoli della IX edizione di Teatro fra le
generazioni, organizzato dalla compagnia residente Giallo Mare Minimal Teatro.
Una delle modalità che abbiamo scelto per raccontare i quattro giorni di
quest’anno (dal 19 al 23 marzo 2019) è una serie di brevi conversazioni con
alcuni dei professionisti presenti, in cui ci concentreremo particolarmente sul
rapporto che l’arte intesse con la pedagogia all’interno del teatro per
ragazzi.

La
prima di queste interviste è a Renata Coluccini, del Teatro del Buratto. La
incontriamo al Teatro del Popolo di Castelfiorentino, immediatamente al termine
di Amici per la pelle (il titolo è
ancora provvisorio), una coproduzione Teatro del Buratto e Atir Teatro
Ringhiera di cui è regista. Lo spettacolo, con la drammaturgia di Emanuele
Aldrovandi e Jessica Montanari, apre il secondo giorno del festival. Gli
interpreti sono Mila Boeri e David Remondini.

Lo spettacolo presentato in forma di studio è al suo debutto. Al termine, la Coluccini non manca di domandare ai bambini le loro impressioni. Cosa non hanno capito, cosa li ha resi tristi e cosa li ha fatti ridere. Del resto, come ci dice poco dopo, recepire le reazioni, positive o meno, dei propri interlocutori è il primo passo per cercare nuove strade, per arrivare a un momento di “ridefinizione”.

Come si manifesta in questo spettacolo il rapporto tra arte e pedagogia?

Devo
premettere che per questo lavoro si sono incontrate per la prima volta diverse
persone e diverse realtà: Emanuele Aldrovandi e Jessica Montanari che hanno
scritto il testo, gli attori, Mila Boeri e David Remondini, che vengono
dall’Atir Ringhiera, e io che sono del Teatro del Buratto. Io vengo dal teatro
per ragazzi, gli altri no, o non solo. Perciò durante tutto il percorso, nelle
discussioni sul testo, sulla messinscena, la regia, mi sono trovata spesso a
dire “questo è giusto per i ragazzi, quest’altro non lo è”. In questo modo ho
anche dovuto pormi degli interrogativi sulla questione, dare delle risposte e
motivarle. Non sempre è stato facile, ma certamente è stato utile.

L’educazione
comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto
d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e
chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che
curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è
che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in
scena.

In questo caso l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Ci ha colpito molto l’essenzialità della rappresentazione. È uno strumento per accendere l’immaginazione nel tuo pubblico?

Questo è un punto cruciale. Il teatro, per ragazzi ma non solo, più evoca e meno descrive e meglio è. Solo così diventa un incontro, un momento comunitario tra chi lo mette in scena e chi partecipa da spettatore allo spettacolo. Se porti il pubblico a mettere la sua carne, il suo pensiero, il suo cuore nello spettacolo, senti di costruire dei paesaggi immaginari comuni, che cambiano a seconda di dove vai e degli spettatori che incontri. È una delle cose più affascinanti del teatro per ragazzi, il pubblico ti fa davvero cambiare lo spettacolo.

L’ho detto anche ai miei attori per questo spettacolo: se riuscite a prendere i ragazzi per mano e a fare un viaggio con loro, una volta terminato, sarete cambiati anche voi. Certo, è un’esperienza che dura poco, 50 minuti, ma ogni volta è tangibile e differente, ogni volta si incontrano nuove reazioni e si creano nuovi immaginari.

L’essenzialità poi aiuta a fare emergere le parole – e in questo spettacolo ce n’erano di particolarmente belle – ma anche il silenzio. Di immagini direi che forse siamo anche saturi.

La presenza così forte di silenzi potrebbe essere una sfida rispetto ai tempi frenetici della contemporaneità?

Sì, come anche la presenza di dialoghi lunghi e complessi. Ci ha sorpreso quanti concetti “difficili” o “da adulti” sono arrivati con forza ai ragazzi e li hanno colpiti.

Cosa pensi che manchi oggi al mondo del teatro per ragazzi?

Sicuramente
lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e
teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si
concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei
contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade
conosciute, e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione, in cui chiedersi cos’è oggi quello che facciamo, in cui fare un punto.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




La questione del futuro. Intervista a Renzo Boldrini

Lo abbiamo incontrato 2017 e con il direttore di Teatro fra le Generazioni Renzo Boldrini avevamo discusso di teatro popolare, di intrattenimento, leggerezza e densità. Nel 2018 era emerso il concetto di “spettatori dionisiaci”, ma anche la necessità di guidare una fragilità dello sguardo.
Nel 2019 siamo giunti alla nona edizione del festival e il discorso si sposta sui modelli organizzativi, ma anche su quel confronto fra adulti e giovani che si è interrotto nel teatro come nella società.

Renzo Boldrini, ci introduce alla presente edizione, la nona?

Teatro fra le Generazioni arriva alla nona edizione, dunque il primo anno di attività ha coinciso con la legge regionale del 2010 che ha dato il quadro legislativo al sistema delle residenze artistiche della Toscana. Non è un caso, perché la pratica delle residenze ha a che fare con il radicamento, si tratta del rapporto stabile e quotidiano di chi fa vivere un teatro con il territorio che gli sta intorno. La residenza ogni giorno sperimenta azioni per un ravvicinamento fra il teatro e la polis, e da questa pratica nasce Teatro fra le Generazioni, la punta di una piramide di attività della residenza Giallo Mare Minimal Teatro anche sul territorio di Castelfiorentino e di Empoli, parte della residenza interprovinciale dove operiamo. Si tratta allora di un modello che non concepisce la residenza solo come un rapporto fra i luoghi e le compagnie, ma come un presidio culturale artistico che gestisce, programma, produce, forma, promuove e realizza. Io ricopro il ruolo di coordinatore regionale delle residenze toscane, credo non a caso, stiamo infatti parlando di un modello progettuale che rispecchia la stessa idealità alla quale si sono ispirate le compagnie professionali di teatro ragazzi dopo il periodo dell’animazione, che va dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70. In quel momento nasce in Italia il teatro per l’infanzia e la gioventù, in quel momento le compagnie “fondatrici” hanno costruito un modello per i venti o trent’anni a venire. Vedo molte affinità tra l’afflato di quel periodo e le domande che attraversano le residenze toscane oggi, anche allora c’era la necessità di incontrare comunità più definite, pensiamo al mondo della scuola, o di radicarsi nei territori in cui si lavorava.
Teatro fra le Generazioni cerca di essere generale e specifico nello stesso tempo perché non si pone il problema di includere uno spettatore visto secondo lo stereotipo del “primitivo culturale”, ma anzi si interroga sulle strategie, i linguaggi e le modalità specifiche da utilizzare per rivolgersi a un pubblico differenziato e particolare allo stesso tempo.

Cosa manca oggi al teatro ragazzi?

La capacità di fissare questo fenomeno con serietà. Non mi risulta, per esempio, che esistano tesi di laurea che non si fermino solo alla preistoria del teatro ragazzi in Italia. Questo non accade perché non esistano testi o riflessioni critiche e storiografiche, eppure forse per gli studiosi il teatro ragazzi è avvertito ancora come un genere minore.
La Toscana, insieme al Piemonte all’Emilia-Romagna, storicamente è stata una regione motore in una nazione dove ogni singolo comune, quasi per una necessità ideologica (alla quale non corrispondeva sempre una qualità delle proposte), aveva una rassegna di teatro per le scuole, per le famiglie, per i ragazzi. Oggi il campo si è ristretto in maniera importante: quella del teatro ragazzi è una zona di non consenso perché i bambini non sono ancora elettori, dunque si preferisce concentrare un’attenzione anche politica ed economica su una maggiore quantità di titoli nella stagione di prosa. È un procedere che rassicura. Io cerco di fare un festival sostanzialmente autoprodotto e “autonominato” ma capace di rivolgersi a diverse generazioni, non teatro “per” le generazioni di giovani ma “fra” le generazioni, includendo anche spettatori piccolissimi.

Cosa vedremo quest’anno in programma, dal 19 marzo al 22 marzo?

Comincio col dire senza un euro di finanziamento in più, passiamo da tre a quattro giorni. Abbiamo venti proposte delle quali cinque sono progetti in divenire, studi o percorsi in fieri, con il festival come palestra per trasformare materiali quasi solo ideati a spettacoli ben definiti e maturi. Sono interessato alla varietà perché vorrei che Teatro fra le Generazioni non fosse solo una vetrina per operatori, lo penso come un cantiere e un punto di incontro tra le figure che operano intorno a quest’area creativa. Apriamo per il secondo anno consecutivo con l’assemblea Assitej, che raccoglie direttori di teatro, operatori, artisti; ospiteremo un corso di formazione per insegnanti. Tra le proposte in cartellone ci sono compagnie che vengono da tutta Italia e ben cinque coproduzioni, segno di un terreno dove si favorisce l’incontro tra storie e generazioni diverse. A livello tematico segnalo solo la presenza di alcuni lavori che sfatano alcuni luoghi comuni della fiaba e altri nei quali è molto viva l’attenzione al rapporto con il mito.

Esistono dunque nel teatro ragazzi delle tematiche urgenti, oppure dei temi tabù ?

Esistono tabù enormi. Manca in questo momento la possibilità di prendere di petto con dignità la questione del futuro. Credo che farebbe bene rinsaldare, anche grazie al teatro, un rapporto vero fra pubblici di adulti e di bambini. Poi ci sono i nodi legati al cambiamento in atto, a livello sociale: cambia la società, cambiano le domande, cambia l’immaginario. Pensiamo per esempio all’utilizzo della tecnologia e al mutamento che comporta nel rapporto intersoggettivo e relazionale, non solo tra i più giovani. Solo chi si occupa di questo tipo di teatro sa cosa vuol dire oggi tenere per un’ora, nella sospensione del ritmo teatrale, una comunità di bambini abituata alla rapidità.

Cosa si augura per il teatro ragazzi?

Mi auguro che si creaino le condizioni per una riflessione sul teatro ragazzi come fenomeno culturale, vorrei aprire un tavolo di confronto scevro da soluzioni pre-acquisite, un confronto serio. Trovo ingiusto che questo fenomeno nel suo complesso non abbia trovato una sponda universitaria permanente, così come mi piacerebbe che i tentativi di relazione con la critica (Eolo e Planetarium, per esempio) proseguissero in vista di più ampi ragionamenti condivisi, oltre le singole recensioni.

A cura di Nella Califano




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Teatro fra le generazioni. Conversazione con Renzo Boldrini

Con il presente dialogo inauguriamo una serie di conversazioni sul teatro che dialoga con le nuove generazioni, assecondando la rete informale che si è venuta a creare fra Teatro fra le generazioni di Giallo Mare Minimal Teatro a Castelfiorentino, Segnali di Elsinor e del Teatro del Buratto a Milano e Maggio all’infanzia del Kismet a Bari. Partiamo con Renzo Boldrini, direttore artistico della rassegna toscana, dal 22 al 24 marzo 2017.

Renzo Boldrini, da alcuni anni avete fondato Teatro fra le generazioni, rassegna che da subito è divenuta appuntamento centrale del panorama italiano del cosiddetto “Teatro ragazzi”. Partiamo da questa etichetta, stretta e chiara come ogni definizione…

Se parliamo di teatro ragazzi dobbiamo dire di un’azione creativa mirata, che ha un referente particolare. Personalmente credo che il teatro, dai greci alle forme performatiche contemporanee, lo abbia sempre fatto: pensa un immaginario, un referente sociale, culturale, cerca un platea specifica. In questo caso, però, la responsabilità è maggiore. Evidentemente quando dialoghi con un bambino di 3 anni devi mettere in pratica dei meccanismi di salvaguardia rispetto a ciò che puoi raccontare o meno e a come farlo senza che questo diventi una sorta di trauma. Tutti stiamo assistendo, anche se non si tratta di uno spettacolo rivolto a bambini così piccoli, al caso di Fa’afafine , coprodotto dal CSS del Friuli Venezia Giulia e dal Teatro Biondo di Palermo, o di recente, visto che si parla di una platea molto larga, perfino a un’interpellanza del consiglio comunale di Scandicci dopo la visione di Lourdes, dove Andrea Cosentino è in scena con la regia di Luca Ricci, per il modo in cui tratta uno stereotipo del vivere sociale come i viaggi religiosi.
Ciò che stiamo cercando di fare a Castelfiorentino è mettere in moto alcune energie che con quel “fra”, che non è un escamotage grammaticale, provano a rivendicare un’operatività necessariamente legata a dei referenti, anagrafici, culturali, politici. Senza trincerarsi però, questo è il punto, dietro un’idea di esclusività, in un’ottica di separazione o autoesclusione, e cercando di dar avvio – per scelte tematiche, strategie di carattere compositivo ed elementi da ridefinire a seconda dei percorsi – a un ragionamento e a un dialogo più ampi in termini di platea di riferimento.

Facciamo qualche esempio…

Da molti anni ci occupiamo di una programmazione serale per le famiglie, un target costitutivamente intergenerazionale. Rispetto all’offerta artistica le possibilità prospettiche sono due: o scegli di proporre agli adulti che accompagnano i bambini spettacoli che non si riferiscono loro, con il rischio che si annoieranno mortalmente, o scegli opere che tentino di rivolgersi in modo trasversale a differenti immaginari, aspettative, gradi culturali, proponendo quell’operazione che in Francia si chiama tout public. Si tratta di parlare in contemporanea, pur avendo uno spettatore privilegiato, a una platea più grande attraverso un teatro popolare e d’innovazione insieme. Vorrei rivendicare un tentativo che è in atto anche in termini storici. Il teatro ragazzi esiste da circa cinquant’anni, è un oggetto storicamente molto giovane, e la domanda di fondo è: ha senso parlare di arte per l’infanzia? Se mi guardo intorno, in Italia, direi di no. Ma questo è un problema di arretratezza culturale (pensate ai musei che non hanno quasi mai una sezione didattica rivolta ai più piccoli, diversamente dalla tradizione mitteleuropea, anglosassone). Quindi: è arte quella che si rivolge a un pubblico “primitivo” come quello dell’infanzia? E quali sono le strategie da mettere in campo rispetto a una platea che comprende bambini piccoli, adolescenti, famiglie, che sono soggetti fra loro così diversi? Quel “fra” tenta di creare ponti che stiano il più possibile dentro la storia del teatro.

Hai parlato del “fra”, noi avevamo ragionato in partenza sulla relazione dialettica tra il teatro “con” i ragazzi e il teatro “per” i ragazzi, dunque in qualche modo hai già fatto una riflessione che amplia la nostra …

Lo sottolineo con forza: è un ragionamento di prospettiva. Va ricordato che noi siamo una residenza, la nostra azione è praticamente autoprodotta ed è l’unica che ha ancora questa valenza in Toscana, una delle regioni che ha dato origine a una modalità di lavoro in campo residenziale. Il nostro tentativo va nella direzione di un allargamento dello sguardo, vorremmo non essere più i paria di un problema che riguarda tutto il teatro d’innovazione, cioè l’autoreferenzialità. E tale tentativo avviene nonostante una disattenzione furibonda sul versante politico e anche su quello critico. Tutte le volte che nasce un fiore sensato in campo artistico è quasi un miracolo, perché il rischio è intraprendere un destino sottoculturale, se si usano le briciole di attenzione istituzionali per costruire, appunto, una trincea che è “per”, ma lo è in sottrazione.
Dagli anni Settanta ai primi del Duemila si parlava di “teatro vocato” e la domanda era: qual è il motivo per cui qualcuno mira in maniera così precisa al proprio agire? Si parlava a torto o a ragione di vocazione, bisognava aver voglia di fare teatro per i bambini, ragazzi, e l’urgenza era trovare i motivi validi di una relazione con una platea particolare. Il mio era la libertà connessa a questo pubblico “primitivo”, uso il termine nell’accezione grotowskiana, a un’ignoranza sacra, un pubblico disposto a incontrarti su un dato oggettivo, per il quale funzioni o non funzioni, affascini o non affascini. Non c’è niente di più terrificante di uno spettacolo non riuscito con i bambini, perché loro se ne fregano, vanno via, pur essendo un pubblico mediato, quindi accompagnato. Direi che il livello della vocazione negli ultimi anni si è trasformato. Ci sono una serie di compagnie che tradizionalmente lavorano più nel campo del contemporaneo, dell’innovazione, e che invece frequentano, anche in maniera significativa, il mondo della produzione per le nuove generazioni – penso a tutto il percorso del Teatro delle Briciole, de I sacchi di sabbia o di Silvia Gribaudi, Abbondanza/Bertoni, Sotterraneo. Queste proposte creano un ponte fra una tradizione e un’area creativa che, in qualche maniera, rinuncia alla vocazione (che è splendida ma produce anche settarismi). Da una parte dunque c’è una frequentazione qualitativamente alta di questo mondo, dall’altra a mio avviso c’è la necessità di un sostegno anche culturale più preciso. Una possibilità di ampliamento dello sguardo praticata ma ancora fortemente sottovalutata.

Hai parlato di alcuni principi come la salvaguardia, il riferirsi a pubblici diversi ecc. Come li hai resi operativi, in questi anni?

Parto dall’esperienza organizzativa: l’operazione che stiamo condividendo anche in questo osservatorio mette insieme tre luoghi, Castelfiorentino e due importanti città come Milano e Bari… una residenza e due centri di produzione. Si tratta di un primo dato importante: noi siamo una residenza capofila del sistema di residenze storicamente più strutturato rispetto al panorama italiano. Mi pare che già qui, dov’è una struttura in fin dei conti “fragile” a sollecitare la nascita di progetti di sistema, si disegni un’anomalia. Ne siamo felici, ma è anche insufficiente, credo ci sia bisogno di porre con insistenza domande specifiche: è necessaria questa area creativa e perché? È parte del teatro d’innovazione oppure è una forma minoritaria, succedanea, più legata a un modello educativo che artistico? Il fatto che ne stiamo discutendo e che lo faremo anche a Milano e a Bari è una parte della risposta alla tua domanda, è urgente attuare un cambiamento di sguardo, farci aiutare e affiancare.

In seconda battuta creso sia cruciale la presenza della politica, noi durante il festival avremo una serie di incontri anche con politici invitati a dialogare e non solo a “presenziare”. Con l’assessore e vicepresidente della regione Monica Barni discuteremo di residenze e del modello organizzativo del teatro d’innovazione; sarà presente Vittorio Bugli, assessore in giunta regionale che ha la delega all’immigrazione con il quale discuteremo di come la specificità del teatro fra le nuove generazioni può interagire con le politiche di accoglienza. Il teatro è un’azione artistica e culturale abituata a relazionarsi con bambini, adolescenti e giovani immigrati di seconda e terza generazione che nei nuclei familiari sono spesso responsabili della mediazione (sono nati qui, conoscono la lingua).
Mi viene da allargare il campo, e chiedermi che cosa significhi oggi il “rischio culturale”? Spesso nella storia è stato definito come scommessa ardita dei modelli rappresentativi, come avanguardia estetica. Vorrei ridiscuterne a partire dalla sua funzione pubblica, perché questo credo sia il teatro ragazzi all’interno delle comunità sociali, per esempio nella scuola. Chi non la frequenta crede che la scuola sia una sorta di serbatoio per le nuove generazioni, ma oggi lavorare per le scuole è estremamente difficile, è più facile organizzare un festival che strutturare una buona stagione di teatro scolastico, almeno nel nostro territorio. La scuola è diventata impermeabile grazie anche alle varie regolamentazioni (Gelmini ecc.), penso dunque sia bene ridiscutere insieme cosa abbia senso sostenere oggi, anche politicamente, rispetto al rischio culturale. E qui faccio un passo indietro rispetto alla questione organizzativa. Si vocifera che nel nuovo codice dello spettacolo ci sarà una quota riservata a progetto con il Miur. Dovremmo esserne contenti, noi che ce ne occupiamo quotidianamente? Se questo è inteso come “risoluzione del problema” è preoccupante, rischia di diventare una riserva indiana. Il teatro fra le nuove generazioni, nelle varie sue articolazioni, dovrebbe rimanere dentro al comparto Mibact e qualificarsi attraverso relazioni con il Miur. Se poi ci fosse una clausola sarebbe ancora meglio: si dovrebbe indicare che le attività teatrali a scuola devono essere fatte insieme a quelle imprese culturali e quei professionisti che da sempre si occupano di quest’area.

Prima parlavi di teatro popolare, vogliamo precisare il senso di questo aggettivo?

Popolare nel senso di un teatro che non taglia fuori in maniera aprioristica fette importanti di aree sociali come i bambini, i ragazzi, gli adolescenti e le comunità scolastiche, appunto, tutte figure che possiamo definire “spettatori del tempo presente”. Popolare perché non può far altro che cercare un dialogo con le estetiche che parlano al presente del teatro e della società. Io mi arrabbio abbastanza quando si pensa che l’obiettivo del teatro fra le generazioni sia formare la platea del futuro. Si parla dell’oggi, sempre.

Il teatro fra le generazioni ha a che fare con l’intrattenimento, ma l’intrattenimento non basta. Come farci i conti?

Mi ricordo un convegno a Cascina in cui ci si poneva proprio queste domande, nel 1985. Le stesse domande tentò di farle Ugo Volli e rispose Marco Baliani: intanto venite a vedere gli spettacoli, disse. Denunciò una difficoltà straordinaria e allo stesso modo oggi, come dicevo, credo sia importante riallacciare un dialogo che sia anche feroce e critico con diversi addetti ai lavori. Questa era una battuta ma è per dire che in quel periodo, il teatro ragazzi ha comunque rigenerato una serie di tradizioni perse. Penso alla narrazione, al percorso di Baliani ma anche ai primi vagiti delle esperienze nate a Settimo Torinese. E poi penso ad alcune sperimentazioni fra parola, corpo e narrazione – mi autocito – come il progetto Tele-Racconto di Giallo Mare con Giacomo Verde o al Tam Teatromusica dei primi tempi e così via.
Gli aspetti organizzativi non si possono scindere da quelli artistici, in quegli anni c’era anche qualche possibilità produttiva in più, e la tensione rispetto al pubblico che in questo settore forse è più aperta che altrove non deve scadere nella volgarità, nel pressapochismo o in tutto ciò che sta prima della scena, come forse accade nel teatro mainstream e commerciale. Sarà interessante ragionare sul portato della parola “intrattenimento”, come suggerite. È una parola che mi è ostica, però accanto c’è la parola relazione, e anche il suo contrario che è l’assenza di relazione. Che spazio c’è tra l’intrattenimento “volgare” (così come lo intendiamo noi, come nozione) e l’ovvia necessità e la capacità di avere un pubblico da incontrare nel campo dell’estetica?

Prima hai usato il termine primitivo, pensando al pubblico… forse qui sta una chiave?

Il pubblico del teatro ragazzi è un pubblico primitivo, dotato di strumenti culturali minori, in formazione, spesso è composto da bambini o anche da adulti che accompagnano i figli e non hanno mai messo piede a teatro. Un pubblico che, negli esempi più felici, non nutre aspettative legate a luoghi comuni teatrali, cerca invenzione di linguaggi, tecnica, modelli compositivi e l’accoglie di buon grado. In questo senso bisognerebbe avere più tempo per riflettere, tutti rivendichiamo l’appartenenza a un panorama teatrale tout court, non vogliamo essere ghettizzati. Non posso che rispondere a una domanda con una domanda, non ho risposte forti, torno a quella originaria: è necessaria quest’area creativa? Che finalità ha? È è possibile praticarla? Rispetto al versante estetico quest’anno ho visto degli spettacoli straordinari, che non necessariamente sono in questo programma… Sherlock Holmes di Collettivo Cinetico, i lavori di Michelangelo Campanale de La luna nel letto, residenza di Ruvo di Puglia, quelli di Teatro Gioco Vita. Esistono opere che raccontano dei punti di vista, sono come piccole torri, degli avamposti ai quali rivolgersi per rispondere alla domanda che mi hai posto e che sollecitano una discussione.

Se questo è un punto di vista da cui emergono i contenuti, il tema si evidenzia anche per ciò che riguarda le forme. Abbiamo rintracciato come lentezza e densità fossero delle parole chiave per la creazione e la fruizione dell’opera d’arte, ma riscontriamo oggi come il mondo contemporaneo sia caratterizzato da un ritmo di certo più veloce che in passato. Come si può rapportare l’arte – penso soprattutto alla scelta dei mezzi espressivi, linguistici – a confronto con questa sorta di diacronia?

Si tocca qui un punto fondamentale che esula dal teatro ragazzi, una rivoluzione in cui il teatro è un campo di particolare interesse: c’è un rischio fortemente degenerativo della capacità d’ascolto, perché la fruizione avviene con scarti ormai velocissimi, e c’è una grande difficoltà a mediare la necessità interna dell’opera rispetto alla necessità del pubblico. La reinvenzione di simulacri tradizionali come le marionette, i burattini, elementi di un teatro di figura troppo spesso riferito al solo mondo dei bambini, può fornire un grande aiuto a cospetto di una possibile disattenzione, un mezzo di confronto a bassa definizione, artigianale, per un pubblico costretto dentro gli apparati di un linguaggio ad alta definizione. Si tratta più precisamente di riportare indietro, alla forma ancestrale, le stesse figure che i ragazzi gestiscono tramite dispositivi di controllo digitali, per fare in modo che il linguaggio del computer possa entrare nella drammaturgia teatrale, accogliendo e non rifiutando i suoi elementi. È pur vero che ancora oggi non c’è un laboratorio comune di indagine perché si possano ideare storie esemplari, tali da formare un immaginario che contempli questo scarto linguistico.

Il teatro che si rivolge a questi pubblici ha nella scuola un partner ideale, ma si è scontrato spesso con una certa difficoltà di dialogo. Oggi sembra ci siano maggiori potenzialità e che le parti siano più vicine. Quali sono le azioni che una struttura teatrale può portare avanti perché la relazione con la scuola sia virtuosa? Quali sono le possibili forme di mediazione dirette o indirette?

La mia speranza è che il “per” di cui parlavamo all’inizio diventi un “fra”, anzi, meglio, diventi quel “con” che ha creato spesso derive degenerative di chiusura in un settore, ma che è il vero obiettivo del nostro mestiere.
Il rapporto tra cultura teatrale ed educazione, per come è trattato nella recente proposta di riforma “La Buona Scuola”, mi lascia un po’ preoccupato perché mi sembra porti a un passo indietro notevole. C’era un disegno al tempo dell’ETI per salvaguardare questo patto, ma non è stato poi attuato; ora invece siamo di fronte a una proposta che suscita interesse ma non fissa nessuna regola. Io credo si debba parlare di futuro, di cittadini piccoli che diventeranno grandi, a partire certamente dalla qualificazione dei mediatori perché per quanto siano auspicabili i contatti diretti, questi contesti sono sempre mediati; bisogna ritrovare allora le ragioni di un confronto tra operatori e artisti su un piano comune, ora piuttosto faticoso anche di fronte a un’offerta gratuita. Ma c’è una mappatura ricca di “case teatrali” per tutta Italia – con una conclamata prevalenza al centro-nord, rispetto alle aree territoriali sotto Napoli – in cui le scuole possono godere di un sistema residenziale per l’intera giornata, dove presentare un’opera o solo una parte, grazie anche all’aiuto di uno sguardo più specializzato, come quello della Casa dello spettatore, che permetta di superare il contatto episodico in direzione di una formazione più duratura.

Una riflessione sul teatro fra le generazioni ci riporta alla figura del “maestro”, che si segnala per una duplice sfumatura semantica: da un lato è colui che è in grado di fornire strumenti di crescita fin dai primi anni, dall’altro – specialmente in campo artistico – è lo stato cui giunge chi è stato in grado di manifestare come esemplari i propri metodi di lavoro, grazie ai risultati raggiunti sul campo con la propria opera. In che relazione si collocano per te le due sfumature?

Il rapporto tra allievo e insegnante si innesta in maniera naturale e quasi involontaria, così come accaduto a me negli anni di formazione teatrale a Pontedera, quando sono entrato a contatto con tanti maestri dai quali sul momento non sapevo prendere, ma che mi avrebbero lasciato strumenti che avrei ritrovato nel tempo. Maestri ne abbiamo anche oggi, sono coloro che hanno espresso concretamente una capacità di sintesi tra arte e relazione con una platea così particolare, sono portatori di tecniche, ma anche di visioni e di esperienze, e sarebbe bene far sì che abbiano una casa dove operare e strumenti migliori, così da alimentare questa vocazione per metà artistica e per metà formativa che è propria del nostro teatro.

A cura di Francesca Bini, Francesco Brusa, Lorenzo Donati e Simone Nebbia