Nella tana dell’arte. Una giornata con Maurizio Bercini

Maurizio Bercini, allievo di Otello Sarzi e per venticinque anni direttore artistico del Teatro delle Briciole, fondato nel 1976 insieme a Letizia Quintavalla e Bruno Stori, nel 2001 da vita, insieme a Marina Allegri, a Cà luogo d’arte. Andiamo a trovarlo per un’intervista nella campagna di Gattatico, dove si prepara per il debutto, al festival Colpi di Scena, di Caro Orco diretto da Davide Doro della Compagnia Rodisio. Uno spettacolo in cui, sulla scia de L’Orco, di Maurizio Bercini e Marini Allegri, che andrà in scena, in serale, sempre al festival ideato da Accademia Perduta Romagna Teatri, si continua a indagare la figura del personaggio più temuto delle fiabe. Ci accolgono i colori sgargianti della vecchia baracca di Otello Sarzi, un vero e proprio pezzo di storia che riposa beato in un prato verde. Ha inizio così la nostra visita, che è un tuffo nella poetica di Maurizio Bercini, la cui sapienza artigianale attraversa ogni oggetto della casa-laboratorio, che visitiamo con l’entusiasmo di chi ha accesso a un piccolo museo per pochi visitatori.

Verso Gattatico. Un’introduzione alla figura di Maurizio Bercini (con Cira Santoro):

Maurizio Bercini: «Ho iniziato con la compagnia del Collettivo di Parma, compagnia che ora gestisce il Teatro Due. Era appena nato il famoso decentramento: anche per i comuni piccoli c’era un grosso patrimonio di teatri da restaurare e la comunità europea cominciava a finanziare il restauro delle sale più significative. Allora a Parma c’era un festival di teatro molto bello, organizzato dalla compagnia del Collettivo. Lì ho rivestito il ruolo di Direttore di Palcoscenico

 

«Una notte con Letizia Quintavalla ci siamo recati in modo molto estemporaneo da Otello Sarzi per chiedere di occuparci di burattini: il giorno dopo abbiamo iniziato io e Letizia, dividendoci lo stipendio di una sola persona e stabilendoci a vivere da lui. Otello era particolare, ma era bravissimo in qualsiasi operazione artigianale. Lui era burattinaio, mentre il nonno Francesco era attore. Diceva di aver fatto i burattini solo perché c’era la guerra e non poteva andare in giro con una compagnia di persone. Allora si è creato una “compagnia” teatrale che potesse stare in una valigia e gli permettesse di girare.»

 

Marina Allegri: «Fare teatro per l’infanzia voleva dire fare territorio, aggregare territori. In quel senso si trattava di un teatro politico: erano operazioni basate su un pensiero molto forte. Si faceva ricerca con in mente quell’orizzonte, c’erano fondi, c’erano le istituzioni, gli assessorati, adesso invece sono i teatranti che cercano semplicemente di “mettere qualcosa” intorno all’infanzia

 

Maurizio Bercini: «Forse la forma che più di tutte sta degenerando è proprio il circo contemporaneo: ora è molto facile prendere delle cantonate, commettere errori di lettura o interpretazione. È stato un po’ snaturato, come il teatro di strada. Soprattutto quest’ultimo direi che è diventato un po’ l’alibi di amministratori, compratori, venditori per risparmiare. Ti si offre solo la “vetrina”, concetto che è secondo me un po’ lo spartiacque fra quello che c’era prima e il dopo, soprattutto dal punto di vista della dignità del lavoro e delle persone. E anche della qualità dei lavori, dell’accoglienza. È avvenuto un ribaltamento: nel momento in cui si è considerato il teatro una vetrina ecco che i protagonisti diventavano quelli che guardavano, non più quelli che facevano gli spettacoli.»

 

«Agli inizi degli anni ’90 siamo arrivati alle Briciole, con 650 spettacoli all’anno, 90 dipendenti e un sacco di lavoro. C’era un dualismo fortissimo a livello stilistico fra me e Letizia Quintavalla e, vista la mole di lavoro, era abbastanza obbligatorio che ci dividessimo le regie. Con 650 spettacoli all’anno, era inevitabile che si formassero praticamente 4 compagnie diverse che giravano. Però nonostante quello, propulsioni e sinergie diverse andavano ad alimentare una visione comune

 

«I bambini vanno abituati anche alla convenzione del teatro e non solo al teatro.»

 

«Per il nostro ultimo lavoro la scenografia infatti è una casa in miniatura, e per me – che sono uno che ama da matti costruire le scene – dover creare un ambiente nel quale poi gli attori devono muoversi è un meccanismo che mi stimola molto. Questo parlando da regista. Da attore, invece, questo giro di essenzialità mi è piaciuto tantissimo, sia che venga messo a punto da me e Marina, sia con Davide Doro (che cura appunto la regia del nostro ultimo spettacolo). Anzi, con Davide, la ricerca dell’essenzialità diventa ancora più rigida, più estrema: l’utilizzo degli oggetti viene ridotto all’osso e si lavoro parecchio su se stessi, cercando di non farsi prendere dal panico. Sai, quando non riesci a risolvere certi passaggi, tendi a pensare a degli escamotage. Davide al contrario ti impone di mantenere la direzione che hai intrapreso, finché le soluzioni per continuare non arrivano spontaneamente

 

Cira Santoro: «Le domande che si facevano ai loro tempi, quando abbiamo iniziato, erano molto pratiche, concrete, artigianali. Rispondevano a esigenze tecniche. Con Letizia Quintavalla ho lavorato per lo spettacolo L’arte di Tatà che facemmo al Crest. C’erano cinque Pulcinella, ognuno con caratteri diversi. Mi ricordo che si parlava poco dei bambini. Era venuto fuori un personaggio del Pulcinella intellettuale, pedante, intelligentone. A un certo punto Letizia mi chiese che immagine stessimo dando dei bambini che studiavano, era una domanda che mi obbligava a immaginarmi qualcosa di diverso nella scrittura. Era una domanda concreta, mentre oggi pensiamo allo spettatore in modo più astratto… dovremmo recuperare quella sapienza artigianale, e pensare a che cosa stiamo costruendo intorno allo spettatore, anche dal punto di vista organizzativo.»

 

Maurizio Bercini: «Lavorando sulla paura, sull’orco… fino a dove puoi spingerti? Se “non si può parlare” qualcosa stride. Mi sembra che oggi chi vende gli spettacoli ha tantissimi timori, e forse in questo senso un problema c’è. Ma, come non si può parlare? Devi studiare il modo per parlare di queste cose, ma non esiste che tu non ne possa parlare.»

Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati

 




Intervista a Letizia Quintavalla

Pubblichiamo la prima di una serie di interviste ad alcuni tra gli artisti più significativi che hanno attraversato la storia del teatro ragazzi. Le conversazioni si riferiscono all’anno 2014 e sono tratte dal materiale di tesi di laurea in Storia del Nuovo Teatro Narrazione e fiaba nel teatro ragazzi. Esperienze a confronto attraverso tre paradigmi di Nella Califano. Si tratta di un progetto di interviste che, indagando le diverse poetiche degli artisti coinvolti, intende approfondire alcuni temi ricorrenti nel teatro ragazzi come le modalità di narrazione e messinscena della fiaba, il coinvolgimento dello spettatore e il concetto di tout public.

Partiamo con Letizia Quintavalla, dagli anni Settanta regista e drammaturga per il teatro ragazzi e una delle storiche fondatrici del Teatro delle Briciole di Parma. Nell’intervista che riportiamo di seguito un focus su uno dei suoi spettacoli più affascinanti, Con la bambola in tasca, su testo di Bruno Stori, un classico del teatro ragazzi nel quale un bambino scelto tra il pubblico diventa personaggio principale della storia.

[Intervista realizzata a Parma il 24 febbraio 2014]

Quando ha inizio la sua esperienza con il teatro ragazzi e quali sono le motivazioni che hanno indirizzato la sua ricerca teatrale verso il mondo dell’infanzia?

Mi sono laureata nel ’76 in Storia e Filosofia a Bologna, ma avevo avuto delle esperienze abbastanza forti con i bambini in situazioni al limite, in particolare grazie ad un pedagogista, Andrea Canevaro, che proponeva agli studenti di lavorare direttamente a contatto con i bambini. Accettare una proposta del genere penso dipendesse anche dal periodo storico: si faceva strada l’idea di ristrutturare la cultura e la scuola, che è l’origine di ogni rivoluzione vera; credo, quindi, di essere approdata al mondo dell’infanzia anche per una motivazione politica. Le prime esperienze che io e Maurizio Bercini ci trovammo a fare insieme erano i doposcuola alternativi, vicino Parma, dove si lavorava con i bambini al pomeriggio, in via del tutto gratuita, e quindi si veniva in contatto con insegnanti che volevano lavorare in modo collettivo, a favore di una pedagogia non del riempimento, ma dell’insegnare imparando rispetto al bambino. Cominciava a farsi strada l’idea di un bambino competente ed erano gli stessi anni dell’animazione teatrale che, sebbene stigmatizzata dal teatro ragazzi, era caratterizzata da un grande afflato sia politico che umano nel suo approccio ad una rivoluzione culturale. Credo che alla base della mia formazione ci siano questi due tipi di esperienze, quella locale, molto diretta, e quella politica e culturale.
Finita l’università, io e Maurizio Bercini decidemmo di andare a conoscere un grande burattinaio di cui avevamo sentito parlare, Otello Sarzi, con l’intenzione di portarci i bambini. È stato un incontro determinante e un anno dopo, siamo andati a lavorare con lui. Faceva un teatro molto “anarchico”, diceva di si a tutti, non ha mai mandato via nessuno ed è stato per noi un incontro teatrale molto artigianale da certi punti di vista e molto umano da altri. Sarzi lavorava con i burattini sia a livello tradizionale che sperimentale, e una parte del suo lavoro era dedicata proprio ai bambini. I laboratori erano improntati per lo più sulla costruzione, quindi c’era un approccio manuale e anche questo si rifaceva ad una passione che avevo fin da piccola, che probabilmente veniva dall’osservazione: mio padre, infatti, era scultore e pittore, affrescava le chiese. Credo che il mondo dell’infanzia abbia dentro molta arte, quindi restare legata a quel mondo significava per me vivere la vita in modo molto artistico.
Finita l’avventura con Otello Sarzi, che si interruppe per via di alcune sue personali vicende familiari, noi giovani ci staccammo, insieme ad alcuni della cooperativa, dal Teatro del Setaccio e fondammo la Cooperativa Teatro delle Briciole, mantenendo l’idea del collettivo, di un senso di uguaglianza e volevamo dedicarci completamente al teatro per ragazzi.
Il primo spettacolo è stato Il piccolo principe (1976-77), che aveva come dominante il rapporto con l’infanzia e soprattutto la relazione adulto-bambino (un tema che ritorna nel 1994 in Con la bambola in tasca). Il primo spettacolo per un gruppo è fondante rispetto alla strada che si decide di intraprendere e non a caso era uno spettacolo misto di burattini e attori, che non avremmo potuto far da soli come gruppo, per cui ci siamo appoggiati ad un regista esterno, Gigi Dall’Aglio, del collettivo Teatro Due di Parma, che ha portato un grande contributo grazie alla sua idea di voler valorizzare ciascuno a seconda delle proprie capacità. Avevamo anche un drammaturgo che, insieme al regista, si occupava degli spettacoli nei primi tre anni, poi abbiamo iniziato ad acquisire capacità registiche e drammaturgiche che ci hanno permesso di andare avanti autonomamente, ma questi contributi hanno impostato e dato molta sicurezza al gruppo, lo hanno fondato, fortificato, e hanno aiutato ognuno di noi ad ascoltare e quindi sviluppare le proprie capacità. Questa è stata una grande scuola. Da lì i primi spettacoli sono stati tutti dedicati al teatro ragazzi, avevamo uno degli organizzatori più esperti del teatro per ragazzi, Gabriele Ferraboschi, che era stato anche l’organizzatore della compagnia precedente di Sarzi. Io piano piano ho smesso di recitare, a questa decisione ha contribuito anche la nascita di mio figlio. Ho fatto l’attrice ancora per qualche anno, poi ho sentito che la cosa che mi interessava di più era la regia e la drammaturgia: osservare per poi ricollegare le parti, è una cosa che so fare e che mi piace fare.

Lei dice che il suo teatro rifugge da intenti didascalici ed educativi, al limite si pone degli obiettivi “didattici”. Mi può spiegare cosa intende e come si concretizza?

La didascalia è da bandire in ogni arte, ci può essere un teatro didascalico alla maniera brechtiana, che ti aiuta a migliorare il mondo, ma questo non è particolarmente evidente nei miei spettacoli, posso inserirlo piuttosto nella mia metodologia di lavoro. Il teatro non deve suggerirti ciò che devi o non devi fare, ma è importante che lasci intuire allo spettatore cosa vuol prendere per se stesso da una storia, di cosa ha bisogno lui. Preferisco drammaturgie conseguenti e logiche ma non essere troppo esplicita, meglio lasciare degli spazi, dei vuoti che vanno colmati da chi guarda, che prenderà ciò che della storia gli interessa maggiormente. Non importa se un bambino non la capisce tutta; non mi pongo come obiettivo che i bambini capiscano tutto, ma che sentano tutto. Il mio compito è quello di rendere la storia più organica possibile tenendo conto dell’età del pubblico a cui è dedicata, dello spazio, del contenuto, evitando accuratamente di non rifugiarsi nell’esperimento artistico. Non riesco a prescindere dal pubblico che ho davanti: è giusto per me fare cose “difficili”, cioè che prevedano il superamento del limite, ma devono essere temi che interessano sia me che il pubblico, per questo bisogna fare delle scelte in relazione all’età degli spettatori.
Per me l’unica pedagogia possibile è quella che lascia al bambino (ma anche ad un adulto…) lo spazio della sperimentazione autonoma: l’adulto, o chi conduce un lavoro, dovrebbe intervenire pochissimo, ma piuttosto creare delle situazioni e fornire degli strumenti a chi sta scoprendo il mondo e scoprendo se stesso nel mondo. Per questo le attrici di Con la bambola in tasca hanno come indicazione registica di non intervenite mai se è evidente che i bambini possono arrivare da soli alla soluzione.

Che rapporto ha il suo teatro con la fiaba? Cosa significa costruire la regia e la drammaturgia di una fiaba a teatro? E che importanza riveste il teatro di fiaba per i giovani spettatori?

Il Piccolo Principe e Michelina la strega e Il Mago di Oz si rifacevano alla fiaba popolare, ma quando con Nemo, Il topo e suo figlio, e Con la bambola in tasca, oltre alla fiaba si comincia a tenere conto della morfologia della fiaba. Ci siamo posti delle domande: di cosa ha bisogno una fiaba? Di quali archetipi? Quali sono le funzioni importanti che si ripetono in una fiaba? L’esigenza principale è quella di conoscere la fiaba e i suoi elementi essenziali, che si possono ritrovare anche in un mito, in un romanzo o in altre strutture narrative. Per esempio Il topo e suo figlio non è una fiaba classica ma ne contiene tutti gli elementi, tutto il carisma. La fiaba rientrava perfettamente nella nostra ricerca sia sulla relazione che sull’estetica-etica del Micro-Macro. Negli anni settanta era un po’ di tendenza destrutturare i finali positivi delle favole, il finale cosiddetto “aperto”: si sperimentava in questo senso, ma a noi non piaceva, le fiabe dovevano finire come dovevano finire.
Nemo, per esempio, è la storia di un bambino che non riesce a dormire e fa incubi ogni notte e ogni notte vive un’avventura. È stato il nostro primo spettacolo e conteneva vari elementi fiabeschi come l’idea della notte, del sonno, il rapporto con la madre e con i mostri, c’era l’aiutante magico e tutte le varie prove da superare.
In genere le fiabe sono assolutamente illogiche: per esempio perché il lupo non mangia subito, al primo incontro nel bosco, Cappuccetto Rosso? La struttura della fiaba non da neppure il tempo di farti questa domanda, perché è troppo interessante la sua natura sintetica e il suo essere quasi un precipitato chimico di tante complessità. Inoltre la fiaba nasce da una relazione, c’è qualcuno che racconta e qualcuno che ascolta. Il racconto risale alla notte dei tempi, quando davanti ad un fuoco si raccontava della caccia, vera o finta che fosse, ma che l’ascoltatore poteva vedere attraverso le parole del narratore. Alla base c’è quindi la relazione. Un bravo narratore deve sapere a chi sta raccontando la sua favola: è un bambino di tre anni? O di otto? O di dodici? Di cinquanta? Di ottanta? Non stiamo parlando di quel lato bambino inteso come l’”eterno fanciullo”, ma del lato profondo dell’ascolto, che è intuitivo, è quello che gli orientali chiamano “mente profonda”: non si sente col cervello, ma con un’altra parte, che è sempre un’intelligenza, ma un’intelligenza profonda, quindi non ci si perde in una logica stringente, che non è interessante in quel momento. Nella fiaba invece c’è una relazione e il vero polo attivo è chi ascolta. Sembra che a condurre sia solo il narratore perché conosce la storia, e quindi la gestisce come vuole, ma in realtà chi racconta è solo il sacerdote officiante. Senza Comunità, invece, la storia non avrebbe senso. La vitalità del teatro è data dal fatto che c’è qualcuno che ascolta. Il teatro per esistere ha bisogno del pubblico. L’incontro con la fiaba – come con ogni altra forma narrativa – avviene se in essa è contenuto un tema di cui sento la necessità di dover parlare, quindi a volte prima ho scelto il tema e poi in un secondo momento cerco un testo che contenga questo tema. Nel caso di Con la bambola in tasca, per esempio, ho trovato nella fiaba di Vassilissa tutte le cose di cui volevo parlare. Le favole sono tali quando contengono un’iniziazione e Con la bambola in tasca più che uno spettacolo, è un rito di iniziazione per il pubblico, per la bambina e l’attrice.

Come è nata l’idea dello spettacolo Con la bambola in tasca? E in particolare come è nata la scelta di coinvolgere nello spettacolo una bambina attribuendole così una vera e propria funzione drammaturgica?

Nasce per caso. Ero a Bologna, guardavo dei libri su una bancarella e cominciai a sfogliare Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès. Il primo capitolo che lessi fu proprio quello sulla fiaba di Vassilissa . Ho trovato lì i temi di cui volevo parlare, e in particolare il rapporto con l’intuito. Rispetto alla drammaturgia e alla regia, invece, è stata importante la suggestione di uno spettacolo che qualche anno prima avevo visto ad un festival, un Piccolo Principe messo in scena da un artista belga. C’era un momento dello spettacolo in cui l’attore chiamava un bambino del pubblico sulla scena perché interpretasse il piccolo principe. Era fatto molto bene, anche se rientrava in una dinamica tipica del circo, del teatro popolare, secondo il quale si coinvolge qualcuno dal pubblico per attirare l’attenzione degli spettatori, che vengono presi in contropiede da una forza emotiva inattesa, come se, percependosi in quanto corpo unico, vedessero staccarsi un pezzo di sé e andare sulla scena. L’attore non teneva il bambino in scena per molto tempo, e ciò che mi aveva colpito di più era la sua capacità di non farlo sentire a disagio. Quando, qualche anno dopo, mi sono chiesta come e a chi far interpretare il personaggio della bambina Vassilissa in Con la bambola in tasca, la risposta è arrivata immediatamente: una bambina del pubblico! Questo espediente ha innescato un lavoro immane di cui non avevamo pratica se non nelle animazioni teatrali o nei lunghi laboratori tenuti presso il Teatro delle Briciole. Era necessario fare molte prove in cui lavorare continuamente con l’attrice e delle bambine. È stato necessario pensare ad una struttura drammaturgica che potesse contemplare la presenza costante di una bambina in scena, ma che permettesse anche alla bambina di decidere liberamente, in ogni momento dello spettacolo, di uscire di scena e ritornare tra il pubblico, tra la sua tribù. Bisognava sperimentare tutte le variabili possibili affinché non si sentisse mai a disagio. Abbiamo sempre preferito che fossero più bambine a darsi il cambio, a partecipare a una sorta di la staffetta nel portare a termine l’impresa di vassilissa ; infatti quando una bambina decide di uscire dal cerchio rosso, dalla storia, dalla scena, viene invitata un’altra bambina al suo posto e così si evita anche che ci sia un’ unica protagonista, ma si possa vedere una vassilissa collettiva. Speriamo sempre che non resti fino alla fine una sola bambina, ma che lo spettacolo diventi piuttosto l’ occasione per un’iniziazione di gruppo: come se la tribù-pubblico mandasse un suo rappresentante a staffetta, in modo che la conquista del fuoco finale sia veramente diluita in più persone, in più protagoniste. E’ bene che nello spettacolo ci sia almeno un cambio di bambina, cosicché non ci sia il pericolo di sentirsi…reginetta della storia.

In che modo viene scelta la protagonista fra il pubblico?

In realtà ci siamo resi conto che è la bambina che sceglie. L’attrice guarda negli occhi le spettatrici e, quando vede una bambina con sguardo disponibile, le mette il fazzoletto rosso in testa, simbolo di vassilissa. Prima dello spettacolo si chiede alle insegnanti se ci sono bambine tra il pubblico con gravi handicap di cui l’attrice potrebbe non accorgersi, in modo da evitare un coinvolgimento che potrebbe creare disagio, ma una volta è accaduto che l’attrice scegliesse proprio una bambina, che le era stato raccomandato dall’insegnante di non chiamare in scena perché da poco arrivata da terra di conflitto ed era ancora scossa dalla esperienza della guerra. Ma era stata proprio quella bambina a manifestare con il suo sguardo e i suoi modi la curiosità e il bisogno di partecipare al gioco teatrale. La bambina restò fino alla fine dello spettacolo conquistò il fuoco e ritornò tra il pubblico più forte.

Mi può parlare della costruzione dello spazio e della scenografia, e della conseguente relazione che si viene a creare con gli spettatori?

La scenografia è caratterizzata da tre elementi: un tappeto rosso di forma circolare, al cui interno si concentra molta energia. Una sedia bassa bianca, la sedia della Cantadora. Un fondalino bianco con dipinto sopra un fuoco rosso.
Abbiamo capito che il fuoco nella drammaturgia era fondamentale, perché è il motore che spinge la bambina a svolgere tutti i compiti–prova per ottenerlo, la conquista del fuoco è il pretesto per crescere, quindi era necessario che fosse presente.
La scelta dello spazio nasce dal concetto di micro-macro, del piccolo e del grande, che si può tradurre anche nella relazione adulto – bambino.
Questo concetto si può coniugare in tante forme, anche come individuo e collettivo, come singolo attore e gruppo di spettatori. Da qui la prossemica che caratterizza questo lavoro: il rapporto con il pubblico determina lo spazio adeguato.
Con un pubblico di bambini di tre, quattro, cinque anni so che se mi allontano da loro otto o dieci metri mi percepiscono a fatica o comunque diversamente se mi colloco a tre, quattro metri. Quando parliamo di spazio parliamo di prossemica, di distanze emotive e anche della distanza che permette di avere una visione complessiva. Tutto questo è uno studio che va sperimentato, non si può decidere a tavolino senza un riscontro pratico, anche per questo abbiamo fatto tante prove aperte con i bambini, proprio per capire questo tipo di relazione.
Quindi lo spazio è determinato anche dal tipo di pubblico e dal numero degli spettatori. Io ritengo che gli spettacoli per bambini della scuola dell’infanzia deve essere proposto tassativamente per un numero massimo di 90 bambini.
Nel caso specifico abbiamo utilizzato l’elemento delle circolarità (già presente in altri spettacoli) come elemento drammaturgico da una parte e dall’altra per la necessità di ottenere una percezione e un’attenzione molto concentrate e dense. Si voleva restringere la scena per creare più intimità.
Non ho mai fatto uno spettacolo per bambini delle scuole dell’infanzia ( tre – cinque anni) da palco cioè con i bambini seduti in platea, sento che è sbagliato rispetto alla relazione, è innaturale, non organico.


Le dimensioni degli oggetti utilizzati in scena non rispettano la regola della proporzione. Qual è la motivazione all’origine di questa scelta?

Alla base della scelta degli oggetti per la scena e delle azioni che da essi ne conseguono, c’è il grande binomio vero-finto.
Nello spettacolo ci sono due oggetti di grandi dimensioni usati dalla strega Baba Jaga, un mestolo e un coperchio che copre una pentola inesistente: si tratta di una proposta di allenamento ad un codice linguistico nel quale non si dice cosa sarà finto e cosa vero … si consegnano alla bambina-Vassilissa degli strumenti perché possa realizzare delle associazioni immaginifiche. Con il teatro si va in un altro mondo, non c’è una ricostruzione oggettiva della realtà, è un allenamento mentale molto più interessante, perché necessità dell’intuito.
Inoltre la Baba Jaga ha una casa molto piccola, ma le piace molto mangiare e dice che il fuoco serve per prima cosa a cucinare: la strega ti nutre senza darti a mangiare, mescola una zuppa che non c’è! E’ colei che da la spinta vera a far crescere.

L’ attrice ha un doppio ruolo, quello di narratrice e quello di interprete. Mi vuole parlare di come ha lavorato ai diversi livelli di scrittura drammaturgica? E come ha lavorato con le varie attrici?

Nello spettacolo Con la bambola in tasca l’attrice ha cinque ruoli, che sono le cinque funzioni del femminile: all’inizio è l’Attrice; poi, quando si siede sulla sedia, diventa Narratrice, la cantadora, quella che cura l’anima con le storie; nel momento in cui prende la bambina sulle ginocchia assume il ruolo di Madre che poi va via per ritornare vestita da Strega Baba Jaga, che non è più la mamma che accoglie, che aiuta, ma che mette davanti alla difficoltà e la fa superare. Infine diventa la Bambola che rappresenta l’intuito, che va alimentato, a cui va data fiducia, è la parte più intima di ogni persona, di ogni donna.
Queste cinque funzioni sono tutti dei personaggi, quindi hanno anche una definizione fisica, un movimento, una voce. La strega ha segni molto carichi per la postura e per la voce, per esempio l’attrice usa una noce dentro la guancia per alterare il viso e la voce, piccolo “inganno” che del resto viene svelato e dichiarato nei cambi della bambina e nel finale.
La Strega in questa fiaba ha una funzione precisa: quella di creare l’ostacolo affinché Vassilissa lo superi. La piccola Bambola di stoffa sta sempre nella tasca del grembiule di Vassilissa, ma durante le prove dei lavori le viene data la voce dall’attrice che si serve di un microfono e sta nascosta dentro la casetta da dove può vedere da un piccolo foro la bambina e i suoi movimenti. La voce e il testo (in parte improvvisato) della Bambola hanno un ritmo che si modifica per intonarsi a quello della bambina, ma deve essere sempre un ritmo teatrale.
La Narratrice è fondante, deve essere neutra, ma stando dalla parte di qualcuno, perché un narratore sta sempre dalla parte di qualcuno, anche se solo da quello della storia. L’Attrice è quella nel prologo dello spettacolo, pone domande filosofiche al pubblico perché ha fiducia nel fatto che i bambini possono fare cose difficili e fa capire loro che per entrare in questa storia bisogna fare cose difficili. C’è una sorta di dialogo “socratico” tra lei e i bambini: con le sue domande cerca di far emergere ciò che è presente in loro.
Prima di lavorare con le varie attrici di Con la bambola in tasca è stato necessario capire se erano predisposte a questo genere di relazione. Mi sembra abbastanza necessario aver frequentato bambini e, soprattutto, è necessario essere capaci di mettere il proprio ego a servizio di questo spettacolo, cioè da parte. È importante che sia un ego che osserva, accoglie, previene, offre possibilità, indirizza senza obbligare o forzare, in qualche caso anticipa.
La dimensione profonda su cui abbiamo lavorato con le attrici è stata quella dell’intuito. Dovevano capire a che punto fosse il loro intuito, sperimentando con esercizi rispetto allo spazio e alla relazione con l’altro. L’attrice deve tenere la bambina nella finzione, trattandola come se fosse un’altra attrice e facendole sentire il gioco di complicità tra di loro.
Il personaggio, però, è attraversamento ed è necessario che la bambina capisca che non bisogna crederci fino in fondo, infatti dietro l’attrice c’è sempre anche la Narratrice, la Mamma, la Bambola., la Strega Baba Jaga

In che modo viene coinvolta di volta in volta la bambina che entra in scena? Le vengono date istruzioni? In che modo?

La drammaturgia di questo spettacolo è pensata come un rito di iniziazione e tutti i momenti di cui si compone non sono in funzione della storia ma della relazione. L’attrice all’inizio quando deve offrire alle bambine del pubblico il fazzoletto simbolo di Vassilissa, guarda negli occhi le bambine e, al contrario di quanto si possa pensare, sono loro che, anche inconsciamente, decidono di farsi scegliere, perché hanno negli occhi la curiosità e il coraggio di provare ad entrare nel gioco teatrale. Questo spettacolo riveste per le bambine un momento fondamentale, che è quello dell’iniziazione e, in quanto tale, avviene pubblicamente, attraverso l’investitura per mezzo del fazzoletto e davanti alla tribù dei simili.
L’investitura avviene così: il fazzoletto rosso viene provato sulla testa delle bambine, finché non si trova quella giusta, cioè colei che accetta la Bambola che gli offre l’attrice, che contemporaneamente le offre anche la mano lasciando la scelta alla bambina di stringerla o meno, e quindi di seguirla o meno al centro del cerchio rosso della scena. Esiste una drammaturgia per ogni gesto, se infatti l’attrice toccasse e prendesse lei la mano della bambina, avrebbe deciso per lei.
Il momento successivo è quello in cui la bambina viene vestita con un grembiulino rosso e successivamente le viene chiesto di sedersi in braccio all’attrice. In generale le bambine si fidano, anche perché tutto è fatto con molta delicatezza.
Per esempio se la bambina è rivolta troppo verso il pubblico, cioè è troppo esposta allo sguardo l’attrice deve fare in modo che la bambina guardi lei, in questo modo l’attrice può guardare sia la bambina che il pubblico.
Quando l’attrice capisce, o, meglio dire, intuisce, che la bambina non vuole più continuare a stare in scena, anche se non lo vuol fare vedere, o sta per piangere, l’attrice la congederà con il rituale del cambio, cioè accompagna al posto con una formula rivolta pubblico: “Adesso questa Vassilissa è stanca, è stata molto coraggiosa e ora ritorna a casa”. Sta alla sensibilità dell’attrice sentire il momento giusto per fare il cambio: né troppo presto né troppo tardi, bisogna aspettare sì il limite, perché la paura bisogna provarla per superarla, ma non aspettare troppo…
Se la bambina decide di uscire dal gioco il tecnico da dietro il fondale si adegua al cambio anche lui facendo un morbido cambio luci e manda la musica che accompagnerà sempre ogni cambio, che è anche il tema dello spettacolo. Se il cambio avviene in una scena in cui c’è la Strega, allora l’attrice, a vista, lentamente, si abbassa il cappuccio del costume da strega dalla testa, sempre a vista si toglie la noce dalla bocca, toglie il fazzoletto rosso e il grembiule di Vassilissa alla bambina, le da un bacio, la riaccompagna al posto e poi cerca un’altra bambina tra il pubblico con le stesse modalità dell’inizio, la porta dentro al cerchio e di nuovo cambiano luci e musica e si ritorna al punto in cui la storia si era interrotta un poco prima, è ovvio che è molto importante l’intesa muta tra l’attrice e il tecnico. Il cambio è delicatissimo, bisogna uscire ed entrare piano, ed è un momento magico se tutte le fasi vengono rispettate; c’è un tempo sospeso per il pubblico e per la storia. Il gruppo-tribù degli spettatori riprende con sé la bambina e ne consegna un’altra alla storia affinché possa andare avanti e concludersi. Quando una bambina ritorna al posto le altre potrebbero sentirsi spaventate e se i rifiuti si sommano bisogna intervenire con un espediente accuratamente studiato: la Narratrice ritorna nel centro del cerchio rosso, si siede in mezzo e resta ferma, immobile, guarda il pubblico, poi comincia a piangere sotto voce e con quel finto pianto dichiara una debolezza: “La storia non può andare avanti senza una Vassilissa.”. Quando sente che il momento è maturo ripropone il rito dell’investitura con il fazzoletto rosso e di solito funziona.

Si sono verificate difficoltà nel corso degli anni nell’inserimento della bambina? Trova differenze fra le bambine di oggi e quelle che hanno vissuto la stessa esperienza negli anni passati?

In questi venti anni (1994 -2014) lo spettacolo si è continuamente modificato, è vivo. Non risente del fatto che i bambini cambiano, piuttosto abbiamo notato che le bambine sono meno abili a svolgere i lavori manuali, non hanno più l’abitudine al fare, adesso quelle che hanno più dimestichezza con la manualità e svolgono meglio i lavori-prove dello spettacolo sono spesso le bambine provenienti da altri paesi, da altre culture. Le attrici tengono dei diari in cui riportano questi cambiamenti.
Nel tempo e con le molte repliche e la conseguente esperienza che si sono fatte negli anni, le attrici tendono a coinvolgere bambine sempre più piccole per Vassilissa, e quindi tendono come attrici e persone a spingersi in difficoltà maggiori, quasi a sfidare la loro capacità intuitiva di condurre questo rito.
In generale io penso che i bambini siano la cartina di tornasole del paese dove vivono, del governo che c’è in quel paese, insomma di come vanno le cose nella loro polis, sono loro la cartina di tornasole di come è concepita la scuola, gli insegnanti e il loro aggiornamento, e se è una società in cui gli essere umani si rispetto e si ascoltano.

E il giovane pubblico? Come vive la relazione con la fiaba? E con il cambio di ruolo della loro compagna che interviene nella messa in scena? Si sono registrati cambiamenti su questo versante negli anni?

I bambini partecipano molto a ciò che accade in scena e provano una grande ansia per la compagna. Si possono distrarre molto se l’attrice conduce male questa relazione e diventa troppo intima con la bambina, escludendoli, cioè dimenticando il pubblico. Quando questo accade gli spettatori cominciano a distrarsi e disturbare.
Lo spettacolo è caratterizzato da una geometria sottilissima. La bambina deve essere sempre visibile ma protetta dal pubblico e pur restando nella storia non deve dimenticare la relazione con i compagni, ma neppure interessarsi troppo a loro, con i quali potrebbe cominciare ad avere un dialogo e l’attrice non avrebbe più un ruolo di riferimento (soprattutto nelle repliche dove tra pubblico ci sono i genitori). Per il pubblico non sarebbe più uno spettacolo ma un’animazione teatrale, dove si vede un’attrice che gioca con una bambina, invece il pubblico deve assistere a del buon e utile Teatro .
L’attrice per poter stabilire una relazione di complicità con la bambina, deve trovare il modo di concentrarsi su di lei sì, ma senza eccedere, per esempio prendendola da parte, o parlandole di nascosto e per non escludere il pubblico dalla loro relazione a due ci sono delle regole molto precise: per esempio, se l’attrice sa che la bambina per la scena è meglio se sta in un determinato punto dello spazio scenico, non può spostarla toccandola o spingendola, ma deve spostandosi lei stessa in modo che la bambina per vederla si sposti a sua volta proprio nel punto dove è meglio che sia per l’armonia geometrica della regia, regia che si basa su un’ estetica organica per gli attori e per gli spettatori, affinché l’immaginario si componga in metafore e visioni.

Intervista a Letizia Quintavalla, in Nella Califano, Narrazione e fiaba nel teatro ragazzi. Esperienze a confronto attraverso tre paradigmi, Tesi di Laurea in Storia del Nuovo Teatro, Corso di Laurea in Discipline dello Spettacolo dal vivo, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna, a.a 2012/2013.




Carte di identità. Prima istantanea da Teatro fra le generazioni

Relazione. Questa la parola chiave, sempre e comunque, quando si ha a che fare con il teatro, con la sua dinamica, con la sua energia di propulsione emotiva, intellettuale, materiale. Se nel mondo di oggi è sempre più lontano il pensiero dicotomico su dimensione online e dimensione offline, se nella società iperconnessa e “ipercomplessa” il filosofo Byung Chul-Han sottolinea un’impossibile distinzione tra “qui” e “altrove”, è nel luogo della comunità che un qualsiasi cammino creativo può incaricarsi di un processo direzionato.

Nella mattinata di apertura di questo Teatro fra le generazioni 2018 abbiamo assistito a tre diversi esempi di relazione fondamentale del teatro. Alice nella scatola delle meraviglie (in anteprima al festival) installa l’attenzione degli spettatori su una scena di pareti modulabili che, aprendosi e chiudendosi, ricostruisce Wonderland in un labirinto di simboli. L’abitazione di questo dispositivo scenico non sempre riesce fluida e, complice il piccolo spazio, le due attrici (una per Alice e per il Cappellaio Matto, l’altra per lo Stregatto) sgusciano al meglio dentro porte e finestre, maneggiando sagome e oggetti multicolori. Di certo spicca una ricerca sulla visione del racconto, riorganizzata in una dinamica alternativa che sottrae alle attrici il compito di fare “scene madri”, consegnandolo alla scenografia (vincitrice del Premio Otello Sarzi). E tuttavia resiste con forse troppa tenacia l’ispirazione disneyiana, che allontana una restituzione chiara del poema di Lewis Carroll, concentrando l’attenzione in maniera a tratti discontinua.

Pur se molto distanti per linguaggio, Con me in Paradiso di Teatro Periferico e Fiabe Giapponesi di Societas/Chiara Guidi hanno invece saputo creare, tra scena e platea, le pareti elastiche di un parlamento politico. Non politico partitico, ma interessato a una politica della visione. Il primo porta sul palco del Ridotto un’originale operazione di innesto drammaturgico. Il testo di Mario Bianchi – che è innanzitutto uno dei “maestri” della critica e del racconto del teatro ragazzi – rielabora l’episodio neovangelico di Zaccheo in un confronto tra un italiano e un immigrato e viene poi attraversato in una scrittura scenica dal drammaturgo Dario Villa, che entra dentro al racconto per mostrare, in uno squarcio metateatrale, le reali problematiche di un laboratorio da lui condotto con un gruppo di migranti. Abdoulaye Ba, Mauro Diao e Siaka Konde riescono a non essere tanto la personificazione del migrante, piuttosto – grazie a una presenza disincantata e generosa – un esempio di procedimento critico tra contenuto e forma. Così l’impostazione didattica – certe volte sorprendentemente impietosa nei confronti dei soliti stereotipi sull’alterità – sguscia via dalla retorica e dà senso a un’abitazione dello spazio che non cerca la pulizia ma predilige la chiarezza, impreziosita a volte da tagli di luce e tableaux vivants.

Un’apertura politica ambiziosa e sottile, invece, è ciò che può permettersi un’artista come Chiara Guidi, immersa da sempre in una ricerca che dal faro tecnico-poetico del mezzo teatrale fa luce sulla “puericultura”, sulla geografia epistemologica dell’infanzia e sulle sue complesse tassonomie. Le Fiabe Giapponesi sono un rituale che proprio nella relazione trova e rafforza il nervo della riflessione su questi segmenti di pubblico.
Sul palco principale del Teatro del Popolo nove bambini e bambine – indossato sul proprio grembiule una divisa di carta – vengono letteralmente impiegati dall’attrice cesenate nella separazione di mucchi di fagioli chiari e scuri. E lì rimarranno, inginocchiati attorno al basso tavolo che è la loro fabbrica, tra tre pareti diafane dall’intelaiatura esposta, illuminati da tubi di neon, sempre in attività, testa china che si alza all’occorrenza, a seguire il racconto. Tre fiabe tradizionali nipponiche – una verde, una blu, una rossa – vengono letteralmente “afferrate” da Guidi e rivivono in dialogo con l’ombra di un sovra-narratore umanoide che appare e scompare e con sagome stilizzate.
Arduo ricostruire in poche righe il complesso percorso di senso che questa drammaturgia altamente razionale riesce a evocare: si affrontano questioni esistenziali (differenza tra nulla e vuoto, coincidenza tra l’atto di volere e l’atto di non volere), ci si incammina su una traccia di filosofia Zen, in una didattica continuamente «errante», come desidera l’autrice. Appena sembra che lo spettacolo punti un nodo, la pratica della relazione mette alla prova la platea di adulti e bambini andando a scioglierne un altro. L’attrice parla quasi sempre in ombra, un paio di volte siede in platea per «guardare lo spettacolo», lanciando segnali sul problematico statuto della presenza. Siamo qui, ma potremmo non esserci. In questo esperimento di relazione noi guardiamo, ma soprattutto ascoltiamo, inseguendo la meticolosa partitura vocale alla ricerca di un modo per smettere di cercare. Come in quella favola Zen in cui il monaco, appeso al ramo che, cedendo, lo precipiterà nelle fauci di una tigre affamata, sceglie di sporgersi ad assaggiare l’ultima mora. «Com’era dolce».

La seconda parte del festival si è svolta all’insegna di uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo: la carta. Si tratta di una produzione di Sacchi di Sabbia dal titolo Sshhhh! Pop_up teatrali e Corti di carta di Riccardo Reina, prodotto dal Teatro delle Briciole.
La suggestione provocata dai due spettacoli è sicuramente legata all’effetto visivo della carta che, nel caso di Sacchi di Sabbia, è presentata sotto forma di libri pop-up che i venti spettatori, ai quali le tre performance sono destinate, sfogliano insieme agli attori. Con gesti lenti e delicati le pagine dei libri si susseguono per raccontare il percorso teatrale della compagnia, che sui libri pop-up ha incentrato gran parte della propria ricerca teatrale. I libri selezionati sono stati infatti precedentemente costruiti per performance site specific o per spettacoli mai realizzati ed è la stessa compagnia che, facendo scorrere su uno schermo bianco delle informazioni per gli spettatori, precisa che condivideremo anche i loro fallimenti. La parola fallimento, però, sembra davvero quella meno appropriata per descrivere un lavoro suggestivo come quello di Sacchi di Sabbia. Quattro mani, un libro e della musica. Agli spettatori non è servito altro per prendere parte a un viaggio emozionante e solitario, eppure da vivere insieme agli altri.
Carta da disegnare, da scrivere, da leggere, a voce alta o per sé, da stracciare, da ricomporre o semplicemente da contemplare… La carta, da sempre, per le sue caratteristiche, permette di relazionarci con essa fisicamente, ma anche di perderci nei segni che accoglie. Di fronte alla carta, che dialoga direttamente con la nostra interiorità, siamo nudi, soli con il nostro immaginario, che ne incontra un altro e ne produce ancora in un ciclo di stupore, scoperta, nutrimento.

La carta che diventa ispirazione e disperazione, come tutte le cose che d’improvviso colpiscono a fondo e ci svelano un segreto. È il caso del primo dei tre Corti di Carta di Reina, in cui un uomo siede a una macchina da scrivere che, all’improvviso, come se entrassimo nella testa dello scrittore ispirato, comincia a produrre non più i classici suoni metallici dei tasti, ma note musicali. L’uomo, però, sembra non essere mai soddisfatto di ciò che scrive e si sbarazza, puntualmente, dei fogli che riempie, accartocciandoli e lanciandoli dietro di sé, fino a formare una montagna di carta che sembra assumere le sembianze di una Musa meravigliosa e terribile, perché misteriosa e inafferrabile, proprio come il fuoco della creatività.

Nella Califano e Sergio Lo Gatto




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Intervista con Beatrice Baruffini

Proviamo a ritessere i fili di una riflessione più ampia sul teatro per e con l’infanzia e, in generale, su quei nodi tematici e di senso che riguardano la “dimensione dell’infanzia” nel suo intero. Guardiamo al rapporto fra infanzia e arte, non solo infanzia e teatro, e più in generale fra arte e giovinezza attraverso le voci di chi si  confronta con tali dimensioni attraversandole con il suo percorso artistico ed esistenziale o analizzandole dal punto di vista teorico.
Pubblichiamo a seguire le riflessioni di Beatrice Baruffini, attrice e autrice del Teatro delle Briciole. L’inchiesta completa, in costante aggiornamento, si può raggiungere seguendo questo link

Cosa trovate, cosa vi spinge, cosa vi muove, nel teatro che dialoga con le nuove generazioni? Che cosa ci vorreste trovare? Di quale teatro per le nuove generazioni abbiamo bisogno, oggi?

Mi sono avvicinata all’infanzia con fare cauto, in silenzio, con grande rispetto. Poi sono rimasta lì, perché in quel luogo, in quel modo di essere, con quegli occhi, mi sono sentita bene. Mi sono trovata. Si riconoscono subito gli sguardi di chi è consapevole che non sarebbe potuto nascere altrove. Questo non significa che debba restare per sempre lì. Tutt’altro. Un teatro che dialoga con l’infanzia, non arriva solo a chi è bambino in quel preciso istante, ma tocca tutti: ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Per l’adulto questo teatro ha il compito di dissotterrare tali tracce, recuperarle, ricordargliele. Per farlo bisogna essere fedeli all’infanzia, non tradirla, non giudicarla, non presupporre di averla compresa. L’infanzia è, e deve essere, nostra complice nella creazione del mondo, nella ricerca del sapere, insieme ci facciamo testimoni del presente. Di questo abbiamo bisogno: di un teatro che consideri il pubblico suo complice per poter agire. Un teatro onesto dunque, coraggioso, che si prenda cura della relazione che crea, resistente, profondo, meraviglioso, che parli a tutti.

Volendo intendere il didattismo come una trasmissione cattedratica del sapere, unidirezionale, il teatro ha per propria missione la vocazione al coinvolgimento. Come il vostro lavoro riesce a tradurre l’uno nell’altro? Quindi a non dare l’idea di insegnare ma accogliere in una visione?

Questo succede naturalmente se si considera questo teatro arte e non insegnamento. Sono due cose ben distinte. Le visioni nascono a volte da intuizioni, a volte da contenuti, da racconti, e ci si innamora di essi per diversi motivi. Ci attraggono, ci mandano in crisi, suscitano continui interrogativi, ci appassionano. Ci spaventano. Non insegnano mai, non danno risposte, anzi, devono fare esattamente il contrario. Se questa materia viene scelta, trattata, trasformata, modificata, ripensata, ricreata è perché c’è una necessità artistica forte di farlo, ma non dobbiamo essere noi, noi autori, noi creatori, a decidere che a volte, quella materia, trasformata in teatro, insegna anche qualcosa.

Come i temi problematici della contemporaneità possono entrare negli spettacoli e quali strategie possono essere messe in atto per la loro salvaguardia verso un pubblico così particolare?

Credo non si possa evitare il presente: è dappertutto. Sarebbe come far finta di niente, non prendervi parte, non reagire, disinteressarsi. Il teatro ha il compito di chiedere al presente e se per il teatro d’infanzia il presente è bambino, è delicato, fragile, nuovo, è a volte per la prima volta, non potrà fare a meno di farsi custode attento, garbato, gentile. Nel teatro il presente entra sempre, per sua vocazione: è un atto di resistenza, un tentativo di afferrarlo e di sviscerarlo, anche quando lo fa attraverso una favola, una fiaba, una storia antica. Non dobbiamo avere il timore di mostrare paure e incertezze, dobbiamo solo trovare le parole giuste per raccontarle.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come tenete conto nella creazione di questi nuovi ritmi del contemporaneo? Più in generale come può il teatro entrare in relazione con essi?

Non possiamo fare a meno di confrontarci con questi ritmi, dobbiamo capirli, studiarli, perché solo in questo modo li possiamo usare: per portare l’attenzione dove desideriamo oppure, per sovvertirli.
Spero di non trovare mai nulla, perché questo significherebbe avere in mano delle risposte, supporre di sapere, avere chiara la direzione. Finirebbe tutto.




Alla riconquista del futuro: quinta istantanea da Segnali

Racconto alla rovescia di Momom e Nido di Teatro Telaio
Se la vita è un conto alla rovescia, allora la morte è la regina dei conti alla rovescia. Ma cosa accade quando il contare si trasforma in un raccontare? Racconto alla rovescia della compagnia Momom, che narra l’incontro del piccolo Arturo con una Morte più ironica che temibile, ruota attorno a un cambio di prospettiva: il conto alla rovescia non è la fine di qualcosa bensì il tempo per fare qualcosa. A capirlo è proprio il curioso Arturo che, aprendo uno alla volta i doni della Morte con un conto alla rovescia del pubblico in sala, riscopre il suo piccolo ma ricco bagaglio di esperienze: il tempo impiegato per capire il significato del sì e del no, quello per capire che si è uguali ma anche diversi dagli altri, il tempo per fare silenzio. All’apertura di ogni regalo le parole del narratore, e unico attore in scena, Claudio Milani si interrompono per dare spazio a corde, palloncini, fiori e farfalle che, interagendo con il protagonista, raccontano per metafora l’insegnamento di Arturo. Narrazione e linguaggi visivi si alternano sistematicamente sul palcoscenico, dando vita a una fiaba contemporanea, ironica e poetica, per sua stessa natura accessibile, a più livelli e in modi differenti, a tutto il pubblico in sala.

 


Di un linguaggio non verbale (fatto di gesti e di un fischietto/richiamo per uccelli) si serve anche la compagnia Teatro Telaio per Nido, terzo spettacolo della “trilogia degli affetti” che nei due capitoli precedenti, sempre senza l’utilizzo della parola, raccontava ai bambini l’amicizia (Storia di un bambino e di un pinguino) e l’innamoramento (Abbracci). Due uccellini, alle prese con il loro primo uovo, cercano in tutti i modi il luogo adeguato per proteggere il prezioso dono. Al centro del palco un complicato nido che gli uccellini, con bastoncini di legno, costruiscono e ricostruiscono per tutta la durata dello spettacolo: lunghissime pagine di istruzioni, litigate, capricci, colpi di genio e richieste di aiuto da parte degli amici, per arrivare a rendersi conto che alla fine ciò che serviva era sempre stato lì, a portata di mano. Con delicatezza lo spettacolo racconta ai più piccoli non solo le difficoltà, i tempi e la felicità di diventare genitori, ma, più in generale, il faticoso percorso per realizzare qualcosa di importante: la costruzione (nello spettacolo concreta e centrale) necessita di tempo, di impegno e di moltissimi tentativi. (c.l.)

Ok Robot di Teatro delle Briciole
La fantascienza è un genere letterario tra i più significativi del Novecento, anche se in Italia solo da una ventina d’anni si considera culturalmente rilevante. Eppure autori come Wells (da rileggersi La macchina del tempo nella bellissima traduzione di Michele Mari appena uscita), Asimov o, più di recente, Vonnegut o Dick o Ballard hanno influenzato moltissimo il nostro immaginario e sono autori che si prestano bene ad essere letti in classe, perché offrono moltissimi spunti. Sono, come si diceva un tempo, ricchi di “immaginazione sociologica”. Ci si interroga su cosa sarà l’uomo e il mondo in un prossimo o remoto futuro per capire qualcosa in più di chi siamo oggi. Il cinema è stato, e continua ad essere, l’alleato più forte della fantascienza, anche se spesso gli esiti sono tristemente appiattiti sugli effetti speciali e di poca sostanza. Il teatro ha fatto sempre più fatica a immergersi nella fantascienza, anche se, per un’area della ricerca, certe opere e alcuni autori sono stati molto citati e masticati, con esiti spesso felici. È questa solo una premessa per dire che Io robot del Teatro delle Briciole, per la regia di Beatrice Baruffini, è molto interessante, anche per quanto concerne la tematica scelta. Il nostro presente, come disse Ballard pochi anni prima di morire, è ormai già intessuto di futuro e i cambiamenti sono così rapidi che diventa difficilissimo fare previsioni o immaginare altri orizzonti. Compiere un “esercizio di futuro”, in relazione ai cambiamenti già in atto, è utilissimo per mantenere vivo quello sforzo di “prefigurazione” che è alla base sia del discorso educativo, sia dell’analisi critica. Siamo tutti immersi nella rivoluzione digitale/robotica e il rapporto tra tecnologia e infanzia si trova ad essere sempre più discusso (vedi i vari interventi ad esempio di Franco Lorenzoni).

Lo spettacolo sceglie come protagonisti due robot dell’ultima generazione, che capitano in un luogo che non conoscono e che poi scoprono essere la “pancia della grande ruspa”. Non sanno perché sono stati scartati. Tutto funziona correttamente. In questo strano luogo incontrano altri due prototipi di robot: prima una sorta di “casco virtuale” che fa loro girare la testa, come una droga o un sogno indotto, poi un piccolo robottino degli anni venti, un po’ giocattolo, un po’ da museo meccanico. L’idea è bella. C’è una prospettiva anche temporale della tecnologia che, seppure per piccoli tratti, offre la possibilità di ragionare su una “storia delle scienze robotiche”. I due attori (Simone Evangelisti e Agnese Scotti) sono bravi a utilizzare la voce metallica e a segmentare il movimento secondo lo stereotipo del robot-burattino. Si solletica l’immaginario collettivo (dai cartoni al cinema, ma soprattutto si cita il mondo dei video musicali da Laurie Anderson con O Superman, che nel 1981 fu anche performance, a Bjork con All is Full of Love e poi Lady Gaga e cento altri), facendo indossare bianchissime tute spaziali ai due attori e creando uno spazio vuoto di sospensione. I due robot nella ricerca del loro difetto iniziano a fare domande sempre più “esistenziali”, uscendo fuori dai binari della meccanica e intraprendendo una sorta di viaggio di conoscenza nella natura umana, come fu per il mitico e citato Blade Runner. È proprio su questo piano che si ricercano agganci con il pubblico dei più piccoli per mettere al centro una questione sulla “diversità” e sulle “grandi domande”. I robot, in un certo senso, nel loro spaesamento sono alla ricerca di una propria strada, sono come “bambini” che chiedono e interrogano. La drammaturgia si inventa anche un bel gioco, adoperando il meccanismo dell’ipertesto, o per meglio dire delle “connessioni” che crea in automatico google. I due robot parlano come macchine, le frasi spesso sono luoghi comuni oppure sono citazioni di qualcosa (film, teatro, libri…). Anche se i riferimenti spesso non sono subito evidenti, è piuttosto chiaro il procedimento. La lingua di google o le definizioni enciclopediche di wikipedia si mescolano a vicenda, con un’idea di lingua meccanica che potrebbe avere molte implicazioni. Complessivamente il lavoro offre moltissimi spunti, però, forse anche perché fresco di debutto, ha qualcosa che non funziona. O almeno questa è l’impressione, anche se andrebbe visto con un pubblico di bambini e ragazzini. Tutti gli ingredienti sono intelligenti, però sembra ancora che vada trovato il ritmo giusto, che si creino, soprattutto nel testo, maggiori porte di ingresso, per favorire frizioni e anomalie. Potenzialmente lo spettacolo sarebbe anche molto divertente, perché cova allo stesso tempo un’ironia sottile e momenti di comicità da teatro dell’assurdo. Ma entrambe le dimensioni faticano ancora a emergere. “C’è qualcosa che funziona poco”, come si chiedevano appunto i robot, “ma non sappiamo cosa”. E dunque la ricerca può diventare l’ottima occasione per continuare ad andare a fondo. (r.s.)

 

Camilla Lietti, Rodolfo Sacchettini




Un minuto di vita, una giornata a teatro: ultima istantanea dal festival

Ogni volta che si va a teatro con dei ragazzi, o meglio ancora con dei bambini, arriva sempre l’attimo in cui si spengono le luci, scende il buio fittizio che apre lo spettacolo e immancabilmente quel buio crea un mormorio di sorpresa, una promessa di inaspettato, un brivido di mistero, se non di vera e propria paura.
Per Across the Universe, il lavoro che inaugura la giornata di oggi, il buio non è solo quello siderale dello spazio, ma anche quello della condizione odierna di un mondo adulto confinato in un divenire senza potenziale che, come gli astronauti dello spettacolo, corre per raggiungere un qualcosa al di là della sua portata: il confine dell’universo.
Daniele Bonaiuti e Chiara Renzi, autori-attori dello spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole, scelgono l’immensità dell’universo per portare in scena l’infinita ricerca di senso dell’essere umano, infinita e imprendibile come la complessità del cosmo. La scena procede per sketch ed episodi affiancati tra loro e cuciti insieme dal filo dell’esplorazione spaziale, ma in realtà coesi dall’urgenza delle domande, prima fra tutte quella sul senso della vita. Non la vita in generale: proprio la nostra, episodica, mesta, infinitesimale davanti allo spettacolo delle stelle.
La scoperta del cosmo è scoperta di sé, la conoscenza è anche un saper diventare, ma questo richiamo dell’infinito è sia ammaliatore che terrificante e i due astronauti, alla vigilia della missione, si fanno attanagliare dall’ansia: dubbi e crisi di inadeguatezza divorano la parata mediatica approntata per l’occasione. L’opera ricorda nel linguaggio l’esperienza dei Sotterraneo, con cui gli attori hanno collaborato proprio in un lavoro rivolto all’infanzia (La repubblica dei bambini, sempre una produzione delle Briciole), e avvicina spot e lustrini, “edutainment” e reality show, dichiarazioni d’amore e eventi sportivi in un susseguirsi serrato di scenette e musiche, come in uno zapping contemporaneo.
L’ironia e la levità con cui Across the Universe costruisce il discorso non addolcisce l’inevitabile nichilismo che il futuro dispiega innanzi: l’impossibilità di diventare adulti, di avere un lavoro, una famiglia, una pensione, tutto raccontato sullo sfondo di pratiche del benessere tanto di moda oggi, dallo yoga alla cura di sé, quasi fossero escamotage per sfuggire alla lama delle inquietudini. Queste tornano ancora e ancora, camuffate nell’ipertrofia del narcisismo e dei fenomeni di divismo, come nell’intervista alla star del momento, il sole, che sembra uno dei tanti psicologi da social media quando raccomanda di essere se stessi e di continuare a bruciare sempre.
“Che senso ha la mia vita?”, chiede il Teatro delle Briciole al suo pubblico adolescente. Risposta non c’è, rimane un minuto di vita, da passare sotto un riflettore, continuando a porre domande.

Di sapore radicalmente opposto, e dedicato a un pubblico assai più giovane, L’albero di Pepe di AGTP – Teatro Pirata, racconta una favola di amicizia e collaborazione, portando in scena la storia di una bambina, Pepe, che per avere un po’ di tranquillità e di ascolto si rifugia su un albero, e lì rimane, novella barone rampante, fino a che l’arrivo dell’inverno non la mette in contatto con l’infinito mutamento delle cose, mentre l’irrompere della guerra la aiuterà a ritrovare il fratello. Passato l’orrore, l’amato albero, ormai giunto al termine del suo ciclo vitale, si trasforma in casa per accogliere la nuova vita dei due fratelli. Una favola raccontata con canzoni e pupazzi di animali, in una messa in scena più consueta ma capace di accogliere nella sua trama l’entusiasmo dei bambini che rispondono alle domande sia implicite che esplicite degli attori, e sono pronti a segnalare con risate e interventi ogni accadimento, l’arrivo di un nuovo animaletto sull’albero, i rimbrotti degli adulti “assenti”. Uno spettacolo che nella semplicità del racconto include, con leggerezza, lo sguardo del suo pubblico, pronto ad assecondarlo, a divertirlo, a dargli spazio, mettendo davanti a ogni altra questione la piacevolezza del tempo che i bambini trascorrono a teatro.

Ancora favole, questa volta imbandite in solitaria da Fabrizio Pallara per Fiabe da tavolo del Teatro delle Apparizioni. Sono racconti in valigia pronti a essere trasportati ovunque, mondi in miniatura che già vivono nell’immaginario di grandi e piccini. Non c’è sorpresa, non c’è trasformazione narrativa, il giovane pubblico sa già cosa accadrà, ma c’è la magia di una restituzione delicata e immaginifica che, con pochi semplici segni e con la virtuosità interpretativa e affabulatoria dell’intervento attoriale, prende vita pronta a depositarsi nella memoria e nell’esperienza degli spettatori. Boschi di sughero e carta, coriandoli come prati fioriti, personaggi-dita riconoscibili da un semplice indicatore cromatico, oppure una sfilata di cartoline per un viaggio intorno al mondo, paglia, legno e mattoncini per le casette in miniatura, baffoni neri per l’irresistibile lupo: questa volta sono state raccontate le fiabe di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini, ma viene da chiedersi quali altre invenzioni, e quali altre magie, contengano le borse da viaggio di Pallara. Non resta che aspettare, come una volta si aspettavano i cantastorie girovaghi, per un’altra ora di fantasia e incanto.

Lucia Oliva

Se fossimo adulti sapremmo individuare certi riferimenti a Il lago dei cigni, avremmo vita facile a goderne la  suggestione. Se fossimo adulti cadremmo facilmente nella trappola di rivivere la fiaba seguendo certi antichi ricordi, troppo flebili per rintracciarla davvero, troppo coscienti per davvero assecondare un’emozione purificata dalla nostalgia per l’età infantile. Se fossimo adulti troveremmo utile questo ricorso al vissuto, ma non lo siamo. Siamo bambini di fronte al Diario di un brutto anatroccolo, fiaba scritta da Hans Christian Andersen e tradotta per la scena dalla mano gentile di Tonio De Nitto con Factory Compagnia Transadriatica. Siamo nella fiaba per un pretesto coraggioso di indurre domande difficili sul tema della diversità, dapprima deficit di inclusione, infine punto di forza di un’elevazione imprevista. Con i tre attori-danzatori (Ilaria Carlucci, Fabio Tinella, Luca Pastore) che sviluppano una relazione molto stretta, trovando cioè il legame con cui farsi comunità, in scena è chi soffre l’esclusione, l’anatroccolo (Francesca De Pasquale) che non riesce a inserirsi secondo i canoni riconosciuti dal gruppo e vive l’emarginazione in famiglia, a scuola, nel mondo del lavoro, nell’illusione d’amore. De Nitto affronta il tema con delicatezza e decisione, sfrutta del teatro la possibilità che l’incanto non sovrasti una necessaria problematizzazione e compie così l’intero arco della creazione soprattutto dedicata all’infanzia: dispone con cura e pulizia espressiva gli elementi della scena perché fuori, in questo caso gli adulti, sappiano ricondurli a fini educativi. Certo, colto ognuno da quella impressione di meraviglia, a trovarne di adulti in sala.

Simone Nebbia




Il teatro e il mistero dell’infanzia. Breve inchiesta

Ripubblichiamo in questa sezione materiali, spunti, interviste, discussioni già edite altrove in passato ma che ci paiono ancora utili per una discussione sulle forme del teatro che dialoga con diverse generazioni.
A seguire una breve inchiesta realizzata da Altre Velocità e pubblicata nel luglio 2013

 

Cosa chiede il teatro ai bambini? Cosa chiedono i bambini al teatro? Il festival di Santarcangelo cerca di smuovere al suo interno questi interrogativi, appoggiandosi a compagnie che da qualche tempo stanno sviluppando un percorso forte su e con l’infanzia. Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Fanny e Alexander, Sacchi di Sabbia hanno fatto di questo elemento un vero e proprio cardine della loro produzione recente. Ora attraverso attività di laboratorio, ora affrontando la tematica nella rappresentazione, ora in spettacoli dove il palco è occupato da gruppi di giovanissimi, le esigenze dell’infanzia e le urgenze della scena si intrecciano in un legame che diventa fonte di crescita per l’una e occasione di rigenerazione per l’altra. Lo sguardo del bambino si è rivelato un alleato prezioso per il teatro, portatore di domande che incrinano le certezze a un tempo di attori e spettatori. I protagonisti di questa ricerca ci spiegano allora qual è il loro rapporto con un terreno tanto misterioso quanto fecondo. Alla loro si aggiunge la voce di Alessandra Belledi del Teatro delle Briciole, struttura che con il percorso “Nuovi sguardi per un pubblico giovane” ha prodotto le opere di alcuni di questi gruppi.

Pathosformel
«All’interno del nostro percorso è stato piuttosto azzardato intraprendere una relazione creativa diretta con i bambini. Nella performance del progetto T.e.r.r.y. i bambini sono autori delle proprie azioni e delle forme proposte, elaborate da loro stessi nei laboratori che precedono il debutto. Questo porta dentro l’opera una materia incontrollabile, un’indeterminatezza con cui nei nostri lavori non abbiamo avuto a che fare fino ad adesso. Il laboratorio è per noi un luogo sperimentale in senso stretto: creiamo un contesto e vi inseriamo un elemento che lo possa modificare. La domanda che poniamo ai bambini è “come immaginate il futuro”, e gli chiediamo così di costruire un nuovo mondo possibile, che abbia anche delle nuove regole, diverse da quelle del mondo attuale, basato su un sistema economico nel quale le richieste sono superiori alle risorse disponibili. Vogliamo sapere da loro qual è il sistema di relazioni nel quale gli piacerebbe vivere, se avessero la possibilità di distruggere il presente».

Giovanni Guerrieri / I Sacchi di Sabbia
«Guardare all’infanzia è frutto di una lunga metabolizzazione. Come molti gruppi a noi coetanei (il nostro primo lavoro è del ‘95), ci siamo trovati dentro a un indagine feroce del quotidiano. Ci muoveva un senso di asfissia, l’urgenza di guardare le cose con ferocia facendo i conti con i nostri pregiudizi sulla realtà. L’ansia di “urlare” diveniva pressante, e con 1939 (che ha debuttato nel 2007) per la prima volta è comparso Emilio Salgari: a un certo punto un personaggio diceva «ci vorrebbe un Salgari che ci raccontasse…». Sandokan (2008) ha dunque indagato un materiale caro per la nostra formazione, verso una dimensione biografica, e da quel momento si è aperta una falla che ci ha spalancato la via al mondo dell’infanzia. Con Pop up, portato qui al festival, cercavamo uno spettacolo per bambini in grado di funzionare anche per noi, che siamo adulti. La sfida consisteva nell’eliminare l’ingombro dei corpi per rendere il segno pulitissimo, una pennellata essenziale che chiama il bambino a un movimento con la fantasia».

Teatro Sotterraneo
«Dal momento che molte delle esperienze che facciamo sono mediate, si può dire che la nostra vita non sia più fisica, immersa come è in un sistema di codici. Anche il teatro è un codice ma prevede la presenza, per questo può essere una palestra che allena a riconoscere altri codici, per capire quale manipolazione sia in atto, che tipo di realtà venga proposta. Al bambino che lavora con noi per Be Legend! abbiamo esteso lo stesso lavoro di simulazione che pratichiamo nel nostro teatro. Gli abbiamo raccontato la storia di Amleto, per poi chiedergli di dimenticarla o prenderne ciò che voleva e infine costruire una docufiction del bambino-Amleto. Lavorando con attori professionisti, spesso affiora la domanda sul perché si stia facendo una determinata azione. È la domanda che a noi interessa meno, facendo teatro. Nessun bambino ce l’ha mai posta, perché quel tipo di scarto appartiene all’infanzia naturalmente. Così è il bambino che nutre noi, non viceversa, nel momento in cui gli facciamo richieste legate al gioco teatrale».

Chiara Lagani / Fanny&Alexander
«Nel percorso di Fanny & Alexander la riflessione sull’infanzia come luogo specifico e di elezione c’è sempre stata, ne abbiamo fatto uno degli archetipi fondamentali della nostra produzione artistica. Spesso il teatro guarda al bambino come organo propulsivo della creatività e della vitalità, alla sua capacità di stipulare il contratto ludico e di immedesimarsi con una versatilità priva di membrane protettive. Queste sono metafore generative per il teatro, chiunque di noi vorrebbe essere così poco protetto e così puro rispetto a una visione. Per gli spettacoli Discorso Giallo e Giallo – Radiodramma dal vivo, invece, l’infanzia non è solo un luogo simbolico, ma è uno spazio concreto che abbiamo dovuto attraversare chiedendoci cosa significasse educare e cosa sia l’educazione. Domande che abbiamo voluto rivolgere direttamente ai bambini, soggetti privilegiati di questo processo misterioso e complesso, che a loro volta ti pongono di fronte a quesiti sconvolgenti, dal punto di vista artistico e umano».

Alessandra Belledi / Teatro delle Briciole di Parma
«Il nostro lavoro è preliminare all’andare a teatro: agli spettatori bambini occorre insegnare come andarci. Dobbiamo insegnare loro a sospendere il rumore e a fare silenzio una volta entrati, fare loro capire che stanno per entrare in una dimensione di extraquotidianità. Questo va un po’ indotto, altrimenti pretenderanno di trovarsi come al cinema con la merenda e la coca-cola in mano. I bambini non sono gli spettatori del futuro ma del presente. Siamo abituati sempre più a consumare tutto, anche l’arte, per questo è necessario educare chi guarda. L’esperienza che i bambini potranno vivere dentro al teatro li allontanerà dal frastuono, dal multitasking, facendogli fare un’azione di vita vera. La relazione teatrale diventa insomma sempre più vitale. E questo vale anche per gli adulti. Il teatro per l’infanzia, semplicemente, esalta ciò che vale per tutti: per i bambini e per gli adulti la relazione va portata avanti in un modo più attento».