Riempire gli spazi vuoti: la libertà dell’immaginazione

Nel corso della IX edizione del festival “Teatro fra le Generazioni”, tenutosi tra Castelfiorentino ed Empoli dal 19 al 22 marzo, ci siamo posti diversi interrogativi. Abbiamo coinvolto nelle nostre riflessioni anche gli artisti e le compagnie presenti al festival (QUI): esiste un’istanza pedagogica nel teatro rivolto alle giovani generazioni? Che tipo di linguaggi esso utilizza e in che modo si relaziona con le nuove forme di comunicazione?

Intendiamo affrontare questi argomenti analizzando alcuni degli spettacoli presentati al festival. Tra i più interessanti emergono quelli che non hanno cercato facili scorciatoie, ma si sono rivolti al proprio destinatario con onestà, indagando la complessità dei contenuti proposti.

Si tratta di un teatro che non riduce e non soffoca i propri mezzi espressivi, ma anzi sfrutta strumenti diversificati, dalla figura alle ombre, dalla danza alle proiezioni. La scelta di utilizzare linguaggi evocativi e carichi di suggestioni nasce dal desiderio di lasciare uno spazio vuoto che l’immaginazione dei bambini potesse riempire: i bambini in questo modo si assumono la propria responsabilità di spettatori e prendono parte al gioco teatrale. La scelta di tempi distesi, di lunghe pause tra momenti narrativi e momenti dedicati allo scorrere delle immagini ha dimostrato la necessità, da parte di diverse compagnie, di restituire al pubblico di spettatori bambini quella lentezza e quell’attenzione minate dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

La questione dei linguaggi trova certamente grande spazio di riflessione nel teatro di figura, dove l’utilizzo di ombre, maschere, burattini, marionette, pupazzi e oggetti crea una frattura con la realtà, ma nello stesso tempo riesce a raccontarla evocando mondi e atmosfere. Un esempio di teatro di figura è “La gazza ladra”, spettacolo ideato da Paolo Valli e Katarina Janoskova, anche attori in scena, e pensato per bambini dai 3 anni in su. Il testo, scritto da Francesco Niccolini, che intreccia l’omonima opera di Rossini, della quale Mario Autore ha elaborato le musiche, con la storia del diluvio universale – la gazza fu l’unico animale a non ripararsi sull’Arca, ma a volarci sopra – viene raccontata attraverso immagini ispirate alle opere dell’illustratore genovese Emanuele Luzzati. Gli attori giocano sul palco, inventano ruoli, spazi e azioni sempre nuovi, invitando il pubblico a uno sforzo immaginativo e creativo. Gli spettatori sono immersi in un mondo che si arricchisce progressivamente di luci, sagome di cartone, ombre e musica in un crescendo di entusiasmo fino alla salvezza dal diluvio, che tutto lava riportando il colore.

Si rivolge a una fascia d’età più alta, dai 6 anni, “Non ho l’età”, una produzione di Riserva Canini e Campsirago Residenza, per la regia di Marco Ferro e Valeria Sacco. Lo spettacolo prende vita dalle riflessioni sul tema del tempo, condivise, durante un percorso laboratoriale, con bambini dai 6 ai 10 anni.  Attraverso l’utilizzo di una corda, che assume le più svariate forme, e due pupazzi, gli attori Manuela De Meo e Pietro Traldi costruiscono una partitura fisica che ripercorre le varie fasi della vita: il rapporto dell’uomo con la memoria, la nascita e la morte, l’amore. I rari momenti narrativi sono affidati a una voce fuori campo. I gesti sono concreti, funzionali, privi di qualsiasi stilizzazione e mantengono in questo modo tutta la loro emotività, caricandosi di attesa. Tra l’attesa e la realizzazione della forma c’è un tempo sospeso in cui tutto può essere o non essere, c’è il tempo dell’immaginazione e dell’intuizione. A differenza della colorata esuberanza de “La gazza ladra”, lo spettacolo di Riserva Canini lascia che la semplicità della messinscena tenga aperti tutti gli interrogativi sulla questione del tempo, “in modo che la fantasia possa collegare i puntini e costruire un disegno che sarà diverso per ognuno”, come ricorda l’attrice Manuela De Meo. Il bambino, in questo caso, non solo non viene messo al riparo dalla complessità del mondo, come spesso accade, ma, anzi, le sue stesse riflessioni diventano materia dalla quale attingere per la costruzione dello spettacolo.

locandina di Non ho l’età (dalla pagina Facebook di Riserva Canini Teatro)

Un altro interessante lavoro è La meccanica del cuore, una coproduzione del Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita, tratto dall’omonimo romanzo di Mathias Malzieu e diretto da marco Maccieri e Angela Ruozzi. Si tratta di uno spettacolo in cui sia la parola che l’impianto scenografico occupano un grande spazio. La storia, dai tratti fiabeschi, racconta di Jack, un giovane dall’oscuro passato, che può sopravvivere solo grazie a una magia della sua levatrice, Madeleine. La donna ha applicato al suo cuore un orologio, raccomandando al ragazzo di non innamorarsi mai perché questo sentimento potrebbe distruggere quel marchingegno al quale la sua vita è legata. Una storia che parla di crescita, di identità, del rapporto con la realtà. Scopriremo che l’orologio di Jack non è altro che il tentativo, da parte della sua levatrice, di proteggere il ragazzo dalle emozioni e dal dolore che possono procurare. Il ragazzo per anni vive con il peso della sua fragilità, della sua malattia, della sua infelicità. Jack si fida di Madeleine e solo quando si strappa l’orologio dal petto, preso dalla disperazione per un amore finito, si accorge dell’inganno. La realtà non è sempre come sembra e spesso le nostre convinzioni riescono a stravolgerla.  Si tratta di tematiche molto vicine al pubblico preadolescente al quale lo spettacolo si rivolge. La messinscena guadagna grande fascino grazie all’utilizzo di sagome e ombre, opera di Garioni e Montecchi. L’ombra diviene lo strumento per trattare gli elementi centrali e più sensibili dello spettacolo, come il ricordo, la scoperta dell’amore e della sessualità, il confine tra realtà e finzione. La scelta di questo linguaggio permette di ricreare l’atmosfera onirica del romanzo che si riempie di senso proprio grazie a tutti quegli elementi che lo allontanano dalla nostra realtà quotidiana, ma lo avvicinano alle nostre esperienze emotive. Come descrivere l’amore, la gelosia, la rabbia? “Mi sono sentito come se…” diciamo spesso. A volte abbiamo bisogno di una metafora per farci chiari. In questo spettacolo il linguaggio del teatro di figura diventa metafora di un mondo apparentemente sconosciuto.

Angela Ruozzi, regista de La meccanica del cuore, durante la nostra intervista al Teatro del Popolo di Castelfiorentino

L’utilizzo delle immagini diventa centrale nello spettacolo di Vania Pucci, “Di segno in segno”, una produzione di Giallo Mare Minimal Teatro che quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di repliche. Adriana Zamboni interagisce con l’attrice in scena realizzando delle immagini che per mezzo di una lavagna luminosa vengono proiettate su un fondale bianco, unico elemento scenografico, dando corpo al racconto. Vania Pucci attraverso una finestra guarda il mondo e lo descrive, passando dai pianeti agli oceani. Quando lo spettacolo nacque l’utilizzo della lavagna luminosa era una novità assoluta in teatro e permetteva di comporre in modo immediato le immagini sul fondale. Oggi i linguaggi utilizzati per questo lavoro diventano ancora più interessanti rispetto al discorso sulle nuove tecnologie, che sempre di più mettono i bambini di fronte a immagini preconfezionate. Vedere un’artista che con la sola abilità manuale aggiunge pellicole e colori mettendo insieme una forma dopo l’altra provoca una forte curiosità nello spettatore. “Di segno in segno”, un titolo che non a caso contiene anche il gioco di parole Disegno-Insegno, si colloca tra gli spettacoli che puntano sulla stimolazione sensoriale per raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità immaginative. Uno spettacolo che non rinuncia, dopo vent’anni, a portare in teatro una forma narrativa da fruire pazientemente, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto.

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno

L’utilizzo di linguaggi diversificati è stato dunque utile alle compagnie per rendere leggibile lo spettacolo a più livelli, per ampliare le possibilità di comprensione, per lasciarsi guidare dall’intuito. Il valore pedagogico di uno spettacolo, in fondo, non è rintracciabile anche a partire dalla scelta, di cui si accennava all’inizio, di lasciare degli spazi vuoti da riempire, di non imbrigliare l’immaginazione, ma di lasciarla correre libera? 

Nella Califano, Michele Spinicci




LA PAROLA AI PROTAGONISTI: COSA MANCA OGGI AL TEATRO RAGAZZI? – TERZA PARTE

La terza e ultima parte delle conversazioni con i protagonisti del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino raccoglie le risposte a una domanda che tocca alcuni nervi scoperti del teatro destinato al giovane pubblico e non solo.
Per le conversazioni sul rapporto tra teatro e pedagogia: qui la prima parte, qui la seconda parte.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Uno dei disegni dei bambini coinvolti nel progetto laboratoriale precedente la realizzazione di Non ho l’età (dal sito: comune.prato.it)

Credo che nel teatro ragazzi manchi un rapporto più continuo con i suoi destinatari. Questa è una possibilità che noi ci siamo creati incontrando gruppi di bambini prima di pensare all’allestimento dei nostri spettacoli: per noi è stato molto più funzionale che fare uno spettacolo con un tema al quale agganciare un laboratorio. Questa esperienza, secondo noi fondamentale per un artista, non è né prevista né agevolata da molte strutture, infatti in pochissimi casi esistono spazi in cui si possa sviluppare un lavoro che non si limiti alla performance.

Spesso compagnie che producono spettacoli per adulti quando si confrontano con un pubblico di bambini pensano che si debba abbassare il livello, quando invece è il contrario. I bambini sono interlocutori molto attenti, per loro sono importantissimi dettagli che molto spesso agli adulti sfuggono.

Vania Pucci Di segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Risultati immagini per vania pucci
Vania Pucci (dal sito: empoli.gov.it)

Oggi molti dei “grandi vecchi” del teatro ragazzi hanno messo i remi in barca, mentre i giovani spesso, non sapendo cosa c’è stato prima, finiscono per utilizzare linguaggi già superati, prendendoli per nuovi. In teatro non si inventa niente, al massimo si può restituire in maniera personale qualcosa di già sperimentato.

È cambiata molto anche la scuola e il nostro modo di rapportarci con essa: se prima era un buon alleato, ora dobbiamo ritrovare una complicità. Gli insegnanti si trovano di fronte a grandi difficoltà: ragazzi che vengono da culture diverse, genitori che entrano nello specifico del loro mestiere denigrandone il ruolo. È normale purtroppo che in un momento di crisi, il teatro non rientri più nelle priorità di questa istituzione.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui trovate l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, nello stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Molière, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroveremo in un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro.

È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui trovate l’intervista integrale)

Renata Coluccini (dal sito: ilflaneur.com)

Manca sicuramente lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade conosciute e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione in cui fare il punto e chiedersi cos’è oggi quello che facciamo.

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Seconda parte

Pubblichiamo il seguito delle nostre conversazioni con alcuni dei protagonisti della nona edizione del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino. Ci interroghiamo sul rapporto tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi e sulla scelta dei contenuti e dei linguaggi negli spettacoli da destinare al giovane pubblico. (qui la prima parte)

Simone Guerro Il grande gioco, Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata

Fabio Spadoni e Simone Guerro fuori dal Teatro del Popolo di Castelfiorentino, durante l’intervista per Planetarium.

Per noi il pubblico dell’infanzia non è mai un pubblico di bambini, ma un pubblico di persone, con la loro sensibilità e la loro complessità. La prima questione che mi pongo è quella del linguaggio, che significa essere all’altezza di quel pubblico, che è esigente e ti chiede verità, e non abbassare il livello o adoperare delle semplificazioni. Occuparmi di teatro ragazzi mi permette anche di fare teatro politico: credo, infatti, che oggi il vero teatro politico sia proprio questo perché il pensiero pedagogico è un pensiero politico.

Nello spettacolo “Il grande gioco” la morte è un pretesto per parlare della vita, perché della morte non c’è nulla da dire. Per parlare della vita occorre confrontarsi con il fatto che esiste un inizio e una fine, un tema che cerco di far emergere spesso. È nata così l’idea di due fratelli per i quali la morte diventa la possibilità di fare le cose importanti, di stare insieme, di volersi bene, perché non c’è più tempo da perdere.

L’altro tema fortemente politico di questo spettacolo sta nel fatto che in scena c’è un attore disabile, Fabio Spadoni, considerato dalla società un debole, una persona da accudire e per la quale provare compassione (un’idea che non mi appartiene per niente!). Nello spettacolo, invece, è proprio Fabio, affetto da sindrome di Down, ad avere il ruolo della persona forte, che prova a risollevare il fratello malato. La forza di Fabio sta nella sua gentilezza, nella sua allegria, lui non è mai cattivo e questa forza è quella che ritroviamo nello spettacolo. Far stare in piedi questo ragionamento è arte, è politica. Il tema che mi interessa di più è come una cosa delicata possa avere una forza prorompente: bisogna difendere la delicatezza mostrandone la forza.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Non ho l’età (dal sito:campsiragoresidenza.it)

Da diversi anni costruiamo i nostri spettacoli a partire dal materiale raccolto nei percorsi laboratoriali che facciamo insieme a gruppi di bambini di tutta Italia in presenza degli insegnanti, e che sviluppiamo intorno a un tema specifico. “Non ho l’età” ad esempio si interroga sul concetto di tempo.

Abbiamo incontrato bambini dai 6 ai 10anni e con loro abbiamo ragionato sul presente, sul passato sul futuro e su tutti gli aspetti legati allo scorrere del tempo, come la memoria, il ricordo, le esperienze che si fanno a seconda delle fasi della vita, il rapporto con i nonni e con gli anziani e il rapporto con la morte. Ogni incontro veniva suddiviso in due parti, una prima in cui con un registratore raccoglievamo gli spunti delle discussioni collettive e una seconda in cui a partire da quella discussione iniziavamo a elaborare fisicamente il tema proposto attraverso giochi, esercizi teatrali corporei e percettivi e, infine, attraverso l’espressione artistica (disegni, manipolazione della creta e dell’argilla…).

Questo processo per noi è fondamentale perché ci permette di costruire lo spettacolo con consapevolezza, a partire dalla percezione che il bambino ha sul un certo tema. Per noi l’importante è lavorare a tutto tondo, senza prefissarci degli obiettivi pedagogici, ma creare suggestioni, mettere un tema in campo e lasciare la possibilità ai bambini di svilupparli. Grazie ai bambini si possono aprire delle piste rispetto ai temi trattati, che a volte sono considerati tabù dagli adulti.

Parlare di morte a bambini di sette anni significa riportarli a un’esperienza che molti di loro in qualche modo hanno già vissuto, bisogna solo trovare la chiave giusta per affrontare questi temi, ma non rimuoverli, perché loro sanno bene che esiste una fine della vita. Certo sono temi delicati, per cui ci siamo chiesti quali mmaginari, quali parole, quali ritmi utilizzare per veicolarli. Questo richiede sempre un grande sforzo, per cui spesso ci siamo trovati a dover ricalibrare lo spettacolo a seconda delle reazioni dei bambini.

Katarina Janoskova e Paolo ValliLa gazza ladra, Compagnia L’asina sull’isola

Katarina Janoskova e Paolo Valli durante una scena de La gazza ladra

Nel teatro di figura si opera sempre uno spostamento di senso. Nel caso dell’ombra, quello che ci interessa è la possibilità di proiettare in quella macchia nera tutto ciò che si ha nella testa: non si tratta di una forma definita e questo aiuta i bambini, abituati oggi a immagini già pronte all’uso, a utilizzare l’immaginazione. Questo succede in tutto il teatro di figura perché non c’è il limite del corpo che ha l’attore fatto di carne e ossa. Gli spettatori, sia adulti che bambini, hanno tutto un mondo da investigare, un altrove evocato grazie alla magia dell’artigianalità. I bambini stanno
perdendo la manualità e lo stupore, per cui è necessario riportare la loro attenzione sulle cose semplici: questi antichi saperi sono in grado di farlo e in questo si manifesta decisamente una forma di pedagogia.

Simona GambaroPollicino, Teatro del piccione e Teatro della Tosse

Paolo Piano e Simona Gambaro durante una scena di Pollicino (dal sito: teatrodelpiccione.it)

L’intenzione nel nostro modo di fare teatro è quella di muovere delle domande: non vogliamo insegnare qualcosa, ma lasciare emergere delle questioni sulle quali tutti si possano interrogare. Il linguaggio che scegliamo di utilizzare è certamente calibrato perché possa essere compreso dai bambini, ma la fiaba già di per sé parla a ognuno di noi. Io non faccio uno spettacolo se non sento un fuoco dentro e anche la forma, l’immagine, che curiamo molto, sono sempre al servizio di questo fuoco, di una domanda esistenziale. Ogni volta che il teatro si manifesta, diventa esperienza e smuove qualcosa.

Io sono specchio degli spettatori e tramite insieme a loro di un incontro e in mezzo avviene qualcosa che lascia delle domande. Quando recito in Pollicino sono dentro a questo riverbero e ogni volta ritrovo nello spettacolo un pezzetto di me,della mia vita. Ne “La grammatica della fantasia” Rodari scriveva che le storie sono come un sasso lanciato nello stagno che crea cerchi concentrici:anche se tu non lo vedi, questo riverbero,questo cerchio che si allarga nell’acqua fa muovere tutto il resto, i bordi dello stagno,il filo d’erba e così via. In questo spettacolo noi non mettiamo il pubblico in una condizione di agio,ma di movimento, sperando che qualcosa riverberi ancora e ancora.

I formatori come i genitori e gli insegnanti hanno tra le mani una materia calda informe. Sicuramente dallo spettacolo scariruranno delle domande. Ci si butta insieme. I registi ci hanno detto di affidarci totalmente alla fiaba senza paura,di non aggiungere altro, ma di tenere dentro tutta la vita della fiaba più siamo fedeli e più lasciamo aperture, meno tentiamo di interpretare più lasciamo che quel bosco rappresenti per ognuno di noi un attraversamento diverso

Riccardo RombiVulcania, Compagnia Catalyst

Rosario Campisi e Giorgia Calandrini in una scena di Vulcania

«Il teatro è civile per definizione. I bambini sono pronti a recepire il messaggio che vogliamo trasmettere in modo immediato
con spettacoli come Vulcania, che tratta dei principi della nostra Costituzione Per loro è ovvio e intuitivo che ai diritti corrispondano i doveri. Tra loro non ci sono differenze, si rispettano profondamente, non distinguono le persone per il colore della pelle o per la provenienza. Sono gli adulti che non credono più nei principi della Costituzione e che in nome del realismo sono sempre pronti a porre ostacoli tra loro e i loro doveri. Il teatro oggi può e deve aiutare i bambini a diventare cittadini e persone libere».

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Parte prima

Interrogarsi sul teatro ragazzi significa innanzitutto considerarne il destinatario, lo spettatore bambino, che si trova nel pieno della sua fase di formazione.

Abbiamo approfittato della presenza al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino di attori, registi e drammaturghi che hanno visto nascere l’esperienza del teatro ragazzi o che a esso si sono avvicinati di recente, per domandarci, insieme a loro, in che termini si pone la relazione tra arte e pedagogia in questo contesto spettacolare e se questa relazione sia necessaria. A partire da questa domanda, la discussione si è allargata ai contenuti degli spettacoli e ai linguaggi utilizzati per renderli fruibili allo spettatore. L’utilizzo delle fiabe è una scelta adoperata in moltissime occasioni, ma le modalità di messinscena variano a seconda del valore che le compagnie riconoscono a questi grandi contenitori di archetipi. Lo stesso discorso vale per la scelta dei linguaggi. Abbiamo assistito a spettacoli in cui particolare rilievo era affidato alla parola, ad altri in cui si preferiva evocare la storia o parte della storia, attraverso immagini, ombre, suoni, luci.

La possibilità di confrontarci da una parte con delle
compagnie storiche e dall’altra con artisti approdati al teatro ragazzi in un
contesto storico diverso da quello in cui esso si è sviluppato, ci ha permesso
di riflettere, ascoltando diversi punti vista, sulle eventuali mancanze di cui
oggi il teatro ragazzi soffre e sul cambiamento che esso ha subito rispetto ai
suoi esordi.

In attesa di un racconto più approfondito di alcuni degli spettacoli presenti alla nona edizione del festival e di un ragionamento sui temi emersi nel corso delle nostre visioni, riportiamo la prima parte delle numerose e intense conversazioni raccolte nel corso di queste quattro ricche giornate a Castelfiorentino.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui l’intervista integrale)

Mila Boeri e David Remondini durante una scena di Amici per la pelle

L’educazione comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in scena.

Nel caso del nostro spettacolo l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Giusi Merli Pinocchi,Progetti Carpe Diem/La casa delle storie e Il Lavoratorio

Spesso chi realizza spettacoli di teatro ragazzi crede di rivolgersi a un pubblico che capisce poco o niente, per cui produce rappresentazioni che sono solamente divertenti. Questo però non è teatro, è un affronto ai bambini. Il vero teatro invece, come tutta la vera arte, è già di per sé pedagogico perché sa insegnare l’apertura e la ricettività verso i sentimenti e le emozioni. Sono proprio i bambini quelli più pronti a schiudere la mente, il cervello, l’anima davanti all’energia umana che il teatro porta con sé.

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di mettere in scena soltanto i primi quindici capitoli di “Pinocchio”, nato come un romanzo a puntate che si concludeva con la morte per impiccagione del protagonista. Non ci interessava molto il fatto che Pinocchio imparasse a comportarsi bene e diventasse un bambino vero, preferivamo far emergere l’umanità e la forza dirompente di questo personaggio, che è ciò che può comunicare di più ai bambini e a tutti gli spettatori.

Compagnia Zaches TeatroCappuccetto Rosso (qui l’intervista integrale)

Amalia Ruocco in una scena di Cappuccetto rosso

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.

Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli insegnanti.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della formazione del pubblico, ciò che ricerco è un effetto di meraviglia e la condivisione di essa. Scrivendo, il mio scopo è quello di creare un ponte tra il palco e la platea e fare sì che sia chi sta in scena che lo spettatore percorrano un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una parte. Per dare luogo a questo incontro è necessario un linguaggio comune, intriso di curiosità e meraviglia.  

Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a cuore a chi la racconta. In questo modo sarà in grado di evocare allo spettatore qualcosa della sua vita o, per un bambino, qualcosa che sia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Vania PucciDi segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno (dal sito: giallomare.it)

Tra chi pensa che il teatro ragazzi non debba avere nessun fine didattico ed educativo e chi considera queste componenti essenziali, io mi colloco nel mezzo. Il teatro ragazzi deve esprimere un contenuto artistico, ma non può ignorare che i suoi destinatari si trovino nel bel mezzo del loro processo di formazione.

Io ho studiato pedagogia e ho lavorato nella scuola dell’infanzia per molti anni prima di arrivare al teatro per bambini, che per me è stato un modo diverso e nuovo di relazionarmi con la scuola e i ragazzi; per questo nei miei spettacoli non posso trascurare l’aspetto formativo. La difficoltà è quella di comprendere i confini tra arte e pedagogia e in che modo coniugare questi due aspetti.

Nello spettacolo di oggi, nato venti anni fa, queste due componenti, quella pedagogica e quella artistica, coesistono ed è evidente già nel titolo: “Di segno in segno”, che si può leggere anche come “Disegno insegno”. L’utilizzo della lavagna luminosa nello spettacolo (che fu una novità all’epoca) ha un valore poetico, offre un momento di visione artistica, ma cerca anche di lavorare sulla creatività, facendo accostare i bambini a uno strumento che non conoscono.

Compagnia MaMiMòLa meccanica del cuore, Centro TeatraleMaMiMò e Teatro Gioco Vita (qui l’intervista integrale)

Una scena de La meccanica del cuore (dal sito: canalearte.tv; ph: Nicolò Degl’Incerti Tocci)

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono.

Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Nella Califano, Michele Spinicci




Oltre la fiaba: aprirsi alla complessità del mondo. Conversazione con Francesco Niccolini

Incontriamo al festival Teatro fra le generazioni Francesco Niccolini che esattamente un anno fa, in occasione della presentazione di “Digiunando davanti al mare” al festival di Castelfiorentino , ci ha parlato della sua attività di drammaturgo e della relazione con lo spettatore bambino (QUI l’intervista integrale). In questa nona edizione del festival conversiamo con lui dopo aver assistito ai lavori di due compagnie che si sono avvalse della sua collaborazione: “La gazza ladra” dell’Asina sull’Isola e il progetto “Il grande gioco” di Simone Guerro dell’Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata ATGTP. È emerso un punto di vista stimolante e provocatorio sulla necessità di “superare” la fiaba classica e di assumersi nei confronti delle nuove generazioni la responsabilità di parlare del mondo nella sua complessità.

Una delle domande che
ci siamo posti con il nostro osservatorio sul teatro ragazzi riguarda la
relazione tra arte e pedagogia. È un aspetto presente nei tuoi spettacoli?

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della
formazione del pubblico, io ricerco l’effetto di meraviglia e la possibilità di
condividerla. Io scrivo, per cui il mio scopo è quello di creare un ponte tra
il palco e la platea e fare in modo che l’attore e lo spettatore percorrano
insieme un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una
parte. Per rendere possibile questo incontro è necessario un linguaggio comune,
intriso di curiosità e meraviglia. 
Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a
cuore a chi la racconta; in questo modo sarà in grado di evocare nello
spettatore qualcosa che appartiene alla sua vita o, nel bambino, qualcosa che
stia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco
nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia
quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Quest’anno hai
collaborato alla realizzazione de “La gazza ladra” e del progetto “Il grande
gioco”, che abbiamo visto qui a Teatro fra le generazioni. Si tratta di due
lavori diversissimi. Come si coniugano la tua poetica e i tuoi obiettivi con
questi due risultati così distanti?

Quello che continua a piacermi da morire di questo lavoro è la possibilità di cambiare continuamente le forme del racconto. Ogni volta devi confrontarti con una sfida diversa, ed è ciò che mi incuriosisce e mi stimola: essere pronti a mutare il proprio approccio in base agli elementi presenti, trovare soluzioni capaci di esaltare ogni volta le diverse abilità e potenzialità comunicative presenti in scena. È un gioco sempre diverso in cui trovare la soluzione significa scoprire come gestire l’effetto di meraviglia.

Esistono degli
stereotipi rispetto alle modalità di relazione con l’infanzia, tra questi la
necessità di comunicare attraverso narrazioni edulcorate. Si tratta di un
orientamento presente non di rado anche nel teatro ragazzi. Come ti rapporti a
questa tendenza?

Personalmente non sono così convinto che il politicamente
corretto sia sempre necessario, soprattutto quando diventa un modo per
offuscare la realtà: ne “La gazza ladra” a un certo punto ci sono due animali
che litigano sull’Arca di Noè e si scambiano anche parole come “culo stretto” o
“ciccione”. Può non piacere, può sembrare strano, ma dobbiamo pensare che si
tratta di due personaggi su una nave scossa dalle onde del mare in tempesta.
Immaginare che si mettano a fare una discussione in punta di forchetta sarebbe
assurdo. Non penso che i bambini vadano continuamente protetti, illudendoli di
vivere in una fiaba serena e felice. Lo stesso mondo dei bambini può essere
estremamente crudele. Non voglio dire che si debba cercare un effetto
traumatico, ma rendere progressivamente conto della complessità che ci
circonda. Bisogna cominciare a introdurre tutti gli aspetti duri e anche feroci
della vita, proprio per permettere che i bambini non li affrontino da soli.

Qual è il principale
problema del teatro per ragazzi oggi?

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, allo stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Moliere, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroviamo all’interno di un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro. È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Nella Califano, Michele Spinicci




Vedere il lupo da vicino: conversazione con Zaches Teatro

«Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno
già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono
essere uccisi»

G. K. Chesterston

La compagnia Zaches Teatro utilizza questa citazione per presentare il suo Cappuccetto rosso al festival “Teatro
fra le generazioni”. Una produzione in collaborazione con Giallo Mare Minimal
Teatro, Fondazione Sipario Toscana, La Città del Teatro e Regione Toscana. In
scena, gli interpreti Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Daria Menichetti.

A partire dalle domande su cui ci stiamo interrogando nel corso di questa
IX edizione di “Teatro fra le generazioni” abbiamo intavolato una breve
conversazione con la regista Luana Gramegna (che si è occupata anche della
drammaturgia e della coreografia), Francesco Givone (scene, luci, costumi e maschere)
e Stefano Ciardi (progetto sonoro e musiche originali).

Negli ultimi anni si parla spesso di formazione del pubblico. Quale pensate
sia il legame tra arte e pedagogia?

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia
e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la
nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo
intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.
Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico
quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è
perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione
più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante
offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni
che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli
insegnanti.

A proposito di stimoli: oggi i bambini sono abituati a un sovraccarico di
informazioni, a un flusso rapido di immagini. Voi comunicate attraverso la
danza, la maschera, le ombre e nel vostro spettacolo ci sono molti momenti di
silenzio. Quali sono le ragioni di questa scelta?

Forse il problema più grande degli ultimi anni è legato al ritmo, che
spesso ci obbliga a creare montaggi sempre più serrati per seguire il tipo di
fruizione a cui sono abituati i giovanissimi. Nel nostro modo di lavorare c’è
la volontà di recuperare ciò che da sempre appartiene alla memoria teatrale e
umana, come le maschere e le ombre, che colpiscono il nostro
immaginario più di qualsiasi altro linguaggio. Si tratta di strumenti semplici
ma capaci di parlare ai bambini di oggi.

Lo spettacolo è consigliato a partire dai 4 anni, pensate che questo tipo
di lavoro sia adatto a un pubblico così giovane?

Noi lo consigliamo dai 4 anni perché pensiamo che i bambini a quell’età possiedano la capacità di operare fortissime associazioni attraverso l’uso delle immagini, senza la necessità della parola, che spesso porta a chiudersi dentro alcuni schemi mentali. Nel percorso verso l’età adulta più impariamo, più perdiamo qualcosa. I bambini invece hanno ancora la capacità di avvertire l’archetipo della fiaba, non a livello concettuale, ma emozionale ed è questo che a noi interessa. Esiste già una grande offerta di spettacoli didattici che si occupano di veicolare informazioni, ma per noi è importante che il bambino conservi un’emotività viva.

Il linguaggio che usiamo non è fruibile da tutti allo stesso modo, ma siamo convinti che non sia una debolezza, bensì un punto di forza. Lo spettacolo, che rispetta la struttura originaria della fiaba, può essere letto in modo stratificato: un pubblico più preparato potrà individuare tutti i simboli che la fiaba contiene, esistono però anche livelli di lettura più semplici.

Per la messa in scena del vostro spettacolo avete consultato diverse
versioni della fiaba di Cappuccetto rosso. Come avete presentato agli
spettatori gli elementi più inquietanti e crudeli contenuti in esse?

La fiaba nasce come racconto indirizzato non soltanto ai bambini. Semplificarla e renderla rassicurante equivale a sminuirla. Non si può privare la fiaba di tutti quegli aspetti inquietanti che le appartengono. Nello spettacolo c’è un momento in cui il lupo scende in platea, ma dopo una tensione iniziale, i bambini di solito cominciano ad accarezzargli il muso. Vedere il lupo da vicino assume una funzione catartica, di svelamento e dunque di superamento della paura. Per noi è un momento fondamentale, perché permette ai bambini di avvicinarsi alla paura, conoscerla, darle un volto. La paura nasce da ciò che non conosciamo. Coraggioso non è chi non ha paura, ma chi decide di non sottrarre lo sguardo davanti a essa. La paura non deve essere censurata, ma gestita. Costituisce una parte importante del nostro essere, della nostra crescita. Non abbiamo intenzione di presentare ai bambini un mondo che non esiste, ma di farli rispecchiare nella realtà in cui vivono, prepararli a un universo che diventa sempre più complicato. Il vero problema, oggi, sono gli adulti che non sanno gestire la paura.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci