Essere se stessi, o la rivincita della ferinità

Cosa si cerca in uno spettacolo teatrale rivolto alle nuove generazioni? Quando un adulto porta un bambino a teatro (perché il bambino è portato e non può scegliere di recarvisi da solo come lo psicologo e studioso Giorgio Testa specifica) in base a cosa sceglie quale rappresentazione vedere? Deve essere un titolo classico (una fiaba appartenente al repertorio per l’infanzia…), affrontare un tema caldo per la società odierna (il bullismo o l’utilizzo delle nuove tecnologie…), trattare concetti utili alla crescita personale del bambino (altruismo, comprensione, rispetto…), fargli capire quale sia il suo ruolo nel mondo? Spesso gli adulti chiedono allo spettacolo teatrale una predisposizione alla pedagogia, dove per quest’ultima si intende “la disciplina che studia i problemi relativi all’educazione e alla formazione dell’uomo, avvalendosi dell’apporto di numerose altre scienze allo scopo di indicare i principi, i metodi, i sistemi su cui modellare la concreta prassi educativa” (fonte Treccani). Il teatro diventa quindi un viatico attraverso cui fornire al bambino alcuni strumenti utili che come una bussola possano guidarlo a districarsi nel mondo, lo rendano capace di relazionarsi con le altre persone, di sviluppare un comportamento di rispetto verso se stesso e verso gli altri. Ma non è solo questo – che potrebbe far apparire il teatro come una sorta di semplice stampella in soccorso all’educazione (e forse sembrare didascalico – e in proposito rimandiamo a una piccola inchiesta. Il teatro tocca la sfera emotiva, offrendo allo spettatore (bambino, ma anche adulto) molto di più che questioni su cui apprendere lezioni e interrogarsi, perché lo si vive sulla propria pelle e diventa un dispositivo potente, diretto: passa attraverso un linguaggio prorompente, è un corpo a corpo che arriva prima della stessa parola, si serve di immagini evocative che aprono a un’alterità o ad altri mondi possibili, forse più gentili, in cui la bellezza è un valore aggiunto da rispettare, da invocare.

Al festival Maggio all’Infanzia abbiamo assistito a diversi spettacoli che suggerivano ai più piccoli con quale spirito affacciarsi alla vita. Se da una parte il tema del coraggio e della paura sono stati ampiamente indagati dall’altra parte abbiamo notato come molte compagnie abbiano esplorato il bisogno di spingere i bambini a essere se stessi. Ne Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo, spettacolo indicato dai 4 agli 8 anni, i simpatici pupazzi creati da Lucrezia Tritone, animati da Anna Chiara Castellano Visaggi e Giacomo Dimase, diretti a loro volta da Marianna Di Muro – affrontano in maniera semplice ed efficace, il tema dell’amore. Come tutti i bambini che si rispettino anche il piccolo Bruno pone infinite domande a tutti quelli che lo circondano, i genitori, gli amici e i maialini suoi compagni, per capire come poter essere accettato dagli altri. Utilizza una narrazione lineare – senza troppe sorprese – facendo leva su personaggi leggeri e divertenti che catturano i bambini in sala che ridono, partecipano a accettano alla fine Bruno – come i suoi amici  e soprattutto la sua nuova fidanzatina – nonostante la sua avversione all’acqua e al sapone. Non c’è dentifricio, capelli in ordine né vestiti puliti che tengano se questi piegano e trasformano la personalità: in fondo, sembra suggerirci lo spettacolo, chi ti ama lo fa per ciò che sei e non per ciò che vorresti sembrare. Insomma il messaggio finale di essere se stessi fino in fondo paga sempre, ci dice Bruno che Zozzo era e Zozzo rimane tra i gridolini entusiasti dei bambini che comprendono come l’essere amati vada al di là di ogni apparenza possibile, (nella speranza che non boicottino l’uso della saponetta per emulare il loro nuovo amico pupazzo).

Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo

Si confronta invece con una drammaturgia grottesca Emanuele Aldrovandi che compone Scarpette rosse per BIBOTeatro, con la rigorosa e pulita regia di Andrea Chiodi e le due brave ed esplosive attrici Alessia Candido e Miriam Costamagna. Le due scarpette rievocano la storia che le ha portate a far liberare, in una ragazzina che le aveva indossate, una energia irrefrenabile e incontrollabile senza però considerare le conseguenze negative che questa avrebbe portato alla bambina stessa (costretta a perdere i suoi piedi) e alla persona a lei più vicina (che dopo averla accudita si ritrova a morire in solitudine). E allora qui, in uno spettacolo proposto dai 9 anni, Aldrovandi spinge verso risultati estremi l’essere se stessi a tutti i costi, senza reprimere in alcuna misura le proprie pulsioni. La scrittura del drammaturgo emiliano è, come ci ha abituato anche nei suoi lavori “per adulti”, una scrittura insistente e insistita, qua e là scattante e nervosa, che cade “a goccia” sul palco scavando lo spazio e assumendo come motore interno le contraddizioni della volontà. Repressione contro pulsione, responsabilità contro libertà, riverenza contro autodeterminazione. La bambina, che a livello logico-narrativo è la protagonista della storia, viene ridotta a un pupazzo gigante inanimato mentre le scarpette rosse, i due oggetti, sono impersonate da attrici in carne e ossa. È una sorta di “feticismo scenico”, che giustamente simboleggia un certo incancrenirsi della capacità di giudizio e scelta, la cristallizzazione del percorso di crescita su un solo e unico atto, la danza sfrenata, che piano piano diventa esasperazione, rito macabro, destino tragico.

Perché – sembrano dirci alcuni degli spettacoli di Maggio all’Infanzia – la “scoperta di se stessi” non è certo un pranzo di gala. Si tratta di un processo che libera energie dionisiache, potenzialmente pericolose e disgreganti. Occorre andare sempre contro qualcuno o qualcosa, siano le norme dell’apparenza (Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo) o le rigidità della morale comune (Scarpette rosse). Essere se stessi significa lottare?
I musicanti di Brema del Teatro delle Apparizioni dà a queste suggestioni precisi connotati politici. La storia della sgangherata “combriccola animale”, protagonista della fiaba dei fratelli Andersen, è affidata in scena al duo Bartolini/Baronio, che si incarica di arricchire la narrazione di voci, rumori, versi e loop chitarristici. C’è infatti la sovrapposizione fra racconto orale recitato e forma-concerto, per cui le vicenda e le gesta dei “musicanti” si intrecciano con canzoni live ed effetti sonori. In generale, perlomeno nei momenti più riusciti dello spettacolo, sono proprio due diverse sintassi a fondersi insieme: nel momento in cui gli animali fanno irruzione nella casa dei briganti, una delle scene-madre della fiaba, ecco che viene rotta anche la scenografia in un tripudio di luci e fumo sparato sul palco, come nel più classico “culmine” da concerto-rock. E a partire è la più classica delle canzoni di dissacrazione e ribellione nichiliste: Anarchy in the UK dei Sex Pistols. I padroni della fiaba, dai quali le bestie scappano, diventano allora i “padroni” contro cui si dirige la lotta di classe (verso la fine dello spettacolo vengono proiettate immagini che rimandano alle fabbriche e al mondo del lavoro odierno). Così il viaggio dei musicanti di Brema diventa un gesto politico, un romanzo on the road di stampo se non sessantottino perlomeno che affonda le radici nell’atmosfera beat (Che colpa abbiamo noi?, La mia banda suona il rock sono alcuni dei titoli suonati durante la messa in scena). Qualcosa che, per l’animalizzazione allegorica di vicende Politiche (con la P maiuscola), a tratti potrebbe ricordare due illustri precedenti: il classico La fattoria degli animali di Orwell e l’oramai altrettanto celebre Maus di Art Spiegelman.

Scarpette rosse

Essere se stessi non significa dunque guardarsi dentro, ma costruire delle alterità, proiettarsi verso un altrove utopico ma possibile. Anche se sembra paradossale, la “solitudine” (leggi: individualismo) è d’ostacolo, non d’aiuto, all’introspezione e alla scoperta di sé. Il filo concettuale di questi tre spettacoli pare dirci infatti che solo nell’incontro con l’altro, o meglio nella radicale spinta a volerlo “abbracciare” e comprendere, risiede il principio dell’essere se stessi.
Eppure, di quale Altro stiamo parlando? E in che modo esso viene evocato sul palco? Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo, Scarpette rosse e I musicanti di Brema sono proposte per certi versi antitetiche. La prima concepisce il diverso da sé come semplice relazione affettiva e interpersonale, facendo leva su una totale trasparenza e perfetta intelligibilità dell’approccio drammaturgico; le altre due rimandano invece a una dimensione oscura e inafferrabile dell’animo umano, che per Aldrovandi diventa un’energia irrefrenabile e scomposta con cui far “esplodere” gli elementi scenici in un processo parossistico, mentre per il Teatro delle Apparizioni è quasi la negazione dell’umano, nemmeno l’animalità ma una ferinità caotica e istintuale, che trova il proprio corrispettivo formale nella confusione di livelli e piani narrativo-scenografici (concerto rock, racconto, recitazione onomatopeica, etc.).
In generale, si intravede il rischio che procedimenti siffatti non riescano a reggersi da soli. Se, come accennavamo all’inizio, per pedagogia si intende appunto “bussola”, capacità di fornire al bambino strumenti per orientarsi, sembrerebbe che nel caso degli spettacoli di Marianna Di Muro, ma soprattutto di BIBOteatro e Fabrizio Pallara una tale istanza “educativa” non sia presente in scena ma venga rimandata a un momento del tutto “extra-teatrale”. Si evoca la sporcizia e il caos, si fanno riferimenti a immaginari politici abbastanza precisi e precisamente “schierati” che difficilmente risuoneranno nella mente di un bambino, lasciando però che tali elementi diventino preponderanti e non si risolvano nell’andamento generale del racconto. O, se lo fanno (come magari nel caso de Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo), restano comunque parzialmente ambigui rispetto al “valore” che noi spettatori dovremmo attribuirgli. Dicevamo che lo spettacolo mostra come l’amore vada al di là di ogni apparenza. Vero, ma ciò non toglie che Bruno sia rispetto alle convenzioni sociali un “diverso”, volendo anche un filo emarginato per via di questa sua diversità (che è, nella levità del racconto, la semplice abitudine di non lavarsi). Che farsene di questa abitudine, una volta che si è riscattati dall’amore e si viene accettati? Ribadire la propria diversità con orgoglio in quanto scelta oppure proclamarne l’insignificanza rispetto ad altre caratteristiche che ci accomunano? Similmente, pensando a Scarpette rosse, come consideriamo il coraggio della ribellione nel momento in cui ci viene mostrato che questo coraggio viene punito dall’autorità o dal “destino”?
Ma, d’altronde, dicevamo anche che un bambino viene portato a teatro, ed è forse giusto che uno spettacolo si assuma il rischio di rimanere aperto, di sottrarsi a una comprensione immediata demandando appunto ai vari “attori della mediazione” (scuola, genitori, operatori…) il compito di riempire dubbi e vuoti con ulteriori domande. Ricordandoci che non sempre trionfa il bene e che esistono situazioni in cui l’umano ha bisogno di soccombere alla “rivincita della ferinità” per rigenerarsi (e, pensando allo strano connubio di fiaba, animali e musica a tutto volume che è I musicanti di Brema, non è appunto il rock una delle massime e più scandalose rivincite della ferinità della storia?).
Ricordandoci che, infine, dobbiamo a volte guardare con sospetto al sentirci troppo “soddisfatti” e rasserenati a teatro. Per citare Walter Siti (e rimandando a un concetto di cui abbiamo parlato estesamente), «se perfino i clown rientrano nei ranghi, chi difenderà le ascensione dell’eros contro il grigio della rinuncia?»

Francesco Brusa, Carlotta Tringali