A scuola di teatro. Un incontro con le insegnanti da Maggio all’infanzia

L’attività scenica come strumento pedagogico: una domanda che attraversa praticamente tutto il panorama del teatro per e con l’infanzia. Ma quali le sue concrete ricadute all’interno della scuola e dei percorsi didattici? Quali gli ostacoli e le scoperte che si incontrano, gli “aggiustamenti” che vanno di volta in volta messi in atto? Ne abbiamo discusso a Bari durante Maggio all’infanzia con un gruppo di insegnanti che si confrontano quotidianamente con tali pratiche, la maggior parte di loro ha preso parte al progetto Teatro Scuola Vedere Fare organizzato a Napoli da Le Nuvole in collaborazione con AGITA, Casa dello Spettatore e Giorgio Testa.

Ci piacerebbe partire da una delle grandi questioni che riguardano il teatro rivolto ai bambini e ai ragazzi: in che modo il teatro può affiancare i percorsi educativi e, in particolare, il percorso didattico-educativo per eccellenza che è la scuola? A partire dalle vostre diverse esperienze quali pensieri e materiali di lavoro state raccogliendo rispetto a questa domanda, cosa avete compreso?

«Io sono un’insegnante di scuola secondaria di primo grado, quindi mi rivolgo ai ragazzi dagli undici ai quattordici anni. Il mio percorso però comincia prima, con alunni con disabilità, bisogni educativi speciali e ho sempre avuto l’esigenza di ricercare tecniche e metodologie per un’attività didattica che fosse il più possibile inclusiva. Il laboratorio teatrale, a prescindere dalla realizzazione di uno spettacolo, credo sia fondamentale innanzitutto per formare il gruppo classe, creare coesione e dare a ciascuno la possibilità di partecipare. Le conoscenze e le competenze specifiche arrivano in un secondo momento, ma prima è necessario lavorare sul corpo, sul movimento, sull’interazione e, una volta stabilita una buona relazione, l’intera didattica ne risente in positivo. Gli incontri e le attività che stiamo facendo per questo progetto ci hanno permesso allora di diventare più padrone di certe tecniche e affinare il nostro sguardo sul teatro, sulle sue possibili realizzazioni e sul modo in cui ci si può rapportare, per poi poter calare questi strumenti nelle nostre classi. Lo stimolo di fondo per me è stato questo».

«Uno sguardo verso il teatro diverso, non legato ai soliti stereotipi. Attraverso questo tipo di approccio “dal di dentro” abbiamo una visione a 360 gradi di ciò che c’è dietro quello che vediamo sul palco».

«E poi il teatro ti permette di toccare in maniera trasversale tutte le discipline. Spesso ci troviamo di fronte a genitori preoccupati del fatto che il progetto teatrale possa togliere ore alle altre materie, allora noi cerchiamo, concretamente, di far capire loro che attraverso il teatro si fa tutto, però in una maniera ludica, che dà la possibilità ai bambini di “venir fuori”, di vincere ostacoli comunicativi. Molte volte soprattutto quelli più timidi, riservati, realizzano delle performance che ci sconvolgono».

«Che non ti aspetteresti mai, e forse in nessun altro ambito potrebbero farlo in questo modo».

«Riescono a esprimersi meglio e con maggior libertà, anche perché nei nostri percorsi puntiamo molto sulle emozioni».

Com’è strutturato il progetto “Teatro Scuola Vedere Fare”?

«Il percorso è iniziato a ottobre e i bambini hanno partecipato a minimo tre spettacoli nel nostro teatro di riferimento, il Teatro dei Piccoli, mentre ogni mese ci sono stati dei corsi di formazione per i docenti. Gli operatori ci hanno raggiunto anche scuola e insieme ai bambini abbiamo creato lo spettacolo, a partire dagli stimoli più vari: i libri, le esperienze condivise…».

«La visione e il fare procedono parallelamente. Oltre a questi tre spettacoli se ne può scegliere un quarto, in base a ciò che si vuole andare a raccontare, alle discipline e al percorso didattico».

«Nel corso rivolto ai docenti, invece, siamo noi a fare attività laboratoriale, attraverso la scrittura, il movimento; sperimentiamo sulla nostra pelle tutto ciò che proporremo ai piccoli. E poi chiediamo ai bambini di cosa vogliono parlare e con loro scriviamo lo spettacolo – dai testi, quando ci sono, alle scene, alla scelta delle musiche, parte tutto da loro. Alla fine partecipiamo a una rassegna di spettacoli creati dai ragazzi. Il progetto viene portato avanti nella scuola primaria e secondaria, elementari e medie, in continuità. Questo per noi significa anche rapportarsi con altri docenti del territorio e condividere le buone pratiche tanto decantate anche a livello pedagogico; ci incontriamo e ci confrontiamo rispetto a dove siamo partiti e arrivati, alle difficoltà incontrate e al modo in cui sono state risolte».

Da chi è composto il pubblico degli spettacoli dei ragazzi?

«Dai genitori e dalle altre classi che hanno aderito al progetto; ciascuna partecipa ad almeno uno degli spettacoli degli altri. Durante l’anno prepariamo un lavoro per classe o anche con gruppi interclasse».

Che tipo di confronto è quello con gli operatori?

«Ci incontriamo una volta al mese. Le indicazioni che ci vengono date riguardano soprattutto la gestione dello spazio, le possibilità sceniche, tecniche; ma lo spettacolo lo creiamo insieme ai bambini e ai ragazzi. Ed è interessante vedere come siano loro a compiere questo processo di conoscenza, dilatato nel tempo, come dovrebbe essere, e inizino a dibattere criticamente, a impadronirsi del linguaggio tecnico. Non solo, sono ragazzi che all’inizio non erano mai stati a teatro e che a poco a poco cominciano a formarsene un’idea propria. Mi è capitato di far loro scrivere un testo a riguardo, ed è emerso che uno dei primi pensieri è la paura di annoiarsi ma poi, dopo aver fatto l’esperienza, il desiderio generalmente è quello di ripeterla».

Come affrontate invece con i ragazzi il momento della visione? In che modo pratica e arte dello sguardo si intrecciano?

«Per gli spettacoli interni al progetto il nostro approfondimento è legato alla didattica della visione della Casa dello Spettatore. In classe, poi, lanciamo uno stimolo che sia uno spunto per giocare e lavorare sull’attesa, non tanto sull’aspettativa; e naturalmente c’è un momento che riguarda il dopo visione. Quello per me è stato particolarmente interessante perché, man mano che si va avanti, i ragazzi cominciano a fare incroci, paragoni, a esprimere preferenze. Noi abbiamo visto anche altri spettacoli programmati dalla scuola al di fuori di questa rassegna e loro di volta in volta esprimevano un giudizio critico».

«Non sono più degli spettatori passivi».

«Diciamo che il lavoro non si esaurisce con la visione dello spettacolo. Il momento della preparazione alla visione a volte c’è, altre volte invece preferiamo portarli completamente a digiuno per parlarne successivamente».

«E l’aspetto meraviglioso di quest’esperienza, per quel che riguarda la scuola primaria almeno, è che quasi sempre è possibile riportarla nella quotidianità didattica perché si va ad amalgamare talmente tanto con il lavoro di tutti i giorni, in maniera trasversale a tutte le discipline, che ci si ritorna al di là dei laboratori con gli esperti esterni, finendo, spesso, per andare molto oltre i tempi che ci si erano prefissati. Perché in realtà le esigenze e gli input arrivano dai bambini. Facciamo leva su tanti aspetti – la curiosità, la motivazione, gli interessi – e il loro feedback è talmente positivo che torna indietro come un boomerang, non puoi fare a meno di recepirlo. È un amalgama meraviglioso per il tuo mestiere e di fronte ti ritrovi alunni motivati ed entusiasti di imparare e vivere la realtà della scuola, che spesso è altro».

«Io ho una classe particolare, i ragazzi in generale erano e sono ancora abbastanza demotivati. Per questo progetto, però, effettivamente sono loro che ti costringono a stare dietro al lavoro, portando avanti un’attività di cooperazione e co-costruzione, così come sempre dovrebbe essere. La sfida dal punto di vista della scuola media, che ha 10 insegnanti per classe, è di contagiare, di sperare cioè che i ragazzi a loro volta contagino gli altri colleghi che non sono in quest’esperienza ma che possono trarne grande beneficio. La scommessa è anche quella di non restare gli unici referenti».

«Noi, che abbiamo cominciato con i piccoli, ci siamo accorte che rispetto all’autocontrollo, alle capacità attentive, all’espressione delle emozioni e al riconoscimento dell’altro c’è stato un percorso di crescita enorme. È il terzo anno che seguiamo il progetto: tre anni fa lo facemmo con una quinta elementare, l’anno scorso con una prima, quest’anno sempre con la stessa classe. Da un anno all’altro è come se ci fosse un abisso e, nonostante la naturale vivacità o le problematiche che hanno i nostri bimbi, è evidente che ci siano un diverso controllo delle emozioni e un’altra capacità di elaborarle. Diciamo che in qualche modo è come se fosse un percorso terapeutico per loro, al di là dell’acquisizione delle conoscenze, soprattutto in relazione alla capacità di concentrazione connessa alla visione. Il lavoro con Giorgio Testa a noi è servito moltissimo. I bambini hanno una grande abilità nel selezionare ciò che vedono e individuare la chiave di lettura di uno spettacolo, spesso sono loro a cogliere il messaggio e a compiere associazioni, diverse dalle nostre, con dei particolari specifici. Ci sono poi reazioni comuni molto simili, che possono rimandare anche ad aspetti che noi avevamo sottovalutato; questo porta a elaborare nuove situazioni di confronto. È un percorso stimolante, e anche i genitori lo hanno compreso».

Sulla base di questa esperienza e delle vostre conoscenze pedagogiche, come va posta oggi la questione della visione teatrale? Che tipo di oggetto è il teatro da guardare? Anche considerando la società frammentata, iper-rappresentata e iper-mediatizzata in cui viviamo – se ne può parlare in termini di “alterità”?

«Riguardo la visione a me viene sempre in mente un discorso di Franco Lorenzoni, che ascoltai durante un’assemblea della CGIL. Lui diceva che per poter crescere bene all’interno dell’ambiente scolastico è necessario che i bambini conoscano almeno due mondi: la scuola e qualcosa che le sia tangente, ma che non vi si mescoli troppo. Il teatro è questo mondo altro. Allora l’esperienza della visione teatrale, per quanto mi riguarda, è un avvicinamento dei bambini a qualcosa di diverso dalla scuola ma che ha degli elementi in comune, come la trasversalità di cui si parlava prima, che permette loro di esprimersi in maniera più libera, meno convenzionale, di parlare attraverso le emozioni. In quanto alterità il teatro aiuta anche ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della realtà e a entrare in relazione con la diversità, a conoscere ciò che esiste al di là di noi. Occupandomi di inclusione e lavorando con i bambini stranieri personalmente questo è un linguaggio che uso molto. A Napoli stanno facendo un’esperienza importante, io sono di Roma, e invidio questo percorso perché Roma è una città in cui oggi c’è molto poco da questo punto di vista. Sebbene anni fa sia nata un’esperienza altrettanto importante che vorrei ricordare e che in qualche modo ha posto le basi del lavoro della Casa dello Spettatore. Vent’anni fa, al Teatro Ateneo, il professor Ferruccio Marotti avviò infatti un progetto di ricerca sul teatro ragazzi e il suo rapporto con la scuola, in cui era coinvolta anche la regione Lazio. Un percorso di studi che si rivolgeva soprattutto agli insegnanti delle scuole superiori, incentrato sulla didattica del teatro e strutturato in cinque corsi di aggiornamento, condotti da altrettanti professori che provenivano da diverse parti d’Italia. Tra questi c’era anche Giorgio Testa. Ogni corso aveva un indirizzo differente rispetto a come avvicinare i ragazzi al teatro, e ricordo che Giorgio insisteva molto sulla didattica della visione, sull’importanza di far conoscere il teatro vedendolo; poi c’era anche chi puntava l’attenzione sul fare, sulle pratiche. Cinquecento ore di corso, diverse prospettive, fu una cosa estremamente interessante che alla fine sfociò in un convegno internazionale e in un bellissimo confronto tra l’Italia, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra. Ecco, questo progetto però non ha avuto seguito».

«Rispetto a questa domanda, ciò a cui teniamo moltissimo è la costruzione di un sapere critico, perché i bambini oggi – nel loro rapporto costante con i videogiochi, per esempio – tendono invece verso un atteggiamento fortemente passivo».

Utilizzate la tecnologia nei vostri laboratori, negli spettacoli?

«Pochissimo, molto poco. Piuttosto è un percorso che li libera da questo rapporto. È quasi un antidoto. Intervenire su tale versante, comunque, è molto difficile; noi abbiamo il tempo pieno, usciti da scuola i bambini sono molto impegnati (il catechismo, lo sport), le relazioni familiari non sempre si basano sull’ascolto e negli anni c’è stato un forte impoverimento linguistico. Allora ci teniamo che il teatro dei ragazzi resti quanto più “teatro” possibile».

In questo modo, secondo voi, il teatro rischia di essere percepito subito come qualcosa di vecchio?

«No, no, è un linguaggio che bisogna far conoscere… Quest’anno, per esempio, io lavoro con una prima elementare dove sono venuti gli operatori della Casa dello Spettatore. A quest’età non tutti i bambini conoscono il teatro, il primo passo quindi è porre delle domande, assumere una posizione se vuoi un po’ filosofica e in maniera maieutica “mettere in discussione” ciò che sanno, tirarlo fuori. Laura Squarcia, una delle operatrici, è venuta in classe e ha realizzato con loro un bellissimo incontro, sollecitandoli anche in maniera divertente: “Come vi immaginate il teatro?”, “Che differenza c’è secondo voi con il cinema?”; a proposito dei diversi linguaggi comunicativi ed espressivi, tutto ciò ha innescato una riflessione basata sul confronto e i bambini sono infine arrivati a ‘vedere’ le differenze. Quando poi li abbiamo portati a teatro, soprattutto chi non c’era mai stato, avevano un atteggiamento di curiosità costruttivo. Quindi c’è stata una preparazione alla visione rivolta al luogo e al linguaggio del teatro, non allo spettacolo specifico, e, dopo, un altro incontro in cui chiedere ai bambini quali fossero le loro impressioni. Ecco, il fatto interessante è stato mantenere uno sguardo ad ampio raggio».

«Di fronte al simbolo e alla metafora dei linguaggi artistici i ragazzi, i bambini hanno una potenza interpretativa incredibile. E pian piano apprezzano, comprendono e fanno opera di astrazione (i ragazzi che hanno seguito questo percorso, per esempio, ora mi fanno notare che non amano più vedere qualcosa che risulti loro particolarmente didascalico, ripetitivo). Dispongono del pensiero metaforico, che riguarda il processo creativo, e questo emerge anche nel momento del ‘fare’, in cui può accadere che attingano dagli spettacoli visti. Il punto dal quale si parte però è l’abitudine a ciò che viene dato, narrato loro da altre forme di intrattenimento con cui non fanno più un’operazione critica, di ragionamento, di astrazione, appunto. Inoltre i social e internet favoriscono una giustapposizione dei contenuti piuttosto che una loro rielaborazione, in una sorta di rapporto uno a uno».

Dal canto suo il teatro riconduce a un’esperienza comunitaria, ad avere a che fare con una materialità dell’esperienza…

«Esperienza di cui iniziano a interiorizzare le regole. Addirittura sono loro, spesso, che dicono ai genitori di non utilizzare i telefonini».

«Bello è anche il momento del confronto dopo la visione, una cosa che al Teatro dei Piccoli accade sempre. I bambini fanno un sacco di domande e c’è un confronto molto attivo con gli attori».

«Questi incontri vengono pensati in modo tale che siano i ragazzi a porre le domande e a rispondere ancor prima degli attori – che a volte sono come un pretesto per formularle –, così ché il dibattito nasca già in sala».

«Come per certi versi accade a scuola. Il teatro è uno strumento artistico e io penso che, essendo tale, debba avere più spazio di libertà di pensiero possibile. Quando chiediamo ai bambini di fare un disegno, diciamo loro che sono liberi di disegnare ciò che vogliono, è il loro disegno; allo stesso modo con il teatro devono poter esprimere liberamente le loro opinioni. Noi insegnanti siamo sempre dei mediatori potenti – a qualcuno potrebbe venire in mente: “C’è la maestra, non è che posso dire proprio quello che penso” – dunque dobbiamo cercare di lasciar spazio a una libertà di pensiero e di approfondimento. Questo vuole anche dire che in una quarta elementare, per esempio, non puoi più accettare una risposta che abbia a che fare solo con i “sì” e i “no” del “ti è piaciuto?”, devi provare a chiedere quali sono le cose belle o meno che hanno trovato e perché».

A cura di Lorenzo Donati, Sergio Lo Gatto




Il teatro, la musica, i bambini. Intervista a Cosimo Severo

Dopo Schiaccianoci Swing di Bottega degli apocrifi (lo abbiamo raccontato qui), per la regia di Cosimo Severo, abbiamo incontrato il regista per farci raccontare qualcosa del processo di lavoro. Ne è venuta fuori una breve conversazione riguardo i complessi e affascinanti rapporti fra musica e sguardo teatrale dell’infanzia, che qui trascriviamo in forma di dichiarazioni (a cura di Lorenzo Donati).


La musica e i bambini e il teatro-ragazzi
In Schiaccianoci Swing ci concentriamo sul rapporto fra musica e bambini. Mi chiedo sempre come fare perché la musica non distragga dall’aspetto narrativo: la musica sa raccontare mondi, ma se comincia il ritmo i bambini possono essere spinti a seguire solo quello, dimenticandosi di ciò che stanno guardando. Non si tratta di “mediare” fra musica e racconto: è più un lavoro per cercare le chiavi che permettano alla musica di essere racconto. Abbiamo lavorato molto perché i brani non iniziassero e finissero tirandosi l’applauso, ma ci accompagnassero piuttosto da uno stato d’animo all’altro.
C’è un pubblico che non bisogna mai tradire, ed è quello dei bambini. Si può fare un brutto spettacolo per gli adulti – qualche concessione alla superficialità la posso anche contemplare, con gli adulti – ma con i bambini questo non deve accadere. I bambini sono il pubblico più onesto possibile, e noi dobbiamo essere altrettanto onesti quando ci rivolgiamo a loro. Per me il teatro-ragazzi è una forma di rispetto, non un linguaggio. Si tratta di teatro, non penso che ci siano differenze negli strumenti linguistici che utilizzo, la costante è che cerco di sciogliere la complessità, per renderla immediatamente chiara. Quando facciamo uno spettacolo non possiamo pensare solo a noi, il teatro vive di una continua interlocuzione con gli spettatori, a maggior ragione se sono bambini.

Schiaccianoci Swing e lo sguardo dell’infanzia nel processo
Il nostro Schiaccianoci Swing è passato prima attraverso una costruzione musicale, curata dal nostro responsabile musicale, il violinista Fabio Trimigno (in scena nello spettacolo), che ha iniziato a rielaborare le musiche di Čajkovskij. Poi con Fabio – che studia da tempo la relazione fra musica e infanzia attraverso laboratori di musica d’insieme e percorsi tattili di creazione musicale in cui sperimenta la possibilità di far suonare insieme bambini e ragazzi da 4 a 12 anni – ci siamo domandati in che modo quella musica potesse “giocare” e arrivare fino ai bambini.
Infine abbiamo lavorato con Stefania Marrone, che ha dato un occhio sulla costruzione drammaturgica, cercando di capire se nei vari passaggi ci fossero coordinate capaci di rimandarci a una storia, che a sua volta è partita da Hoffmann per trasformarsi nella storia di una passione (una bambina che vuole suonare la fisarmonica). A quel punto è cominciato il rapporto con i bambini, non solo con le prove aperte ma attraverso laboratori che ci hanno permesso di rivolgere loro delle domande in modo diretto e di lasciar emergere le risposte un po’ alla volta.
Produrre uno spettacolo per adulti non mi fa lavorare in modo diverso, non si tratta di linguaggi differenti o di mettere a punto misure per alleggerire o semplificare, si tratta sempre di accogliere la complessità e, come dicevamo, di scioglierla senza semplificarla. Quando si semplifica si cade nell’errore e si finisce per fare uno spettacolo per bambini. Ma i bambini sono più intelligenti! Dalle loro idee dovremmo imparare e alla mia attrice ho chiesto di guardarli, di capire come osservano, come rispondono. Mai scimmiottarli, mai fare le vocine!

Nella musica s’intuisce che qualcosa sta cambiando
Ho chiesto alla musica di non prendersi troppo sul serio, di giocare con se stessa, di non farsi protagonista per esserlo davvero, le ho chiesto di essere umile e di avere autoironia.
Per questo abbiamo scelto di usare nello stesso spettacolo molteplici arrangiamenti della partitura di Čajkovskij; e per questo ci siamo presi la libertà di inserti inaspettati, da Morricone, al Can Can a Le Cicale.
Ognuno di questi inserti spalanca nuovi mondi: nella scena dell’arrivo dei topi Morricone da un lato ti fa sorridere perché non pensavi di trovarlo lì, e quindi spezza la paura, ma dall’altro ti apre al western, dunque a uno spiazzamento che ti rimanda a quegli intensi momenti prima dello scontro cruciale, dove l’emozione passa attraverso primissimi piani amplificati da una musica pontentissima, che ti fa pensare «Fra un po’ arriva il cattivo» (che poi è esattamente quello che accade quando nello spettacolo stanno per arrivare i topi!)
La musica amplifica l’emozione, è vero, ma Sergio Leone – visto che orami lo abbiamo tirato in ballo – va oltre la semplice empatia della musica. Così noi stiamo provando a fare in modo che i musicisti, che io tratto assolutamente come attori, lavorino per non essere parte integrante della musica, ma per essere il personaggio che suona, che come testo ha quelle note, suonate proprio in quella maniera. Questo li porta in alcuni momenti a lavorare in contrasto rispetto a quanto accade musicalmente, loro ci stanno perché lo facciamo assieme: dopo ogni replica rimetto in discussione delle parti dello spettacolo, vanno trovati dei modi per non sedersi e non accontentarsi dell’empatia della musica.
La musica è un elemento drammaturgico a tutti gli effetti in questo spettacolo, e sappiamo che errori possa portare compiacersi della drammaturgia, delle parole.
Le parole in scena sono azioni, sono al servizio e solo per questo preziosissime; la stessa cosa avviene in Schiaccianoci Swing per la musica.




L’istinto dello spettatore bambino. Intervista a Michelangelo Campanale

Abbiamo visto Biancaneve, la vera storia, prodotto dal Crest di Taranto con testo e regia di Michelangelo Campanale. Abbiamo intervistato questo artista attorno al suo processo creativo e all’esigenza di fare teatro per un pubblico di bambini.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

Nel teatro delle nuove generazioni sento che c’è ancora il teatro. Nel teatro ragazzi il confronto è alla pari, è onesto, ti fa capire che le famiglie hanno bisogno di grande rispetto. Per questo è giusto affrontare il teatro ragazzi con molta meticolosità nel tentativo di portare il linguaggio del teatro per intero. Guardando mia figlia e il rapporto con la scuola, credo che il problema sia che oggi si affronta un solo linguaggio, quello verbale. Il teatro ha di certo il linguaggio verbale e forse uno dei principali problemi di oggi in Italia è che spesso solo quel livello viene considerato. Eppure i bambini hanno ancora tutti i linguaggi pronti, il punto è svilupparli: il teatro ti dà questa possibilità. È capace di inglobarli tutti, compresi cinema e nuove tecnologie. C’è la parola, sì, ma c’è l’immagine, la pittura, la luce, i costumi, le scenografie.
Si tratta di un passaggio fondamentale: in teatro si ha la possibilità di dimostrare ai bambini che non esiste solo la parte verbale e che la drammaturgia non è solo questo. Non è solo la parola, è anche la parola, tutto quanto deve arrivare insieme. Per me è importante, specialmente lavorando con le fiabe, comprendere che i discorsi vengono veicolati non solo dicendoli ma anche mostrandoli, mettendo un elemento accanto all’altro. Nella fiaba, un archetipo può essere forte nel momento in cui semplicemente arriva allo spettatore, non solo indicando le cose e chiamandole con il loro nome, per capirci, non solo dicendo che il fuoco brucia, ma dimostrando questa realtà attraverso tutti i linguaggi. Io, che ho un problema di dislessia, ho avuto difficoltà proprio in questo, non potevo passare soltanto attraverso la parola, dovevo arrivarci in qualche altra maniera.  Se la drammaturgia ospita tutti i linguaggi allora prorompe completamente la forza che deve avere il teatro.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Come è possibile evitare il didattismo? Come il vostro lavoro riesce a non limitarsi a insegnare ma invece riesce ad accogliere delle istanze dentro la consegna di una visione?

Mi piace sempre lasciare che uno spettacolo abbia molte interpretazioni. Se lavoro spesso con la fiaba è perché la fiaba è antica, ed è stata scremata dal tempo; ha poche parole, ma sono quelle giuste, e – se aperta il più possibile e se viene il più possibile rispettata – mette sempre le persone in discussione. Spesso, nei miei spettacoli, mi capita che per la stessa scena gli spettatori piangano o si arrabbino. Nella maggior parte dei casi non è perché lo scelga veramente, ma perché raccontando la fiaba fino in fondo, portando il racconto alla radice, guardando la fiaba anche dal punto di vista antropologico, questa muove elementi di cui io stesso non sono consapevole. Se si vuole fare arrivare un certo messaggio è secondo me importante lasciare alcune ambiguità, in modo che lo spettatore bambino possa lasciar agire il proprio istinto.

Parlando de Biancaneve, la vera storia, ho trovato molto forte l’idea dello specchio come figura che divide due metà: quella della madre e della figlia, che per tutta la drammaturgia non fanno che inseguirsi in una somiglianza. Mi sembra un tema molto attuale. Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Io vorrei sempre tentare di non essere retorico. E dirselo è già sbagliato. Penso che se ci si mette al servizio del racconto si scoprono i suoi elementi. Ad esempio, l’idea di lavorare su Biancaneve è venuta osservando mia moglie e mia figlia a tavola. Nelle piccole cose mi sono reso conto che quello è un luogo di battaglia, dove si può decidere tutto: io ti ho dato la vita, ma posso darti anche la morte. Nella crescita ti rendi conto che quell’intimità è importante. Ho osservato tutti gli allievi che ho conosciuto nei laboratori che la mia compagnia – La Luna nel letto – conduce e tutte le persone che in questi venti anni hanno lavorato con me, incontrando – a stretto contatto anche con la psicologa che segue tutti i miei lavori – anche persone affette da anoressia o bulimia. A un certo punto Biancaneve racconta della madre e ho scritto il testo pensando proprio a questo: «Ci sono madri che possono dare alla luce e madri che possono spegnere la luce».
Ho tante persone in compagnia e ho visto quanto le madri entrino in confusione proprio a tavola; le lotte di potere arrivano proprio lì, se il bambino non vuol mangiare, ad esempio. Siccome quello è un fatto istintivo, il bambino riconosce tale dinamica ed è lì che nasce il ricatto, il potere. È lì che, se le carte non vengono giocate bene, può succedere un guaio.

Il potere è al centro della tua lettura, dunque…

È difficile inquadrare Biancaneve, perché è una fiaba così piena di materiali che non voglio costringerla al solo ragionamento sul potere. Però questo è un tema a cui sono molto legato. Io mi sono innamorato di Il trono di spade, ci sono infatti anche molti riferimenti nei costumi. In una delle prime puntate un grande re spiega a un ragazzino che si appresta a governare che cosa sia il potere. È molto affascinante. Il potere tra la madre e la figlia è complesso, perché tutto il lavoro sta sulle piccole cose, i ricatti si muovono sui dettagli. Io ho visto ragazzine distrutte dalle madri. E allora ho pensato che di attuale c’è questo. Tuttavia sento il bisogno di tenere un’ambiguità sul ruolo della madre. Tutti i bambini, quando per alzata di mano faccio questa domanda, per difendersi dicono che quella madre è una “matrigna”. L’escamotage della parrucca che cambia spinge i bambini a identificare un passaggio da madre a matrigna, la vedono diversa da quella che è all’inizio. Però, voglio dire, pensiamo a Medea, una storia che arriva da molto lontano. Quante madri, in senso metaforico o reale, uccidono i propri figli? I bambini non possono sopportare questa idea, però nella storia originale – non quella dei Grimm – pare che quella matrigna sia invece proprio la madre di Biancaneve. Io tengo quell’ambiguità, ho tolto la battuta che chiariva questo passaggio, su consiglio della psicologa, e ora ognuno ci vede quello che vuole.

Anche il rapporto con il cibo è a mio modo di vedere molto attuale. Quella battuta della madre – «Mastica e ingoia» – è presa fedelmente da una conversazione udita in un ristorante, era una madre a parlare alla figlia. Quell’«ingoia» riduce a qualcosa di meccanico un atto conviviale. Infine, il tema dell’invidia: quante madri si vestono come le figlie e non vogliono invecchiare? Nella scena finale abbiamo inserito Sei bellissima di Loredana Bertè. Quella canzone è meravigliosa perché quel suo conflitto con Dio, sulla bellezza che lei pure aveva da giovane, l’ha portata a quello che è oggi, lei è proprio una strega. Bertè avrebbe dovuto morire a 27 anni come tutti i cantanti rock maledetti, sarebbe stato un mito, perché lì senti proprio lo struggimento e la potenza di questa artista; quel testo, allora, diventa giusto per quella scena, si tratta di simboli che identificano il rapporto delle madri con l’invecchiamento e la perdita della bellezza.
L’attualità sta anche nell’ultima battuta. Adesso si parla di immigrazione e della tragedia dei profughi bambini. Io dico ai bambini spettatori che sono già fortunati per il fatto di essere nati in Europa e non in un paese in guerra, sono fortunati di trovarsi ora in un teatro. Noi raccontiamo di un bambino (il nano Cucciolo, ndr) che ha conosciuto Biancaneve, ma quando siamo andati a fare ricerca sulla fiaba originale abbiamo scoperto che nella foresta dello Spessart, in Germania, dove è ambientata, fino a poco tempo fa nelle miniere non lavoravano solo i nani, ma anche i bambini.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale è sempre più rapido e incontrollabile. Come tieni conto di questi nuovi ritmi? Può il teatro entrare in relazione con quei ritmi?

Se c’è rispetto dell’arte teatrale intesa come artigianato, che nel corso dei secoli ha inglobato praticamente tutti i linguaggi, allora sarà di per sé già in dialogo, in confronto con il modo contemporaneo di comunicare.
La mia compagnia ha da poco prodotto un allestimento de L’abito nuovo, testo scritto da Pirandello e De Filippo. In questo testo si vede proprio la differenza tra i due: il secondo ha respirato il palcoscenico, è nato lì sopra, infatti c’è stato un conflitto da un teorico e un pratico. Le parole di De Filippo parlavano al pubblico, non sempre anche quelle di Pirandello. De Filippo si domandava sempre come e soprattutto perché dire questa o quella battuta. Aveva 30 anni quando ha scritto quel testo insieme a un Premio Nobel.
Dunque dico che se si porta la sapienza del teatro con tutti i suoi linguaggi, basta quello.
Nello spettacolo ho voluto lasciare momenti di silenzio assoluto, di ritmo basso, ma se c’è tensione quella tensione se la godono tutti. In Biancaneve c’è una scena in cui la protagonista si avvicina lentamente alla mela offerta dalla madre e in tutte le repliche si produce a un’attenzione assoluta, un assoluto silenzio.
Il teatro è allora un’occasione per impostare un ritmo alternativo, ma non puoi non tenere conto del modo in cui gli spettatori sono abituati a interagire. Per me il contatto con i bambini è fondamentale nei laboratori, proprio per capire quali sono le domande, di che cosa bisogna parlare, che cosa bisogna studiare approfonditamente. E nei laboratori e nelle prime presentazioni al pubblico devo immediatamente capire che ritmo hanno i bambini, un ritmo che cambia di anno in anno e che ha bisogno di una precisa qualità dell’attenzione, che va creata. Devi misurarla con loro, che possono essere molto più onesti e diretti degli adulti. Allora i ritmi dello spettacolo si assestano facendolo, la tensione va creata ogni volta, devi capirlo insieme a loro.
La bellezza è che i bambini, interrogati, ti rispondono in maniera diretta dicendo che si annoiano, quella è la bellezza del teatro ragazzi. Torno qui alla prima domanda. Io faccio anche regie di prosa, ma non è la stessa cosa. Qui incontri il pubblico, senza nessuna costruzione dietro, incontri persone che non sono mai entrate in un teatro. Alle domenicali trovi bambini, genitori e nonni, tre generazioni di spettatori nella stessa platea. È lì che respiri il teatro, è la più grande soddisfazione.

 

Sergio Lo Gatto




La menzogna la sessualità la crescita. Intervista a Claudio Intropido

Abbiamo visto L’arte della menzogna di Manifatture Teatrali Milanesi, un monologo scritto da Valeria Cavalli e interpretato da Andrea Robbiano, che narra di un adolescente tormentato dalle bugie come via d’uscita verso una complessa situazione identitaria. Abbiamo incontrato il regista Claudio Intropido per un’intervista che approfondisce alcune scelte artistiche attorno a una tematica ancora oggi considerata spinosa, quella dell’omosessualità. Glo abbiamo posto due domande legate al procedere drammaturgico e alla scrittura di scena.
La bugia e l’identità
Siamo partiti dall’atto di raccontare bugie. Le bugie ci appartengono, servono per difenderci e per attaccare, per esprimere delle paure e per molte altre cose. È emersa subito questa tendenza a raccontare bugie sulla propria identità, accorgersi a un certo punto che c’è qualcosa dentro che si prova imbarazzo a esprimere. Volendo lavorare sulla menzogna siamo partiti dal desiderio di Diego, il nostro personaggio, di confessare al padre fin da subito questa “menzogna più grande”. Abbiamo pensato a un inizio dove Diego arriva in una sorta di confessionale in cui parla al padre, dunque abbiamo cominciato dalla fine. Da lì Diego si stacca e riavvolge il nastro per ripartire dall’inizio.
Un giorno Valeria mi ha detto che per raccontare la menzogna più grande e tornare indietro a tutte quelle che hanno caratterizzato la vita del protagonista, sentiva la necessità di scrivere la storia di due gemelli. A volte succede che le mamme si sentano in colpa di aver generato un figlio “non giusto”. Ma non c’entra niente il pensiero del “giusto/non giusto”: dalla stessa madre possono nascere, anche contemporaneamente, due figli con due diverse identità sessuali. Sulla base di questo Valeria ha cominciato a scrivere. Una volta istituito tale collegamento abbiamo tradotto in immagine tutto quello che Valeria aveva depositato su carta, partendo dalla sequenza iniziale (che cronologicamente corrisponde al finale) e snocciolando tutto il percorso. Ci è sembrato di essere arrivati a parlare di un argomento delicato senza però porre l’omossessualità come fuoco centrale.

Una storia sull’omosessualità?
Non è questo. Un adolescente a un certo punto si pone delle domande, riceve dei messaggi, sente nascere qualcosa, sente che c’è o un cambiamento o una persona in particolare, una calamita che lo attira, una situazione che lo distrae o lo spinge a pensare, senza giudizio. Questo percorso in cui l’adolescente entra deve sbocciare da qualche parte, il protagonista ha bisogno di uscirne fuori.  Abbiamo a un certo punto capito che nel suo gioco – siamo partiti da bugie incredibilmente semplici come la torta della nonna che non piace – inevitabilmente il personaggio si scontrava con la bugia, che Diego scopre quasi senza saperlo. La svolta avviene a una festa, quando la bella Eleonora lo bacia e lui pensa: questo bacio non mi ha fatto pensare a niente, non mi ha fatto né caldo né freddo. Ma a un adolescente può capitare di baciare una ragazza e non sentire niente. Magari quella non è la ragazza che fa per lui: non necessariamente quel passaggio deve diventare così importante nel suo percorso di crescita.
Siamo andati a scomodare Rimbaud e Verlaine perché, secondo Valeria, dal momento in cui l’adolescente sente di aver trovato una scintilla che lo porta alla riflessione, che gli fa pensare di stare finalmente tirando fuori qualcosa, da lì in poi il suo percorso cambia. Nello spettacolo abbiamo voluto infondere un grande rispetto nei confronti di una scelta simile a quella del nostro protagonista, la scelta di mentire a se stesso ma di fedeltà al padre, di lealtà con la famiglia. Diego pensa di essere leale anche con se stesso ma, nel momento in cui scopre l’amore, forse gli si accende la luce che pone una domanda: «Perché mi sono sempre nascosto dietro le bugie? Che cosa nascondevo?» Forse era diventata un’abitudine per difendersi o per compiacere, ma la verità meravigliosa dell’amore sblocca la situazione. Non vale la pena nascondersi, tutto è così bello, semplice, naturale, a portata di mano, condivisibile.

Le domande dei ragazzi
Le tappe che abbiamo percorso per arrivarci sono state una prima lettura, ma soprattutto abbiamo discusso molto l’argomento, come affrontarlo. Volevamo arrivare a fare della crescita un filo conduttore, come se fosse la sua esperienza a portare Diego a essere sincero con se stesso e con quello che gli sta capitando. Quando Diego incontra l’amore pensa di essere arrivato. A questo punto la costruzione del proprio io è compiuta.
Tuttavia, ripeto, non è uno spettacolo sull’omosessualità. Il confronto con i ragazzi – sia i più grandi che quelli delle medie – ci ha dimostrato molta lucidità e chiarezza: parlano anche loro di amore. Quando a un certo punto Diego dice: «Bastavano due parole: sono innamorato», un ragazzo di un liceo ha gridato: «Giulia, ti amo!». Alla fine dello spettacolo si è scusato, ha preso la parola dicendo: «Probabilmente sono frocio anch’io, perché ho pianto tutto il tempo», aggiungendo però che lo aveva fatto perché era un momento così intenso che lo aveva portato necessariamente a esprimersi.
Le domande che i ragazzi pongono sono sempre sul sentimento, sull’esperienza. Non solo sull’esperienza dell’identità sessuale che viene a galla, ma anche sull’amicizia, sulla lealtà, sull’onestà, sull’essere sempre a disposizione. Non solo i ragazzi del liceo, ma anche quelli delle medie. Per esempio a Latina sono rimasti molto silenziosi durante lo spettacolo, ma dalle loro domande finali non è emersa nessuna questione stupida; quasi fatalmente arriva una domanda per l’attore, gli si chiede se anche lui sia omosessuale, ma con il procedere della discussione i ragazzi e le ragazze riflettono sull’amore in forma assoluta, non necessariamente sull’orientamento sessuale.
Si sente di tutto e di più attorno a questo argomento, oggi. Abbiamo portato lo spettacolo a Roma e una sera abbiamo invitato le insegnanti, un centinaio. Abbiamo poi ospitato un piccolo incontro e abbiamo verificato la difficoltà delle insegnanti a proporre – inevitabilmente, aggiungo io – un percorso che conduca a una chiarificazione dell’esperienza e quindi a essere sinceri nel raccontare un fenomeno come questo. Ma che male c’è? Il fatto di poterlo esternare purtroppo ancora oggi è un tabù per i genitori.
Il linguaggio della scena: c’è solo l’attore
Certo, è una scelta, volevamo un racconto in prima persona portato da un personaggio. Andrea Robbiano, come attore, attraverso la parola riesce ad avere un feeling molto diretto, a tenere bene la concentrazione, ha la capacità di farsi ascoltare. Così pensiamo faccia vivere la propria esperienza anche agli spettatori. In quel momento si tratta di spettatori passivi che ascoltano, ma a cui l’attore muove inevitabilmente delle corde emotive. Qualsiasi cosa noi vediamo sulla scena muove delle corde emotive, che sia molto scenografico o molto verbale, muto o musicale.
Siamo partiti dalla storia che va raccontata. Io me lo immaginavo seduto su una sedia a raccontare, nelle prove Andrea ha portato la chitarra, quindi è iniziato un percorso attraverso la musica grazie a delle sue proposte che abbiamo esaminato e discusso. Non ci sembrava assolutamente utile porre qualsiasi elemento scenografico in più, abbiamo deciso di aggiungere solo qualche sedia e un tavolo, per creare una situazione casalinga in cui si muove la storia, articolata anche in una serie di luoghi concreti e metaforici come la stazione, la partenza, il rapporto con il padre ecc. Abbiamo dunque scelto degli elementi semplici, è una storia che l’attore racconta, io credo che la magia del teatro sia proprio quella di un attore che si siede su una sedia e racconta facendo immaginare qualsiasi cosa.




Ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Intervista con Beatrice Baruffini

Proviamo a ritessere i fili di una riflessione più ampia sul teatro per e con l’infanzia e, in generale, su quei nodi tematici e di senso che riguardano la “dimensione dell’infanzia” nel suo intero. Guardiamo al rapporto fra infanzia e arte, non solo infanzia e teatro, e più in generale fra arte e giovinezza attraverso le voci di chi si  confronta con tali dimensioni attraversandole con il suo percorso artistico ed esistenziale o analizzandole dal punto di vista teorico.
Pubblichiamo a seguire le riflessioni di Beatrice Baruffini, attrice e autrice del Teatro delle Briciole. L’inchiesta completa, in costante aggiornamento, si può raggiungere seguendo questo link

Cosa trovate, cosa vi spinge, cosa vi muove, nel teatro che dialoga con le nuove generazioni? Che cosa ci vorreste trovare? Di quale teatro per le nuove generazioni abbiamo bisogno, oggi?

Mi sono avvicinata all’infanzia con fare cauto, in silenzio, con grande rispetto. Poi sono rimasta lì, perché in quel luogo, in quel modo di essere, con quegli occhi, mi sono sentita bene. Mi sono trovata. Si riconoscono subito gli sguardi di chi è consapevole che non sarebbe potuto nascere altrove. Questo non significa che debba restare per sempre lì. Tutt’altro. Un teatro che dialoga con l’infanzia, non arriva solo a chi è bambino in quel preciso istante, ma tocca tutti: ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Per l’adulto questo teatro ha il compito di dissotterrare tali tracce, recuperarle, ricordargliele. Per farlo bisogna essere fedeli all’infanzia, non tradirla, non giudicarla, non presupporre di averla compresa. L’infanzia è, e deve essere, nostra complice nella creazione del mondo, nella ricerca del sapere, insieme ci facciamo testimoni del presente. Di questo abbiamo bisogno: di un teatro che consideri il pubblico suo complice per poter agire. Un teatro onesto dunque, coraggioso, che si prenda cura della relazione che crea, resistente, profondo, meraviglioso, che parli a tutti.

Volendo intendere il didattismo come una trasmissione cattedratica del sapere, unidirezionale, il teatro ha per propria missione la vocazione al coinvolgimento. Come il vostro lavoro riesce a tradurre l’uno nell’altro? Quindi a non dare l’idea di insegnare ma accogliere in una visione?

Questo succede naturalmente se si considera questo teatro arte e non insegnamento. Sono due cose ben distinte. Le visioni nascono a volte da intuizioni, a volte da contenuti, da racconti, e ci si innamora di essi per diversi motivi. Ci attraggono, ci mandano in crisi, suscitano continui interrogativi, ci appassionano. Ci spaventano. Non insegnano mai, non danno risposte, anzi, devono fare esattamente il contrario. Se questa materia viene scelta, trattata, trasformata, modificata, ripensata, ricreata è perché c’è una necessità artistica forte di farlo, ma non dobbiamo essere noi, noi autori, noi creatori, a decidere che a volte, quella materia, trasformata in teatro, insegna anche qualcosa.

Come i temi problematici della contemporaneità possono entrare negli spettacoli e quali strategie possono essere messe in atto per la loro salvaguardia verso un pubblico così particolare?

Credo non si possa evitare il presente: è dappertutto. Sarebbe come far finta di niente, non prendervi parte, non reagire, disinteressarsi. Il teatro ha il compito di chiedere al presente e se per il teatro d’infanzia il presente è bambino, è delicato, fragile, nuovo, è a volte per la prima volta, non potrà fare a meno di farsi custode attento, garbato, gentile. Nel teatro il presente entra sempre, per sua vocazione: è un atto di resistenza, un tentativo di afferrarlo e di sviscerarlo, anche quando lo fa attraverso una favola, una fiaba, una storia antica. Non dobbiamo avere il timore di mostrare paure e incertezze, dobbiamo solo trovare le parole giuste per raccontarle.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come tenete conto nella creazione di questi nuovi ritmi del contemporaneo? Più in generale come può il teatro entrare in relazione con essi?

Non possiamo fare a meno di confrontarci con questi ritmi, dobbiamo capirli, studiarli, perché solo in questo modo li possiamo usare: per portare l’attenzione dove desideriamo oppure, per sovvertirli.
Spero di non trovare mai nulla, perché questo significherebbe avere in mano delle risposte, supporre di sapere, avere chiara la direzione. Finirebbe tutto.




Maggio all’infanzia. Intervista a Teresa Ludovico

Dal 18 al 21 maggio avrà luogo a Bari Maggio all’infanzia, storica rassegna dedicata al teatro ragazzi organizzata dai Teatri di Bari. Abbiamo raggiunto telefonicamente Teresa Ludovico del Kismet, con lei attraversiamo le domande curatoriali alla base della rassegna, soffermandoci anche su alcuni snodi estetici e poetici che legano le arti della scena e l’infanzia.

Cominceremmo con un’introduzione al festival di quest’anno. Quali sono le linee di lavoro, tenendo anche in considerazione la lunga storia di Maggio all’Infanzia?

 

Maggio all’Infanzia nasce vent’anni fa al Rossini di Gioia del Colle, teatro che gestivamo in quel periodo. Come è noto, il Kismet ha una grande tradizione nel teatro dedicato all’infanzia e alle nuove generazioni: adesso siamo un Teatro di Rilevante Interesse Culturale, ma prima eravamo un Stabile d’Innovazione per le nuove generazioni. Subito il festival ebbe un grande riscontro, accogliendo tantissimi organizzatori, ma in seguito la gestione del teatro è tornata a essere comunale; per questo Maggio all’Infanzia è stato spostato a Bari. Tre anni fa c’è stata una ulteriore evoluzione: è nata una fondazione, il SAT (Spettacolo – Arte – Territorio) insieme al Teatro le Nuvole di Napoli, con l’obiettivo di coinvolgere un territorio allargato. Le molteplici attività, didattiche e soprattutto formative, sono state estese a tutto il mese, riservando alla terza settimana la presentazione degli spettacoli.

L’aspetto formativo è dunque al centro delle vostre azioni…

In questi vent’anni è maturata una maggiore attenzione verso le problematiche educative. I bambini, ovviamente, non vanno da soli a teatro, qualcuno li deve accompagnare, i genitori oppure, più spesso, gli insegnanti. Quindi, la necessità di avere relazioni privilegiate con gli insegnanti, soprattutto con i più giovani.

A questo proposito quali sono i progetti in essere?

Abbiamo la fortuna di avere una collaborazione di lunga data con Giorgio Testa, una persona straordinaria che ha una vocazione per la pedagogia  e che, dopo la chiusura dell’ETI dove dirigeva il Centro Teatro Educazione, ha fondato la Casa dello Spettatore. Da tre anni sta seguendo, insieme a Sara Ferrari, sia a Napoli che a Bari, il progetto Esplorazioni, un laboratorio destinato agli insegnanti sulla didattica della visione.
Per questa ventesima edizione ci sono poi tutta una serie di progetti speciali. Negli ultimi tre anni il festival ha accolto anche i nuovi linguaggi: il rapporto con la letteratura (allargandosi alle librerie e le piazze, incontrando scrittori, grafici, fumettisti) e con il cinema (vengono scelti dei film attorno ai quali, insieme all’Associazione I bambini di Truffaut, si organizzano incontri e approfondimenti).
È stata accolta una proposta sui temi della Costituzione e dell’Utopia, curata da Graziano Graziani (giornalista di Rai5 e Radio3), un progetto rivolto agli adolescenti invitati a scrivere la propria Costituzione ideale. Altra novità di quest’anno è l’organizzazione di una giornata di eventi e spettacoli dedicati ai bambini dai 0 ai 3.
L’associazione Europea dei Festival, che quest’anno ha insignito il Maggio di un riconoscimento di qualità, ha dedicato tre giornate alla formazione sul management culturale, che ospiteremo.

Come intrecciate tali ragionamenti con l’incontro tra i ragazzi e gli spettacoli? Quali chiavi scegliete?

Il programma è attraversato da quattro fil rouge. Il primo concerne la musica: inaugureremo con uno spettacolo dei Teatri di Bari diretto da Vito Signorile ispirato a Pierino e il lupo, con musiche di Prokoviev, e a L’apprendista stregone, quindi alla musica di Dukas. C’è anche un omaggio a Emanuele Luzzati, il Pulcilele di Paolo Comentale con musica di Rossini, poi programmiamo Lo schiaccianoci della Bottega degli Apocrifi, Eroine all’opera della compagnia pugliese Il carro dei comici, un’operina con attori, teatro di figura e cantanti lirici. Il teatro ragazzi sta andando anche verso un’esigenza di conservazione del patrimonio della lirica: Seicentina, del gruppo lucano L’albero, è un’operina per attrice, voce e basso continuo; in forma di musical, invece, è La gabbianella e il gatto del Teatro Vascello. Torna sempre anche il tema del racconto, con la prima nazionale del lavoro di Francesco Niccolini e Flavio Albanese, L’universo è un materasso; la Compagnia Burambò si confronta con L’arca di Atalanta di Gianni Rodari, partendo dai miti; La grande avventura del Teatro delle Apparizioni è un viaggio nel bosco che racconta le paure dell’infanzia e il tema dell’iniziazione. Ma anche Le dodici fatiche di Ercole del Teatro della Tosse o Cammelli a Barbiana, ancora scritto da Niccolini con Luigi D’Elia, sulla figura di Don Lorenzo Milani.

Si delinea un quadro variegato e polifonico. Quali possono o devono essere le tematiche da portare all’attenzione di un pubblico di bambini?

Gli altri due filoni individuati nella visione delle proposte ricevute sono legati alla fiaba e alle scritture originali, e con questi rispondo anche alla domanda. Le scritture originali in qualche modo rispecchiano i temi forti del nostro tempo, come ad esempio la diversità. Volentieri il festival ospitò sia Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato che La bella Rosaspina addormentata di Emma Dante. Sono convinta che per il pubblico infantile sia necessario incontrare i grandi temi della vita. Le paure da superare, le stesse raccontate nelle fiabe, sono spesso legate a quelle ancestrali e mitiche. Ben vengano, dunque, tutte quelle scritture originali che conducono i bambini in un percorso iniziatico a partire dalle grandi domande dell’oggi: l’altro, l’estraneo, lo straniero, la diversità sessuale e religiosa. Tra gli spettacoli che abbiamo inserito c’è L’arte della menzogna delle Manifatture Teatrali Milanesi, dove un ragazzo mente al padre perché non ha il coraggio di affrontare la sua diversità. Gli artisti dovrebbero darsi il compito di intercettare le domande dei bambini, senza dare risposte, ma invitando al confronto; grazie a percorsi esperienziali il bambino acquisisce gli strumenti per poter comprendere, anche da solo e senza l’aiuto degli adulti. Una volta messo a punto un linguaggio teatrale “che accoglie” ci dobbiamo fidare della loro capacità di decodifica, dobbiamo rispettarli e non avere paura di affrontare argomenti che consideriamo difficili.

Attorno alle potenzialità della fiaba possiamo forse spendere qualche altra parola…

Le fiabe sono nate e sopravvissute per l’esigenza dei nostri antenati di trasmettere il sapere della vita. Per esempio le paure sono sempre le stesse perché sono archetipiche, ma cambiano il linguaggio e gli strumenti per superarle.

La fiaba può dunque metterci di fronte al terribile, senza consolare. In che modo il teatro può ottenerlo?

Secondo il mio punto di vista la fiaba deve affrontare le zone buie, deve portare il bambino ad avere paura, a provare un’emozione forte in una condizione protetta. Nella fiaba il protagonista è impegnato in un viaggio di formazione, il bambino compie il viaggio dell’eroe, identificandosi con tutte quelle “prove” da superare in un mondo che include il male. Il teatro ha un valore educativo, ha la responsabilità di portare l’infanzia alla conoscenza del mondo e della vita. Attraverso la fiaba, tu bambino scenderai in quegli inferi (incontrerai la strega, sarai mangiato da quel mostro ecc) sapendo che, se sei determinato e fedele a te stesso come un Pollicino, troverai la tua strada. Questo è il senso del teatro per l’infanzia, è un linguaggio che deve accompagnare ma anche mostrare ai piccoli che possono farcela da soli nonostante le cadute, gli errori, le ferite.

C’è una questione che stiamo ponendo anche agli altri festival partner di Planetarium. Prima parlavi di un teatro che va incontro alle domande, alle paure del pubblico di oggi. Ma il pubblico di oggi, anche questo così giovane, è immerso in un contesto mediale iper-veloce e iper-frammentato. Il teatro può forse rappresentare un’alterità, una specie di sosta “antica” ma che rischia sempre di essere vissuta come vecchia.

Penso ci sia una caratteristica del teatro che non ha confronti con nessun’altra arte e che non lo farà mai invecchiare: è il rapporto diretto tra lo spettatore e l’attore. Io non ho mai paura della concorrenza di un computer o di un video.
Nel 2000 ho creato uno spettacolo, Bella e Bestia, che ha girato il mondo e ha generato una collaborazione che ancora va avanti con il Giappone. Quello giapponese è, senza dubbio, tra i popoli più tecnologici del mondo, eppure la scena che ha emozionato maggiormente è stata una caduta di centinaia di bigliettini, messaggi d’amore che la Bestia lanciava dall’alto alla Bella. È il linguaggio poetico, quel qualcosa di semplice e impalpabile che esiste anche senza la tecnologia. Una polverina dorata che scende stupisce più di un grande video perfettamente proiettato. È l’azione più semplice che sorprende, noi di questo dovremmo farci esperti. La tecnologia non può mai sostituire l’immaginazione. È necessario riportare al centro della scena l’umanità dell’interprete, il suo corpo con tutta la sua bellezza e fragilità.

 

Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Nudoecrudo Teatro – 4

Nel teatro ragazzi in generale dovrebbe esistere ed è importante che ci sia un’attenzione all’aspetto pedagogico. Oltre a creare potenziali nuovi spettatori, il teatro con l’infanzia dovrebbe servire a questo – a tener viva una sensibilità, un ascolto, una curiosità. Nel suo percorso Nudoecrudo Teatro ha scelto di mischiare fra loro diverse competenze, artistiche, pedagogico-educative. In più lo spettacolo Ecco io qui è nato all’interno degli asili nido, quindi ci siamo confrontate molto con le educatrici, sul tipo di offerta scenica e sulle risposte dei bambini, abbiamo costruito insieme. Ma poi c’è un aspetto pedagogico che potremmo rivolgere agli adulti: l’esperienza teatrale fornisce possibili traiettorie di relazione, di approccio alla creatività e al gioco anche agli adulti che accompagnano i bambini. Può essere formativo per esempio vedere come affiancarli senza parlare o sovraccaricarli di stimoli. In generale, comunque, nel momento in cui viene fatta una proposta teatrale all’infanzia è importante che questa contempli e preveda anche la presenza di un adulto, che non sta lì per guardare il cellulare o farsi i fatti suoi, ma può essere coinvolto. Questo restituisce un senso molto più profondo all’intero processo: io scelgo di andare a teatro con mio figlio, con mio nipote … e vivo un’esperienza insieme a lui.

(Alessandra Pasi, Judith Annoni e Francesca Maggioni)




Nudoecrudo Teatro – 3

Cerchiamo di ricostruire un tempo e un luogo, un ritmo, molto umani. Andiamo un po’ in controtendenza. Nello specifico, Ecco io qui, presentato quest’anno a Segnali, prende spunto dal lavoro di Bruno Munari e vuole recuperare l’esperienza sensoriale, concreta, con i materiali e col mondo, aspetto che per una contemporaneità fatta prevalentemente di virtuale diventa quasi una missione. Ed è bellissimo prepararlo, andare a rimettere le mani e il corpo in questa dimensione a contatto diretto con gli oggetti, per poi vedere che di fronte a una proposta del genere la ricettività del pubblico è molto alta. Anche perché il momento finale vede scomparire l’adulto che la realizza, tutto è stato pensato prima ed è stato creato un mondo ad uso del bambino, che si sintonizza sulla sua lunghezza d’onda. Ecco che allora il discorso è sintetico, è un lavoro a sottrarre, chiaramente essendo teatro si mantiene viva una proposta poetica, ma qui il bambino prende il proprio spazio.

(Alessandra Pasi, Judith Annoni e Francesca Maggioni)




Nudoecrudo Teatro – 1

Il teatro con i bambini ci offre un modo per esplorare insieme i vari linguaggi espressivi, ma al tempo stesso anche un modo diverso di stare e di relazionarsi. Il nostro lavoro è per i piccolissimi, partiamo dai sei mesi, e con questa fascia d’età tutto è ridotto all’essenziale, al minimo; siamo obbligate a tener conto solo di ciò che è strettamente necessario: nella scelta di quello che viene proposto loro, negli stimoli che diamo. Questo dà molta pace e allo stesso tempo ci riporta all’origine, al nucleo delle motivazioni che ci hanno spinto a fare questo lavoro. Inoltre il linguaggio del corpo così come il linguaggio magico della metafora sono talmente connaturati al bambino che, per certi versi, il teatro con la primissima infanzia è più facile, oltre che bello. E porta in prima persona a riscoprire l’incanto, che si va perdendo. L’essenzialità allora serve per fare spazio e recuperare un certo grado di apertura e di stupore verso le cose che ci circondano.

(Alessandra Pasi, Judith Annoni e Francesca Maggioni)




Festival Segnali. Intervista a Renata Coluccini e Giuditta Mingucci

Dal 2 al 5 maggio si svolge la XXVII edizioni del Festival Segnali, organizzato dai Centri di Produzione Teatrale Teatro del Buratto e Elsinor. Ospiti di Segnali, che si svolge a Milano al Teatro Verdi e al Teatro Sala Fontana e a Cormano saranno 19 spettacoli tra cui 5 produzioni di Compagnie Lombarde sostenute da NEXT, progetto della Regione Lombardia per la produzione e circuitazione della compagnie del territorio. Un cartellone nutrito e variegato che vuole rivolgersi sia ad addetti ai lavori sia al pubblico cittadino, con 12 debutti nazionali e due ospitalità dall’estero. Oltre agli spettacoli si segnala il convegno Teatro è scuola (mercoledì 3) con i rappresentanti del Mibact e Miur, delle Istituzioni Regionali, delle Università, delle Associazioni di categoria e degli operatori di settore e lo storico appuntamento con la consegna degli EOLO AWARDS organizzati dalla rivista di teatro ragazzi Eolo e dedicati a Manuela Fralleone, premi destinati agli spettacoli e agli artisti che si sono distinti nell’ambito del teatro ragazzi.

Abbiamo incontrato le direttrici artistiche Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, chiedendo loro di approfondire alcuni nodi legati a Segnali e in generale alle arti in dialogo con le giovani generazioni.

Segnali è un festival di lungo corso, quali sono le domande che lo nutrono, e come sono cambiate nel tempo?

Renata Coluccini La storia di Segnali è complessa perché il festival nasce innanzitutto come vetrina promossa dalla Regione. Inizialmente, dunque, non era organizzato soltanto da Elsinor e Teatro del Buratto ma anche da altre realtà lombarde. Al di là dell’aspetto di vetrina annuale di produzione, il festival ha sempre voluto rivolgersi a un pubblico ampio pur partendo dalla specificità dello sguardo dei ragazzi. Negli ultimi anni ci sono stati dei ripensamenti strutturali, da un’iniziale sostegno molto forte da parte della Regione, che ha generato tra l’altro un’apertura internazionale del festival, siamo passati a un periodo in cui Elsinor e Teatro del Buratto sono state le sole realtà organizzative. Quest’anno annunciamo il ritorno del sostegno della Regione che si concretizza nel progetto Next – Laboratorio delle idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo, un’iniziativa che si rivolge a un pubblico di adulti ma ospita la parte relativa al settore ragazzi all’interno di Segnali. Pensiamo dunque di poter rimarcare una certa solidità del festival, anche durante i tempi di “crisi”, ottenuta anche grazie al completo appoggio delle compagnie che vi hanno di volta in volta partecipato.

Giuditta Mingucci Nell’edizione che sta per iniziare sperimentiamo una spiccata apertura verso la città, parte di un generale ampliamento e maturazione del festival. Accennavamo prima alla questione del tout public, il nostro volerci rivolgere a tutti: quella del “teatro ragazzi” è una definizione che rischia di chiudere, invece è necessario ribadire come sia una forma d’arte potenzialmente fruibile da qualsiasi tipo di spettatore. Ovviamente i ragazzi rimangono i referenti principali, ma resta “teatro”, dunque una proposta fruibile da diverse collettività; assistere a una replica di teatro ragazzi costituisce un prezioso momento di scambio all’interno delle famiglie o nuclei che si presentano in sala con i bambini, ma anche fra le diverse famiglie. Quella che avviene a teatro è una relazione che accade in ambito artistico e culturale, non in un centro commerciale, luogo di incontro che rischia ormai di restare l’unico per le famiglie, a Milano come altrove.

R. C. Per noi il teatro ragazzi deve essere innanzitutto un atto d’arte con una dimensione educativa. Ne rifuggiamo però una concezione esclusivamente didattica e divulgativa, che sfocia spesso in un atteggiamento didascalico (concezione che a volte viene applicata al teatro in generale). Esiste cioè una sorta di “plusvalore” del teatro ragazzi: si tratta di avere una chiara consapevolezza rispetto al pubblico ma cercando anche gli strumenti per parlare a tutti, di modo che lo spettacolo possa diventare un momento d’arte e, come tale, di comunità e condivisione.

G. M. Il festival non è un luogo in cui gli spettatori sono passivi e gli artisti semplicemente espongono ciò che hanno creato, ma vorrebbe porsi come occasione di un confronto reale, affinché oltre agli strumenti di crescita ed educazione che noi adulti offriamo ai ragazzi si creino le condizioni per capire cosa possiamo imparare noi dai giovanissimi.

R.C. I concetti che sono tornati più spesso nei nostri discorsi sono “responsabilità”, “verità” e “onestà”: parole d’ordine che vediamo come centrali per chi si occupa di teatro ragazzi oggi.

 

In cosa consiste la particolarità dei ragazzi a teatro e in che modo tale particolarità può essere “trascesa” in vista di quell’allargamento a un pubblico più ampio cui fate riferimento?

R. C. Diciamo che ogni operazione di creazione teatrale ha di fronte a sé un pubblico, ideale o reale. Nel nostro caso si tratta di un tipo molto concreto di spettatore e questo implica che non ci si può adagiare su preconcetti o astrazioni, a maggior ragione se pensiamo al fatto che siamo immersi in un’epoca di cambiamenti sociali velocissimi e costanti. È come se per ciascuno spettacolo, al di là ovviamente della professionalità raggiunta, partisse una scommessa inedita perché il pubblico a cui ci rivolgiamo cambia senza sosta. Il teatro ragazzi non ti può far invecchiare, ti costringe a un movimento incessante e non ti consente mai di dire: «Ho acquisito il mio linguaggio e il mio stile e ora lo posso riproporre». Oltre a variare gli spettatori poi variano anche le persone che si occupano dell’infanzia e della cultura in generale con cui devi fare i conti, variano le idee dunque… Non a caso il teatro ragazzi agli inizi si trovava in stretta prossimità col teatro di ricerca. Il teatro ragazzi è o dovrebbe essere ricerca, una ricerca che non può avere fine.

G. M. I ragazzi sono un pubblico particolare perché non hanno alcuna ragione per starti a sentire se non il loro sincero interesse. È dunque un tipo di pubblico estremamente onesto e, proprio per questo, per certi versi difficile. Reagisce molto, magari negativamente, ma riesce a dare tantissimo a chi sta in scena. Ed è molto curioso. Capita a volte che gli adulti vengano a complimentarsi dopo uno spettacolo. I ragazzi invece non ne sentono il bisogno perché sanno di averlo già fatto ampiamente in sala, percepiscono di essere in un contatto molto stretto con gli artisti. Io credo che in questo momento storico la condivisione con i ragazzi sia fondamentale per recuperare il loro sguardo sulla realtà. Un modo di vedere le cose più ingenuo, meno influenzato dall’esperienza, dunque più “pulito” ma anche più “creativo” perché non guidato da sovrastrutture. La condivisione di uno spettacolo fra generazioni diverse diventa allora un momento speciale proprio per questa disomogeneità di esperienze che dà impulsi e spunti ulteriori a tutti.

R. C. Qui torna il concetto del teatro come comunità in cui la diversità riesce a farsi “valore di confronto”. Entrando un po’ nello specifico del programma del festival, abbiamo invitato spettacoli per tutte le fasce di età che comunemente rientrano nella definizione di teatro ragazzi. Siamo riusciti ad abbassare la “soglia di partenza” rivolgendoci anche ai bebè, poi ci sono ovviamente offerte per le altre fasce dei piccolissimi, degli “intermedi” e degli adolescenti.

 

Vista la sua fisionomia, il teatro ragazzi può costituire un’occasione di dialogo intergenerazionale per affrontare le tematiche sociali più complesse. Va “salvaguardato”, protetto, il pubblico di ragazzi e bambini o gli si può mostrare tutto?

G. M. La riflessione sui temi, in particolare quelli considerati socialmente dei tabù, riguarda il teatro ragazzi a livello mondiale. L’Assitej (International Association of Theatre for Children and Young People) negli ultimi anni ha dedicato differenti attività proprio a questo discorso. In generale la risposta è sì, con i ragazzi si può affrontare qualsiasi tematica, chiaramente è necessario trovare le modalità giuste per farlo.

R. C. In questo momento c’è anche da pensare a quanto certi argomenti possano “fare mercato” e attirare un certo tipo di attenzione. Ad ogni modo, è vero: ci sono temi difficilissimi da affrontare con i più piccoli, come la morte, generalmente però non sono i bambini a scappare, ma gli adulti che li accompagnano.

Che tipo di ragionamento e di azioni può mettere in atto una struttura teatrale perché si instaurino relazioni virtuose con chi si occupa della mediazione, con la scuola, le famiglie?

R.C. Il problema oggi non è semplice. Fra l’altro la scuola in alcuni casi subisce le pressioni delle famiglie, può accadere per esempio quando un insegnante fa una scelta rischiosa. Proprio per questo bisogna insistere ancor di più sia nel riprendere un dialogo realmente diverso con la scuola – e io credo sia una necessità condivisa da entrambe le parti – sia nel ripensare i momenti d’incontro che riuniscono questo pubblico eterogeneo, come le repliche domenicali per le famiglie. Non possiamo banalizzare, a volte accusiamo di cecità gli insegnanti perché decidono di non prendere alcuni spettacoli, senza considerare che loro subiscono diverse pressioni o operano scelte legate alle necessità didattiche. È anche vero, però, che secondo me questi sono tempi in cui è urgente riaffrontare certi temi, riparlare di educazione, e non didattica, di responsabilità e di etica (altra parola che mi piacerebbe tornasse nel vocabolario). Educazione al teatro e all’andare a teatro, perché a volte s’è persa anche quella. C’è molto lavoro da fare.

G.M. Il discorso sulla mediazione credo debba tener conto anche di come è strutturato il teatro ragazzi in Italia. Confrontandoci con alcune esperienze europee ci stiamo accorgendo che diversi tentativi vanno nella direzione di sollecitare, soprattutto negli adolescenti, l’attivazione di relazioni autonome con il teatro, e quindi di lasciarli liberi di scegliere cosa vedere. Questo anche perché vengono fatte loro proposte che possono cogliere in autonomia, non legate all’orario scolastico, per esempio, ma a momenti in cui possono muoversi da soli, così come del resto accade per il normale teatro di prosa. Certe questioni riguardano da vicino la struttura che si occupa della proposta e potrebbero essere un’occasione per ripensare approcci, strategie diverse. Con questo festival, sia in fase di programmazione che di promozione, in qualche modo ci abbiamo provato. L’apertura alla città, la scelta di non rivolgere l’invito solo agli operatori cercando il contatto diretto con il pubblico di riferimento, vanno in questa direzione.

 

Siamo giornalmente esposti a forme di intrattenimento culturale fondate sulla velocità di trasmissione e di fruizione. Come può il teatro tener conto di questi ritmi, entrarvi in relazione?

G.M. Credo che il teatro abbia tutto l’interesse e il desiderio di dialogare con questa dimensione. Poi può trovare le forme più diverse per includerla o meno. Senz’altro, però, il teatro ha come specificità il qui e ora, quindi l’incontro; è un gioco che si fa tra attori e pubblico, una parte attiva, anche se con minori responsabilità. Nel qui e ora si dà la possibilità di confrontarsi con questa domanda, che non è detto interessi tutti gli artisti come tematica o strumento (penso all’uso della tecnologia, che è innanzitutto un grande strumento).

R.C. Rispetto ai cambiamenti delle modalità di fruizione secondo me si tratta di questioni di cui chi fa teatro, per necessità, sta tenendo conto. In realtà non mi sembra sia un problema perché il discorso può essere integrato in maniera organica nelle domande che, da artisti, ci poniamo riguardo il linguaggio da usare. C’è una cosa comunque che vorrei dire: chi fa teatro ragazzi, a mio parere, deve partire da un’urgenza comunicativa che a sua volta rispecchi la dimensione comunicativa del pubblico dei ragazzi. È necessario sapere quali sono le istanze che li fanno vibrare, e cercare di “lavorarle” sia sul piano contenutistico che linguistico.

Come fa questa urgenza comunicativa, che quindi si tramuta in linguaggio pensato per i più piccoli, a non lasciare fuori e “funzionare” anche per gli adulti che accompagnano i ragazzi a teatro?

G. M. In generale possiamo dire che il linguaggio funziona se l’adulto ha a che fare quotidianamente con i ragazzi; poi ovviamente può succedere che il lavoro vada a segno sui ragazzi e non sugli adulti, ma questo evidenzia una differenza generazionale e personale.
Il rischio ci può essere ma allo stesso tempo è un’occasione per interrogarsi: portare il proprio figlio o i propri alunni a vedere qualcosa che entusiasma i giovanissimi ma non gli adulti può rappresentare l’apertura di un dialogo sulle ragioni che portano le due generazioni a sentire qualcosa vicino o distante. Inoltre gli spettacoli vengono costruiti su più livelli: basti guardare per esempio ai film di animazione che sembrano pensati per i bambini e di fatto sono rivolti agli adulti che li accompagnano… ma pensiamo anche al teatro greco in cui la commedia presentava diversi livelli di lettura andando dalla comicità più popolare a quella ideata per un pubblico dotato di una comprensione più raffinata.

 


Riannodando un po’ i fili della conversazione, e senza pretendere di essere esaustivi, vorremmo chiedervi se secondo voi sono ravvisabili delle tendenze estetiche e poetiche negli ultimi anni…

G. M. Sicuramente ce ne sono – penso al tipo di interpretazione, per esempio – ma non è una domanda facile a cui rispondere; da un lato faccio fatica, dall’altro non vorrei proprio rispondere per non ingabbiare alcune specificità che si trovano nel teatro ragazzi italiano che ha anime diverse…

R.C. Per esempio un fattore comune può essere rappresentato dall’utilizzo delle nuove tecnologie… Ma per aggiungere altro ci devo pensare almeno 2 o 3 giorni! (ride, ndr).
Quest’anno facendo le scelte artistiche mi sono posta diverse domande a cui non ho ancora dato delle risposte; preferirei coltivarle ancora un po’. A volte si scelgono gli spettacoli dicendo: «Questo è per il festival, questo no anche se…». A mio parere il teatro ragazzi è andato avanti per anni senza porsi troppe domande ed è arrivato il momento in cui tutti torniamo a porcele, in maniera profonda. È necessario coinvolgere altri sguardi e persone che mettano in discussione il sistema, perché il rischio è diventare una famiglia in cui tutti si conoscono, dando per scontate alcune cose, impedendoci di mantenere uno sguardo aperto.

G. M. In questo momento, generazioni diverse abitano il teatro ragazzi, lo portano avanti e vi si confrontano. È un momento di grande apertura rispetto all’estero, è in atto un confronto anche con quanto accade in altri Paesi che sta portando a interrogarci sul nostro stesso modo di operare, manifestando altre possibilità. È una sfida che riguarda più settori, non solo il nostro.
R.C. Spostare lo sguardo per tornare al proprio punto di vista o per andare altrove è fondamentale. Io faccio parte della “vecchia guardia” del teatro ragazzi e posso dire che nei primi anni si avvertiva ed era in atto un confronto che è andato via via sparendo, lasciando spazio alle esigenze del mercato, alle urgenze più aziendali che artistiche…

G. M. Quando poi si trova un linguaggio comune o dei punti su cui ci si intende, ci si ritrova a darli per scontati…

R.C. Una delle mancanze di una certa generazione è non aver tramandato la storia di quello che è accaduto. Le conoscenze, gli stili, i modi, le visioni sono state trasmesse solo in minima parte alle generazioni successive.

G. M. Le generazioni successive servono a fare delle domande! A mettere in crisi le cose.

 

A cura di Francesca Bini, Francesco Brusa, Carlotta Tringali