LA PAROLA AI PROTAGONISTI: COSA MANCA OGGI AL TEATRO RAGAZZI? – TERZA PARTE

La terza e ultima parte delle conversazioni con i protagonisti del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino raccoglie le risposte a una domanda che tocca alcuni nervi scoperti del teatro destinato al giovane pubblico e non solo.
Per le conversazioni sul rapporto tra teatro e pedagogia: qui la prima parte, qui la seconda parte.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Uno dei disegni dei bambini coinvolti nel progetto laboratoriale precedente la realizzazione di Non ho l’età (dal sito: comune.prato.it)

Credo che nel teatro ragazzi manchi un rapporto più continuo con i suoi destinatari. Questa è una possibilità che noi ci siamo creati incontrando gruppi di bambini prima di pensare all’allestimento dei nostri spettacoli: per noi è stato molto più funzionale che fare uno spettacolo con un tema al quale agganciare un laboratorio. Questa esperienza, secondo noi fondamentale per un artista, non è né prevista né agevolata da molte strutture, infatti in pochissimi casi esistono spazi in cui si possa sviluppare un lavoro che non si limiti alla performance.

Spesso compagnie che producono spettacoli per adulti quando si confrontano con un pubblico di bambini pensano che si debba abbassare il livello, quando invece è il contrario. I bambini sono interlocutori molto attenti, per loro sono importantissimi dettagli che molto spesso agli adulti sfuggono.

Vania Pucci Di segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

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Vania Pucci (dal sito: empoli.gov.it)

Oggi molti dei “grandi vecchi” del teatro ragazzi hanno messo i remi in barca, mentre i giovani spesso, non sapendo cosa c’è stato prima, finiscono per utilizzare linguaggi già superati, prendendoli per nuovi. In teatro non si inventa niente, al massimo si può restituire in maniera personale qualcosa di già sperimentato.

È cambiata molto anche la scuola e il nostro modo di rapportarci con essa: se prima era un buon alleato, ora dobbiamo ritrovare una complicità. Gli insegnanti si trovano di fronte a grandi difficoltà: ragazzi che vengono da culture diverse, genitori che entrano nello specifico del loro mestiere denigrandone il ruolo. È normale purtroppo che in un momento di crisi, il teatro non rientri più nelle priorità di questa istituzione.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui trovate l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, nello stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Molière, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroveremo in un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro.

È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui trovate l’intervista integrale)

Renata Coluccini (dal sito: ilflaneur.com)

Manca sicuramente lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade conosciute e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione in cui fare il punto e chiedersi cos’è oggi quello che facciamo.

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Seconda parte

Pubblichiamo il seguito delle nostre conversazioni con alcuni dei protagonisti della nona edizione del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino. Ci interroghiamo sul rapporto tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi e sulla scelta dei contenuti e dei linguaggi negli spettacoli da destinare al giovane pubblico. (qui la prima parte)

Simone Guerro Il grande gioco, Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata

Fabio Spadoni e Simone Guerro fuori dal Teatro del Popolo di Castelfiorentino, durante l’intervista per Planetarium.

Per noi il pubblico dell’infanzia non è mai un pubblico di bambini, ma un pubblico di persone, con la loro sensibilità e la loro complessità. La prima questione che mi pongo è quella del linguaggio, che significa essere all’altezza di quel pubblico, che è esigente e ti chiede verità, e non abbassare il livello o adoperare delle semplificazioni. Occuparmi di teatro ragazzi mi permette anche di fare teatro politico: credo, infatti, che oggi il vero teatro politico sia proprio questo perché il pensiero pedagogico è un pensiero politico.

Nello spettacolo “Il grande gioco” la morte è un pretesto per parlare della vita, perché della morte non c’è nulla da dire. Per parlare della vita occorre confrontarsi con il fatto che esiste un inizio e una fine, un tema che cerco di far emergere spesso. È nata così l’idea di due fratelli per i quali la morte diventa la possibilità di fare le cose importanti, di stare insieme, di volersi bene, perché non c’è più tempo da perdere.

L’altro tema fortemente politico di questo spettacolo sta nel fatto che in scena c’è un attore disabile, Fabio Spadoni, considerato dalla società un debole, una persona da accudire e per la quale provare compassione (un’idea che non mi appartiene per niente!). Nello spettacolo, invece, è proprio Fabio, affetto da sindrome di Down, ad avere il ruolo della persona forte, che prova a risollevare il fratello malato. La forza di Fabio sta nella sua gentilezza, nella sua allegria, lui non è mai cattivo e questa forza è quella che ritroviamo nello spettacolo. Far stare in piedi questo ragionamento è arte, è politica. Il tema che mi interessa di più è come una cosa delicata possa avere una forza prorompente: bisogna difendere la delicatezza mostrandone la forza.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Non ho l’età (dal sito:campsiragoresidenza.it)

Da diversi anni costruiamo i nostri spettacoli a partire dal materiale raccolto nei percorsi laboratoriali che facciamo insieme a gruppi di bambini di tutta Italia in presenza degli insegnanti, e che sviluppiamo intorno a un tema specifico. “Non ho l’età” ad esempio si interroga sul concetto di tempo.

Abbiamo incontrato bambini dai 6 ai 10anni e con loro abbiamo ragionato sul presente, sul passato sul futuro e su tutti gli aspetti legati allo scorrere del tempo, come la memoria, il ricordo, le esperienze che si fanno a seconda delle fasi della vita, il rapporto con i nonni e con gli anziani e il rapporto con la morte. Ogni incontro veniva suddiviso in due parti, una prima in cui con un registratore raccoglievamo gli spunti delle discussioni collettive e una seconda in cui a partire da quella discussione iniziavamo a elaborare fisicamente il tema proposto attraverso giochi, esercizi teatrali corporei e percettivi e, infine, attraverso l’espressione artistica (disegni, manipolazione della creta e dell’argilla…).

Questo processo per noi è fondamentale perché ci permette di costruire lo spettacolo con consapevolezza, a partire dalla percezione che il bambino ha sul un certo tema. Per noi l’importante è lavorare a tutto tondo, senza prefissarci degli obiettivi pedagogici, ma creare suggestioni, mettere un tema in campo e lasciare la possibilità ai bambini di svilupparli. Grazie ai bambini si possono aprire delle piste rispetto ai temi trattati, che a volte sono considerati tabù dagli adulti.

Parlare di morte a bambini di sette anni significa riportarli a un’esperienza che molti di loro in qualche modo hanno già vissuto, bisogna solo trovare la chiave giusta per affrontare questi temi, ma non rimuoverli, perché loro sanno bene che esiste una fine della vita. Certo sono temi delicati, per cui ci siamo chiesti quali mmaginari, quali parole, quali ritmi utilizzare per veicolarli. Questo richiede sempre un grande sforzo, per cui spesso ci siamo trovati a dover ricalibrare lo spettacolo a seconda delle reazioni dei bambini.

Katarina Janoskova e Paolo ValliLa gazza ladra, Compagnia L’asina sull’isola

Katarina Janoskova e Paolo Valli durante una scena de La gazza ladra

Nel teatro di figura si opera sempre uno spostamento di senso. Nel caso dell’ombra, quello che ci interessa è la possibilità di proiettare in quella macchia nera tutto ciò che si ha nella testa: non si tratta di una forma definita e questo aiuta i bambini, abituati oggi a immagini già pronte all’uso, a utilizzare l’immaginazione. Questo succede in tutto il teatro di figura perché non c’è il limite del corpo che ha l’attore fatto di carne e ossa. Gli spettatori, sia adulti che bambini, hanno tutto un mondo da investigare, un altrove evocato grazie alla magia dell’artigianalità. I bambini stanno
perdendo la manualità e lo stupore, per cui è necessario riportare la loro attenzione sulle cose semplici: questi antichi saperi sono in grado di farlo e in questo si manifesta decisamente una forma di pedagogia.

Simona GambaroPollicino, Teatro del piccione e Teatro della Tosse

Paolo Piano e Simona Gambaro durante una scena di Pollicino (dal sito: teatrodelpiccione.it)

L’intenzione nel nostro modo di fare teatro è quella di muovere delle domande: non vogliamo insegnare qualcosa, ma lasciare emergere delle questioni sulle quali tutti si possano interrogare. Il linguaggio che scegliamo di utilizzare è certamente calibrato perché possa essere compreso dai bambini, ma la fiaba già di per sé parla a ognuno di noi. Io non faccio uno spettacolo se non sento un fuoco dentro e anche la forma, l’immagine, che curiamo molto, sono sempre al servizio di questo fuoco, di una domanda esistenziale. Ogni volta che il teatro si manifesta, diventa esperienza e smuove qualcosa.

Io sono specchio degli spettatori e tramite insieme a loro di un incontro e in mezzo avviene qualcosa che lascia delle domande. Quando recito in Pollicino sono dentro a questo riverbero e ogni volta ritrovo nello spettacolo un pezzetto di me,della mia vita. Ne “La grammatica della fantasia” Rodari scriveva che le storie sono come un sasso lanciato nello stagno che crea cerchi concentrici:anche se tu non lo vedi, questo riverbero,questo cerchio che si allarga nell’acqua fa muovere tutto il resto, i bordi dello stagno,il filo d’erba e così via. In questo spettacolo noi non mettiamo il pubblico in una condizione di agio,ma di movimento, sperando che qualcosa riverberi ancora e ancora.

I formatori come i genitori e gli insegnanti hanno tra le mani una materia calda informe. Sicuramente dallo spettacolo scariruranno delle domande. Ci si butta insieme. I registi ci hanno detto di affidarci totalmente alla fiaba senza paura,di non aggiungere altro, ma di tenere dentro tutta la vita della fiaba più siamo fedeli e più lasciamo aperture, meno tentiamo di interpretare più lasciamo che quel bosco rappresenti per ognuno di noi un attraversamento diverso

Riccardo RombiVulcania, Compagnia Catalyst

Rosario Campisi e Giorgia Calandrini in una scena di Vulcania

«Il teatro è civile per definizione. I bambini sono pronti a recepire il messaggio che vogliamo trasmettere in modo immediato
con spettacoli come Vulcania, che tratta dei principi della nostra Costituzione Per loro è ovvio e intuitivo che ai diritti corrispondano i doveri. Tra loro non ci sono differenze, si rispettano profondamente, non distinguono le persone per il colore della pelle o per la provenienza. Sono gli adulti che non credono più nei principi della Costituzione e che in nome del realismo sono sempre pronti a porre ostacoli tra loro e i loro doveri. Il teatro oggi può e deve aiutare i bambini a diventare cittadini e persone libere».

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Parte prima

Interrogarsi sul teatro ragazzi significa innanzitutto considerarne il destinatario, lo spettatore bambino, che si trova nel pieno della sua fase di formazione.

Abbiamo approfittato della presenza al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino di attori, registi e drammaturghi che hanno visto nascere l’esperienza del teatro ragazzi o che a esso si sono avvicinati di recente, per domandarci, insieme a loro, in che termini si pone la relazione tra arte e pedagogia in questo contesto spettacolare e se questa relazione sia necessaria. A partire da questa domanda, la discussione si è allargata ai contenuti degli spettacoli e ai linguaggi utilizzati per renderli fruibili allo spettatore. L’utilizzo delle fiabe è una scelta adoperata in moltissime occasioni, ma le modalità di messinscena variano a seconda del valore che le compagnie riconoscono a questi grandi contenitori di archetipi. Lo stesso discorso vale per la scelta dei linguaggi. Abbiamo assistito a spettacoli in cui particolare rilievo era affidato alla parola, ad altri in cui si preferiva evocare la storia o parte della storia, attraverso immagini, ombre, suoni, luci.

La possibilità di confrontarci da una parte con delle
compagnie storiche e dall’altra con artisti approdati al teatro ragazzi in un
contesto storico diverso da quello in cui esso si è sviluppato, ci ha permesso
di riflettere, ascoltando diversi punti vista, sulle eventuali mancanze di cui
oggi il teatro ragazzi soffre e sul cambiamento che esso ha subito rispetto ai
suoi esordi.

In attesa di un racconto più approfondito di alcuni degli spettacoli presenti alla nona edizione del festival e di un ragionamento sui temi emersi nel corso delle nostre visioni, riportiamo la prima parte delle numerose e intense conversazioni raccolte nel corso di queste quattro ricche giornate a Castelfiorentino.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui l’intervista integrale)

Mila Boeri e David Remondini durante una scena di Amici per la pelle

L’educazione comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in scena.

Nel caso del nostro spettacolo l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Giusi Merli Pinocchi,Progetti Carpe Diem/La casa delle storie e Il Lavoratorio

Spesso chi realizza spettacoli di teatro ragazzi crede di rivolgersi a un pubblico che capisce poco o niente, per cui produce rappresentazioni che sono solamente divertenti. Questo però non è teatro, è un affronto ai bambini. Il vero teatro invece, come tutta la vera arte, è già di per sé pedagogico perché sa insegnare l’apertura e la ricettività verso i sentimenti e le emozioni. Sono proprio i bambini quelli più pronti a schiudere la mente, il cervello, l’anima davanti all’energia umana che il teatro porta con sé.

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di mettere in scena soltanto i primi quindici capitoli di “Pinocchio”, nato come un romanzo a puntate che si concludeva con la morte per impiccagione del protagonista. Non ci interessava molto il fatto che Pinocchio imparasse a comportarsi bene e diventasse un bambino vero, preferivamo far emergere l’umanità e la forza dirompente di questo personaggio, che è ciò che può comunicare di più ai bambini e a tutti gli spettatori.

Compagnia Zaches TeatroCappuccetto Rosso (qui l’intervista integrale)

Amalia Ruocco in una scena di Cappuccetto rosso

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.

Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli insegnanti.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della formazione del pubblico, ciò che ricerco è un effetto di meraviglia e la condivisione di essa. Scrivendo, il mio scopo è quello di creare un ponte tra il palco e la platea e fare sì che sia chi sta in scena che lo spettatore percorrano un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una parte. Per dare luogo a questo incontro è necessario un linguaggio comune, intriso di curiosità e meraviglia.  

Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a cuore a chi la racconta. In questo modo sarà in grado di evocare allo spettatore qualcosa della sua vita o, per un bambino, qualcosa che sia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Vania PucciDi segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno (dal sito: giallomare.it)

Tra chi pensa che il teatro ragazzi non debba avere nessun fine didattico ed educativo e chi considera queste componenti essenziali, io mi colloco nel mezzo. Il teatro ragazzi deve esprimere un contenuto artistico, ma non può ignorare che i suoi destinatari si trovino nel bel mezzo del loro processo di formazione.

Io ho studiato pedagogia e ho lavorato nella scuola dell’infanzia per molti anni prima di arrivare al teatro per bambini, che per me è stato un modo diverso e nuovo di relazionarmi con la scuola e i ragazzi; per questo nei miei spettacoli non posso trascurare l’aspetto formativo. La difficoltà è quella di comprendere i confini tra arte e pedagogia e in che modo coniugare questi due aspetti.

Nello spettacolo di oggi, nato venti anni fa, queste due componenti, quella pedagogica e quella artistica, coesistono ed è evidente già nel titolo: “Di segno in segno”, che si può leggere anche come “Disegno insegno”. L’utilizzo della lavagna luminosa nello spettacolo (che fu una novità all’epoca) ha un valore poetico, offre un momento di visione artistica, ma cerca anche di lavorare sulla creatività, facendo accostare i bambini a uno strumento che non conoscono.

Compagnia MaMiMòLa meccanica del cuore, Centro TeatraleMaMiMò e Teatro Gioco Vita (qui l’intervista integrale)

Una scena de La meccanica del cuore (dal sito: canalearte.tv; ph: Nicolò Degl’Incerti Tocci)

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono.

Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Nella Califano, Michele Spinicci




Oltre la fiaba: aprirsi alla complessità del mondo. Conversazione con Francesco Niccolini

Incontriamo al festival Teatro fra le generazioni Francesco Niccolini che esattamente un anno fa, in occasione della presentazione di “Digiunando davanti al mare” al festival di Castelfiorentino , ci ha parlato della sua attività di drammaturgo e della relazione con lo spettatore bambino (QUI l’intervista integrale). In questa nona edizione del festival conversiamo con lui dopo aver assistito ai lavori di due compagnie che si sono avvalse della sua collaborazione: “La gazza ladra” dell’Asina sull’Isola e il progetto “Il grande gioco” di Simone Guerro dell’Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata ATGTP. È emerso un punto di vista stimolante e provocatorio sulla necessità di “superare” la fiaba classica e di assumersi nei confronti delle nuove generazioni la responsabilità di parlare del mondo nella sua complessità.

Una delle domande che
ci siamo posti con il nostro osservatorio sul teatro ragazzi riguarda la
relazione tra arte e pedagogia. È un aspetto presente nei tuoi spettacoli?

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della
formazione del pubblico, io ricerco l’effetto di meraviglia e la possibilità di
condividerla. Io scrivo, per cui il mio scopo è quello di creare un ponte tra
il palco e la platea e fare in modo che l’attore e lo spettatore percorrano
insieme un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una
parte. Per rendere possibile questo incontro è necessario un linguaggio comune,
intriso di curiosità e meraviglia. 
Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a
cuore a chi la racconta; in questo modo sarà in grado di evocare nello
spettatore qualcosa che appartiene alla sua vita o, nel bambino, qualcosa che
stia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco
nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia
quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Quest’anno hai
collaborato alla realizzazione de “La gazza ladra” e del progetto “Il grande
gioco”, che abbiamo visto qui a Teatro fra le generazioni. Si tratta di due
lavori diversissimi. Come si coniugano la tua poetica e i tuoi obiettivi con
questi due risultati così distanti?

Quello che continua a piacermi da morire di questo lavoro è la possibilità di cambiare continuamente le forme del racconto. Ogni volta devi confrontarti con una sfida diversa, ed è ciò che mi incuriosisce e mi stimola: essere pronti a mutare il proprio approccio in base agli elementi presenti, trovare soluzioni capaci di esaltare ogni volta le diverse abilità e potenzialità comunicative presenti in scena. È un gioco sempre diverso in cui trovare la soluzione significa scoprire come gestire l’effetto di meraviglia.

Esistono degli
stereotipi rispetto alle modalità di relazione con l’infanzia, tra questi la
necessità di comunicare attraverso narrazioni edulcorate. Si tratta di un
orientamento presente non di rado anche nel teatro ragazzi. Come ti rapporti a
questa tendenza?

Personalmente non sono così convinto che il politicamente
corretto sia sempre necessario, soprattutto quando diventa un modo per
offuscare la realtà: ne “La gazza ladra” a un certo punto ci sono due animali
che litigano sull’Arca di Noè e si scambiano anche parole come “culo stretto” o
“ciccione”. Può non piacere, può sembrare strano, ma dobbiamo pensare che si
tratta di due personaggi su una nave scossa dalle onde del mare in tempesta.
Immaginare che si mettano a fare una discussione in punta di forchetta sarebbe
assurdo. Non penso che i bambini vadano continuamente protetti, illudendoli di
vivere in una fiaba serena e felice. Lo stesso mondo dei bambini può essere
estremamente crudele. Non voglio dire che si debba cercare un effetto
traumatico, ma rendere progressivamente conto della complessità che ci
circonda. Bisogna cominciare a introdurre tutti gli aspetti duri e anche feroci
della vita, proprio per permettere che i bambini non li affrontino da soli.

Qual è il principale
problema del teatro per ragazzi oggi?

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, allo stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Moliere, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroviamo all’interno di un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro. È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Nella Califano, Michele Spinicci




Vedere il lupo da vicino: conversazione con Zaches Teatro

«Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno
già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono
essere uccisi»

G. K. Chesterston

La compagnia Zaches Teatro utilizza questa citazione per presentare il suo Cappuccetto rosso al festival “Teatro
fra le generazioni”. Una produzione in collaborazione con Giallo Mare Minimal
Teatro, Fondazione Sipario Toscana, La Città del Teatro e Regione Toscana. In
scena, gli interpreti Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Daria Menichetti.

A partire dalle domande su cui ci stiamo interrogando nel corso di questa
IX edizione di “Teatro fra le generazioni” abbiamo intavolato una breve
conversazione con la regista Luana Gramegna (che si è occupata anche della
drammaturgia e della coreografia), Francesco Givone (scene, luci, costumi e maschere)
e Stefano Ciardi (progetto sonoro e musiche originali).

Negli ultimi anni si parla spesso di formazione del pubblico. Quale pensate
sia il legame tra arte e pedagogia?

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia
e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la
nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo
intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.
Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico
quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è
perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione
più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante
offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni
che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli
insegnanti.

A proposito di stimoli: oggi i bambini sono abituati a un sovraccarico di
informazioni, a un flusso rapido di immagini. Voi comunicate attraverso la
danza, la maschera, le ombre e nel vostro spettacolo ci sono molti momenti di
silenzio. Quali sono le ragioni di questa scelta?

Forse il problema più grande degli ultimi anni è legato al ritmo, che
spesso ci obbliga a creare montaggi sempre più serrati per seguire il tipo di
fruizione a cui sono abituati i giovanissimi. Nel nostro modo di lavorare c’è
la volontà di recuperare ciò che da sempre appartiene alla memoria teatrale e
umana, come le maschere e le ombre, che colpiscono il nostro
immaginario più di qualsiasi altro linguaggio. Si tratta di strumenti semplici
ma capaci di parlare ai bambini di oggi.

Lo spettacolo è consigliato a partire dai 4 anni, pensate che questo tipo
di lavoro sia adatto a un pubblico così giovane?

Noi lo consigliamo dai 4 anni perché pensiamo che i bambini a quell’età possiedano la capacità di operare fortissime associazioni attraverso l’uso delle immagini, senza la necessità della parola, che spesso porta a chiudersi dentro alcuni schemi mentali. Nel percorso verso l’età adulta più impariamo, più perdiamo qualcosa. I bambini invece hanno ancora la capacità di avvertire l’archetipo della fiaba, non a livello concettuale, ma emozionale ed è questo che a noi interessa. Esiste già una grande offerta di spettacoli didattici che si occupano di veicolare informazioni, ma per noi è importante che il bambino conservi un’emotività viva.

Il linguaggio che usiamo non è fruibile da tutti allo stesso modo, ma siamo convinti che non sia una debolezza, bensì un punto di forza. Lo spettacolo, che rispetta la struttura originaria della fiaba, può essere letto in modo stratificato: un pubblico più preparato potrà individuare tutti i simboli che la fiaba contiene, esistono però anche livelli di lettura più semplici.

Per la messa in scena del vostro spettacolo avete consultato diverse
versioni della fiaba di Cappuccetto rosso. Come avete presentato agli
spettatori gli elementi più inquietanti e crudeli contenuti in esse?

La fiaba nasce come racconto indirizzato non soltanto ai bambini. Semplificarla e renderla rassicurante equivale a sminuirla. Non si può privare la fiaba di tutti quegli aspetti inquietanti che le appartengono. Nello spettacolo c’è un momento in cui il lupo scende in platea, ma dopo una tensione iniziale, i bambini di solito cominciano ad accarezzargli il muso. Vedere il lupo da vicino assume una funzione catartica, di svelamento e dunque di superamento della paura. Per noi è un momento fondamentale, perché permette ai bambini di avvicinarsi alla paura, conoscerla, darle un volto. La paura nasce da ciò che non conosciamo. Coraggioso non è chi non ha paura, ma chi decide di non sottrarre lo sguardo davanti a essa. La paura non deve essere censurata, ma gestita. Costituisce una parte importante del nostro essere, della nostra crescita. Non abbiamo intenzione di presentare ai bambini un mondo che non esiste, ma di farli rispecchiare nella realtà in cui vivono, prepararli a un universo che diventa sempre più complicato. Il vero problema, oggi, sono gli adulti che non sanno gestire la paura.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




Dentro la meccanica del cuore: conversazione con la compagnia MaMiMò

La seconda conversazione incentrata sulla relazione tra arte e pedagogia nasce dalla visione de La meccanica del cuore. Lo spettacolo è tratto dal romanzo omonimo di Mathias Malzieu e coprodotto dal Centro Teatrale MaMiMò insieme al Teatro Gioco Vita, con l’adattamento di Marco Maccieri e Angela Ruozzi (che firmano anche la regia).

Abbiamo incontrato Angela Ruozzi e i tre attori Fabio Banfo, Cecilia Di Donato e Paolo Grossi.

Quando parliamo di teatro fra le generazioni si pensa inevitabilmente al rapporto tra arte e pedagogia. Come si declina questo legame nel vostro lavoro?

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono. Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Crediamo che il punto di forza dell’aspetto pedagogico – pedagogico non didattico! – derivi dal fatto che questo lavoro si sviluppa a partire da tante domande. Il teatro non deve dirti cosa pensare, qual è la cosa giusta da fare: è necessario che ciascuno si ponga la propria personale domanda, altrimenti si rischia di insinuare una netta distinzione tra bene e male.A quel punto l’arte può cadere nella demagogia e imporre una sola via percorribile.

Nell’epoca delle nuove tecnologie, da dove nasce l’idea di accostare il
teatro delle ombre alla presenza fisica degli attori in scena?

Principalmente dalla voglia di lavorare con Teatro Gioco Vita e dalla lettura del testo di Malzieu, che contiene una chiave onirica, poetica e visionaria, tale per cui non erano sufficienti i mezzi attorali classici. Abbiamo sentito la necessità di aprirci a panorami nuovi, a immagini, evocazioni; quindi ci siamo rivolti a maestri come Nicoletta Garioni e Fabrizio Montecchi (a loro spetta la cura di sagome, scene e ombre ndr) che ci hanno insegnato tanti loro segreti. È grazie a loro se lo spettacolo ha la capacità di esprimersi anche attraverso immagini e ombre. Quando ci siamo resi conto che le parole non erano sufficienti, anzi rischiavano di appiattire significati molto più ampi e complessi, abbiamo capito che le ombre erano necessarie al percorso che ogni attore costruisce scena dopo scena. Giocare con le ombre è un esperimento molto complesso da gestire, perché quando sei da questa parte del velo non hai la percezione e la consapevolezza di quello che appare dall’esterno. Necessita di grande controllo e lucidità. L’ombra non è solo un elemento estetico, è uno scarto di linguaggio che dà un senso diverso alla storia e racconta qualcosa che non si può toccare ma solo percepire. L’ombra racconta l’invisibile, fa vedere l’anima.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




Verso nuovi immaginari comuni: conversazione con Renata Coluccini

Siamo
a Castelfiorentino, sede insieme a Empoli della IX edizione di Teatro fra le
generazioni, organizzato dalla compagnia residente Giallo Mare Minimal Teatro.
Una delle modalità che abbiamo scelto per raccontare i quattro giorni di
quest’anno (dal 19 al 23 marzo 2019) è una serie di brevi conversazioni con
alcuni dei professionisti presenti, in cui ci concentreremo particolarmente sul
rapporto che l’arte intesse con la pedagogia all’interno del teatro per
ragazzi.

La
prima di queste interviste è a Renata Coluccini, del Teatro del Buratto. La
incontriamo al Teatro del Popolo di Castelfiorentino, immediatamente al termine
di Amici per la pelle (il titolo è
ancora provvisorio), una coproduzione Teatro del Buratto e Atir Teatro
Ringhiera di cui è regista. Lo spettacolo, con la drammaturgia di Emanuele
Aldrovandi e Jessica Montanari, apre il secondo giorno del festival. Gli
interpreti sono Mila Boeri e David Remondini.

Lo spettacolo presentato in forma di studio è al suo debutto. Al termine, la Coluccini non manca di domandare ai bambini le loro impressioni. Cosa non hanno capito, cosa li ha resi tristi e cosa li ha fatti ridere. Del resto, come ci dice poco dopo, recepire le reazioni, positive o meno, dei propri interlocutori è il primo passo per cercare nuove strade, per arrivare a un momento di “ridefinizione”.

Come si manifesta in questo spettacolo il rapporto tra arte e pedagogia?

Devo
premettere che per questo lavoro si sono incontrate per la prima volta diverse
persone e diverse realtà: Emanuele Aldrovandi e Jessica Montanari che hanno
scritto il testo, gli attori, Mila Boeri e David Remondini, che vengono
dall’Atir Ringhiera, e io che sono del Teatro del Buratto. Io vengo dal teatro
per ragazzi, gli altri no, o non solo. Perciò durante tutto il percorso, nelle
discussioni sul testo, sulla messinscena, la regia, mi sono trovata spesso a
dire “questo è giusto per i ragazzi, quest’altro non lo è”. In questo modo ho
anche dovuto pormi degli interrogativi sulla questione, dare delle risposte e
motivarle. Non sempre è stato facile, ma certamente è stato utile.

L’educazione
comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto
d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e
chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che
curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è
che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in
scena.

In questo caso l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Ci ha colpito molto l’essenzialità della rappresentazione. È uno strumento per accendere l’immaginazione nel tuo pubblico?

Questo è un punto cruciale. Il teatro, per ragazzi ma non solo, più evoca e meno descrive e meglio è. Solo così diventa un incontro, un momento comunitario tra chi lo mette in scena e chi partecipa da spettatore allo spettacolo. Se porti il pubblico a mettere la sua carne, il suo pensiero, il suo cuore nello spettacolo, senti di costruire dei paesaggi immaginari comuni, che cambiano a seconda di dove vai e degli spettatori che incontri. È una delle cose più affascinanti del teatro per ragazzi, il pubblico ti fa davvero cambiare lo spettacolo.

L’ho detto anche ai miei attori per questo spettacolo: se riuscite a prendere i ragazzi per mano e a fare un viaggio con loro, una volta terminato, sarete cambiati anche voi. Certo, è un’esperienza che dura poco, 50 minuti, ma ogni volta è tangibile e differente, ogni volta si incontrano nuove reazioni e si creano nuovi immaginari.

L’essenzialità poi aiuta a fare emergere le parole – e in questo spettacolo ce n’erano di particolarmente belle – ma anche il silenzio. Di immagini direi che forse siamo anche saturi.

La presenza così forte di silenzi potrebbe essere una sfida rispetto ai tempi frenetici della contemporaneità?

Sì, come anche la presenza di dialoghi lunghi e complessi. Ci ha sorpreso quanti concetti “difficili” o “da adulti” sono arrivati con forza ai ragazzi e li hanno colpiti.

Cosa pensi che manchi oggi al mondo del teatro per ragazzi?

Sicuramente
lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e
teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si
concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei
contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade
conosciute, e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione, in cui chiedersi cos’è oggi quello che facciamo, in cui fare un punto.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




La questione del futuro. Intervista a Renzo Boldrini

Lo abbiamo incontrato 2017 e con il direttore di Teatro fra le Generazioni Renzo Boldrini avevamo discusso di teatro popolare, di intrattenimento, leggerezza e densità. Nel 2018 era emerso il concetto di “spettatori dionisiaci”, ma anche la necessità di guidare una fragilità dello sguardo.
Nel 2019 siamo giunti alla nona edizione del festival e il discorso si sposta sui modelli organizzativi, ma anche su quel confronto fra adulti e giovani che si è interrotto nel teatro come nella società.

Renzo Boldrini, ci introduce alla presente edizione, la nona?

Teatro fra le Generazioni arriva alla nona edizione, dunque il primo anno di attività ha coinciso con la legge regionale del 2010 che ha dato il quadro legislativo al sistema delle residenze artistiche della Toscana. Non è un caso, perché la pratica delle residenze ha a che fare con il radicamento, si tratta del rapporto stabile e quotidiano di chi fa vivere un teatro con il territorio che gli sta intorno. La residenza ogni giorno sperimenta azioni per un ravvicinamento fra il teatro e la polis, e da questa pratica nasce Teatro fra le Generazioni, la punta di una piramide di attività della residenza Giallo Mare Minimal Teatro anche sul territorio di Castelfiorentino e di Empoli, parte della residenza interprovinciale dove operiamo. Si tratta allora di un modello che non concepisce la residenza solo come un rapporto fra i luoghi e le compagnie, ma come un presidio culturale artistico che gestisce, programma, produce, forma, promuove e realizza. Io ricopro il ruolo di coordinatore regionale delle residenze toscane, credo non a caso, stiamo infatti parlando di un modello progettuale che rispecchia la stessa idealità alla quale si sono ispirate le compagnie professionali di teatro ragazzi dopo il periodo dell’animazione, che va dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni ’70. In quel momento nasce in Italia il teatro per l’infanzia e la gioventù, in quel momento le compagnie “fondatrici” hanno costruito un modello per i venti o trent’anni a venire. Vedo molte affinità tra l’afflato di quel periodo e le domande che attraversano le residenze toscane oggi, anche allora c’era la necessità di incontrare comunità più definite, pensiamo al mondo della scuola, o di radicarsi nei territori in cui si lavorava.
Teatro fra le Generazioni cerca di essere generale e specifico nello stesso tempo perché non si pone il problema di includere uno spettatore visto secondo lo stereotipo del “primitivo culturale”, ma anzi si interroga sulle strategie, i linguaggi e le modalità specifiche da utilizzare per rivolgersi a un pubblico differenziato e particolare allo stesso tempo.

Cosa manca oggi al teatro ragazzi?

La capacità di fissare questo fenomeno con serietà. Non mi risulta, per esempio, che esistano tesi di laurea che non si fermino solo alla preistoria del teatro ragazzi in Italia. Questo non accade perché non esistano testi o riflessioni critiche e storiografiche, eppure forse per gli studiosi il teatro ragazzi è avvertito ancora come un genere minore.
La Toscana, insieme al Piemonte all’Emilia-Romagna, storicamente è stata una regione motore in una nazione dove ogni singolo comune, quasi per una necessità ideologica (alla quale non corrispondeva sempre una qualità delle proposte), aveva una rassegna di teatro per le scuole, per le famiglie, per i ragazzi. Oggi il campo si è ristretto in maniera importante: quella del teatro ragazzi è una zona di non consenso perché i bambini non sono ancora elettori, dunque si preferisce concentrare un’attenzione anche politica ed economica su una maggiore quantità di titoli nella stagione di prosa. È un procedere che rassicura. Io cerco di fare un festival sostanzialmente autoprodotto e “autonominato” ma capace di rivolgersi a diverse generazioni, non teatro “per” le generazioni di giovani ma “fra” le generazioni, includendo anche spettatori piccolissimi.

Cosa vedremo quest’anno in programma, dal 19 marzo al 22 marzo?

Comincio col dire senza un euro di finanziamento in più, passiamo da tre a quattro giorni. Abbiamo venti proposte delle quali cinque sono progetti in divenire, studi o percorsi in fieri, con il festival come palestra per trasformare materiali quasi solo ideati a spettacoli ben definiti e maturi. Sono interessato alla varietà perché vorrei che Teatro fra le Generazioni non fosse solo una vetrina per operatori, lo penso come un cantiere e un punto di incontro tra le figure che operano intorno a quest’area creativa. Apriamo per il secondo anno consecutivo con l’assemblea Assitej, che raccoglie direttori di teatro, operatori, artisti; ospiteremo un corso di formazione per insegnanti. Tra le proposte in cartellone ci sono compagnie che vengono da tutta Italia e ben cinque coproduzioni, segno di un terreno dove si favorisce l’incontro tra storie e generazioni diverse. A livello tematico segnalo solo la presenza di alcuni lavori che sfatano alcuni luoghi comuni della fiaba e altri nei quali è molto viva l’attenzione al rapporto con il mito.

Esistono dunque nel teatro ragazzi delle tematiche urgenti, oppure dei temi tabù ?

Esistono tabù enormi. Manca in questo momento la possibilità di prendere di petto con dignità la questione del futuro. Credo che farebbe bene rinsaldare, anche grazie al teatro, un rapporto vero fra pubblici di adulti e di bambini. Poi ci sono i nodi legati al cambiamento in atto, a livello sociale: cambia la società, cambiano le domande, cambia l’immaginario. Pensiamo per esempio all’utilizzo della tecnologia e al mutamento che comporta nel rapporto intersoggettivo e relazionale, non solo tra i più giovani. Solo chi si occupa di questo tipo di teatro sa cosa vuol dire oggi tenere per un’ora, nella sospensione del ritmo teatrale, una comunità di bambini abituata alla rapidità.

Cosa si augura per il teatro ragazzi?

Mi auguro che si creaino le condizioni per una riflessione sul teatro ragazzi come fenomeno culturale, vorrei aprire un tavolo di confronto scevro da soluzioni pre-acquisite, un confronto serio. Trovo ingiusto che questo fenomeno nel suo complesso non abbia trovato una sponda universitaria permanente, così come mi piacerebbe che i tentativi di relazione con la critica (Eolo e Planetarium, per esempio) proseguissero in vista di più ampi ragionamenti condivisi, oltre le singole recensioni.

A cura di Nella Califano




Nella tana dell’arte. Una giornata con Maurizio Bercini

Maurizio Bercini, allievo di Otello Sarzi e per venticinque anni direttore artistico del Teatro delle Briciole, fondato nel 1976 insieme a Letizia Quintavalla e Bruno Stori, nel 2001 da vita, insieme a Marina Allegri, a Cà luogo d’arte. Andiamo a trovarlo per un’intervista nella campagna di Gattatico, dove si prepara per il debutto, al festival Colpi di Scena, di Caro Orco diretto da Davide Doro della Compagnia Rodisio. Uno spettacolo in cui, sulla scia de L’Orco, di Maurizio Bercini e Marini Allegri, che andrà in scena, in serale, sempre al festival ideato da Accademia Perduta Romagna Teatri, si continua a indagare la figura del personaggio più temuto delle fiabe. Ci accolgono i colori sgargianti della vecchia baracca di Otello Sarzi, un vero e proprio pezzo di storia che riposa beato in un prato verde. Ha inizio così la nostra visita, che è un tuffo nella poetica di Maurizio Bercini, la cui sapienza artigianale attraversa ogni oggetto della casa-laboratorio, che visitiamo con l’entusiasmo di chi ha accesso a un piccolo museo per pochi visitatori.

Verso Gattatico. Un’introduzione alla figura di Maurizio Bercini (con Cira Santoro):

Maurizio Bercini: «Ho iniziato con la compagnia del Collettivo di Parma, compagnia che ora gestisce il Teatro Due. Era appena nato il famoso decentramento: anche per i comuni piccoli c’era un grosso patrimonio di teatri da restaurare e la comunità europea cominciava a finanziare il restauro delle sale più significative. Allora a Parma c’era un festival di teatro molto bello, organizzato dalla compagnia del Collettivo. Lì ho rivestito il ruolo di Direttore di Palcoscenico

 

«Una notte con Letizia Quintavalla ci siamo recati in modo molto estemporaneo da Otello Sarzi per chiedere di occuparci di burattini: il giorno dopo abbiamo iniziato io e Letizia, dividendoci lo stipendio di una sola persona e stabilendoci a vivere da lui. Otello era particolare, ma era bravissimo in qualsiasi operazione artigianale. Lui era burattinaio, mentre il nonno Francesco era attore. Diceva di aver fatto i burattini solo perché c’era la guerra e non poteva andare in giro con una compagnia di persone. Allora si è creato una “compagnia” teatrale che potesse stare in una valigia e gli permettesse di girare.»

 

Marina Allegri: «Fare teatro per l’infanzia voleva dire fare territorio, aggregare territori. In quel senso si trattava di un teatro politico: erano operazioni basate su un pensiero molto forte. Si faceva ricerca con in mente quell’orizzonte, c’erano fondi, c’erano le istituzioni, gli assessorati, adesso invece sono i teatranti che cercano semplicemente di “mettere qualcosa” intorno all’infanzia

 

Maurizio Bercini: «Forse la forma che più di tutte sta degenerando è proprio il circo contemporaneo: ora è molto facile prendere delle cantonate, commettere errori di lettura o interpretazione. È stato un po’ snaturato, come il teatro di strada. Soprattutto quest’ultimo direi che è diventato un po’ l’alibi di amministratori, compratori, venditori per risparmiare. Ti si offre solo la “vetrina”, concetto che è secondo me un po’ lo spartiacque fra quello che c’era prima e il dopo, soprattutto dal punto di vista della dignità del lavoro e delle persone. E anche della qualità dei lavori, dell’accoglienza. È avvenuto un ribaltamento: nel momento in cui si è considerato il teatro una vetrina ecco che i protagonisti diventavano quelli che guardavano, non più quelli che facevano gli spettacoli.»

 

«Agli inizi degli anni ’90 siamo arrivati alle Briciole, con 650 spettacoli all’anno, 90 dipendenti e un sacco di lavoro. C’era un dualismo fortissimo a livello stilistico fra me e Letizia Quintavalla e, vista la mole di lavoro, era abbastanza obbligatorio che ci dividessimo le regie. Con 650 spettacoli all’anno, era inevitabile che si formassero praticamente 4 compagnie diverse che giravano. Però nonostante quello, propulsioni e sinergie diverse andavano ad alimentare una visione comune

 

«I bambini vanno abituati anche alla convenzione del teatro e non solo al teatro.»

 

«Per il nostro ultimo lavoro la scenografia infatti è una casa in miniatura, e per me – che sono uno che ama da matti costruire le scene – dover creare un ambiente nel quale poi gli attori devono muoversi è un meccanismo che mi stimola molto. Questo parlando da regista. Da attore, invece, questo giro di essenzialità mi è piaciuto tantissimo, sia che venga messo a punto da me e Marina, sia con Davide Doro (che cura appunto la regia del nostro ultimo spettacolo). Anzi, con Davide, la ricerca dell’essenzialità diventa ancora più rigida, più estrema: l’utilizzo degli oggetti viene ridotto all’osso e si lavoro parecchio su se stessi, cercando di non farsi prendere dal panico. Sai, quando non riesci a risolvere certi passaggi, tendi a pensare a degli escamotage. Davide al contrario ti impone di mantenere la direzione che hai intrapreso, finché le soluzioni per continuare non arrivano spontaneamente

 

Cira Santoro: «Le domande che si facevano ai loro tempi, quando abbiamo iniziato, erano molto pratiche, concrete, artigianali. Rispondevano a esigenze tecniche. Con Letizia Quintavalla ho lavorato per lo spettacolo L’arte di Tatà che facemmo al Crest. C’erano cinque Pulcinella, ognuno con caratteri diversi. Mi ricordo che si parlava poco dei bambini. Era venuto fuori un personaggio del Pulcinella intellettuale, pedante, intelligentone. A un certo punto Letizia mi chiese che immagine stessimo dando dei bambini che studiavano, era una domanda che mi obbligava a immaginarmi qualcosa di diverso nella scrittura. Era una domanda concreta, mentre oggi pensiamo allo spettatore in modo più astratto… dovremmo recuperare quella sapienza artigianale, e pensare a che cosa stiamo costruendo intorno allo spettatore, anche dal punto di vista organizzativo.»

 

Maurizio Bercini: «Lavorando sulla paura, sull’orco… fino a dove puoi spingerti? Se “non si può parlare” qualcosa stride. Mi sembra che oggi chi vende gli spettacoli ha tantissimi timori, e forse in questo senso un problema c’è. Ma, come non si può parlare? Devi studiare il modo per parlare di queste cose, ma non esiste che tu non ne possa parlare.»

Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati

 




«Mi capite anche se parlo greco?» Una conversazione con Flavio Albanese

Al festival di Maggio all’Infanzia Flavio Albanese era in scena con Canto la storia dell’astuto Ulisse (una produzione Piccolo Teatro, Teatro Gioco-Vita e Compagnia del Sole). Il viaggio e le gesta dell’eroe greco vengono presentati ai bambini con un approccio che è allo stesso tempo dialogico, teso a coinvolgere il pubblico con una serie di domande, e immersivo, grazie anche alle ombre del maestro Lele Luzzati.
Abbiamo chiacchierato con l’attore, provando a capire da quali domande e da quali percorsi arriva la sua peculiare presenza scenica e chiedendoci in che modo teatro, mito e conoscenza vadano a formare un tutt’uno inscindibile

Cosa ti spinge a occuparti di teatro ragazzi e qual è il tuo punto di partenza per orientarti nella relazione con questo tipo di pubblico?

Sono arrivato al teatro ragazzi per caso. Porto avanti ricerche legate ai temi che mi affascinano e incuriosiscono fin da ragazzo, fin da bambino addirittura, e verso i quali sento l’esigenza di approfondire. Questo è il punto di partenza. Ho sempre condiviso il mio percorso artistico con Marinella Anaclerio, e lei ha fatto altrettanto con me, forse è anche la mia compagna di vita da così tanto tempo proprio perché con lei metto in comune dubbi, domande, incertezze che alimentano le nostre ricerche generando i nostri spettacoli e animando ogni nostro progetto, senza trovare mai una parola definitiva, perché l’unica cosa che ci sembra chiara è che nulla di quello che fai può essere completamente certo e risolto.
Quando ho affrontato per la prima volta i dialoghi platonici studiando con un maestro russo molto vicino al lavoro di Vasil’ev, sono rimasto colpito da come l’immortalità dell’anima venisse dimostrata attraverso un processo geometrico-matematico assolutamente razionale e potesse essere compresa da chiunque, anche da una bambino. Ho sentito che avrei potuto proporre questi stessi dialoghi filosofici proprio a quei ragazzi che normalmente non amano la filosofia e la matematica, suscitando in loro un certo divertimento e dimostrando attraverso il teatro quanta meraviglia possa esserci nella ricerca di “come ottenere il doppio di una superficie di un quadrato con il lato di due piedi”. Ho capito che da questo punto di vista, il cosiddetto “teatro ragazzi” possiede straordinarie potenzialità.

Cosa ha guidato la tua scelta di mettere in scena la storia di Ulisse?

Il mito mi affascina molto, lo considero “l’hard-disk” della conoscenza più profonda che l’uomo aveva accumulato prima dell’invenzione della scrittura. Era una conoscenza fatta di cose visibili e invisibili che convivono senza pregiudizio e solo nel mito; l’uomo ha trovato uno spazio possibile per far convivere come in una formula magica il visibile e l’invisibile. Infatti l’essere umano è composto da una parte visibile e una invisibile.
I bambini capiscono e accettano più facilmente degli adulti i miti perché assomigliano formalmente alle fiabe e alle favole (anche se le favole sono essenzialmente diverse). La psicanalisi si è soffermata a lungo sul mito perché ha intuito che lì c’è qualcosa che si ancora fortemente nel profondo dell’essere umano, e ci sono tantissimi legami anche con la scienza: infatti la prima cosa che spiego ai ragazzi alla fine di ogni spettacolo, quando ci fermiamo a parlare e riflettere, è che i miti aiutano gli scienziati a realizzare nuove scoperte così come le favole aiutano i bambini a scoprire il mondo.
Ci sono intuizioni straordinarie, per esempio: all’inizio c’era il caos, poi Gea e Urano che generano l’infinito (tutte le cose visibili e invisibili) ma tutte queste cose non hanno spazio per venire fuori; si manifestano solo quando Gea e Urano si dividono nel momento in cui Crono, col falcetto, li separa; infatti in quel momento inizia il regno del Tempo e nasce lo spazio… È qualcosa di vicinissimo alla descrizione del Big Bang che tratteggia Hawking nel suo Dal Big Bang ai buchi neri, in cui parla di «lampadine che iniziano ad accendersi nell’universo» (un’immagine teatrale straordinaria!).
Ci sono fortissime connessioni fra il mito, la scienza e la spiritualità, soprattutto nel momento in cui la scienza inizia ad “annusare” la fisica quantistica e quando dall’idea di atomo si passa al concetto di “vibrazione”. Penso fortemente al Vangelo di Giovanni «in principio era il Verbo» dove
“Verbo” vuol dire proprio vibrazione, che in principio era presso Dio… che fossero i quanti?! Eh Eh Eh (rido perché non bisogna prendersi troppo sul serio).
Insomma voglio dire che quello che presento ai ragazzi è sempre associato a un percorso profondo di studio e di ricerca personale.
Lo spettacolo realizzato con Francesco Niccolini L’universo è un materasso, per esempio, è nato lavorando a stretto contatto con un docente universitario, Marco Giliberti, che verificava di volta in volta i contenuti scientifici del testo. Lo stesso titolo deriva da una sua spiegazione.
Dunque per me è molto importante trasmettere queste modalità di conoscenza alle nuove generazioni, soprattutto per stimolarli ad accendere processi di ricerca piuttosto che cercare risposte.

Infatti i tuoi spettacoli non sono divulgativi…

Il mio intento non è quello di divulgare – non sono un divulgatore – ma di trasmettere un processo di pensiero, che poi è lo stesso che utilizzo, per esempio, all’inizio dello spettacolo sull’Odissea. Voglio che i ragazzi comprendano che la difficoltà di tradurre un testo non è la ricerca delle parole esatte ma nella capacità di intercettare quella mentalità che ha dato origine a quelle parole.
Tornare a quella mentalità apre tantissimi “buchi”… neri … Significa cambiare il modo di pensare il mondo, prima di viverci. È lo stesso concetto per cui è importante pensare il teatro, prima di farlo.
Ho bisogno di tutto questo per “sentire” Ulisse dentro di me, per sentire appunto il desiderio di ricerca. Lavorare in questo modo mi sintonizza con la parte sconosciuta di ciò che mi circonda.


Che ruolo ha lo spazio scenico nella costruzione drammaturgica dei tuoi spettacoli?

In questo momento del mio percorso lo spazio scenico è uno spazio che comprende anche il pubblico. Una volta rimasi fulminato dalle parole di Paolo Rossi che mi disse: «Ricordati che gli attori non fanno teatro per il pubblico, ma con il pubblico». Ecco, il mio istinto teatrale va in questa direzione. La mia formazione è strehleriana con una forte influenza russa, per me esiste uno spazio unico in cui il pubblico è parte dello spettacolo. Si tratta, in fondo, di qualcosa di vicino anche alla commedia dell’arte.
Nel caso dello spettacolo su Ulisse ero coadiuvato in scena da un mezzo molto potente ed espressivo: le ombre di Luzzati. Le sue immagini sono molto più potenti della mia recitazione perché contengono quell’elemento irrazionale che inevitabilmente suscita grande fascinazione nel pubblico: “le cose invisibili sono molto più potenti di quelle visibili”. È dunque inevitabile che a un certo punto le ombre prendano il sopravvento. Allora piano piano mi sono fatto da parte, mostrando solo in qualche accenno la mia presenza e lasciando “libere” le ombre in scena.

Il tuo spettacolo è ricco di momenti esilaranti, ma è possibile utilizzare la comicità e il divertimento senza cadere nella trappola della risata facile?

Questa è la trappolona in cui rischia di cadere qualsiasi attore, perché si cerca sempre di ottenere il consenso del pubblico. Prima di mettere in scena uno spettacolo, come dicevo, mi preparo, studio tantissimo e tutto ciò che dico è frutto di ricerche, che spesso durano dei mesi, sostenute dal costante confronto con Marinella, prima di tutto, e poi amici e docenti universitari, filosofi e studiosi che si appassionano con me, mi accompagnano nel processo creativo. Quando maneggi molto bene una materia o un argomento, proprio come quando ti presenti ben preparato a un’interrogazione, diventi leggero, perché sei libero di parlare senza pensare e questa leggerezza a volte diventa commedia. Cerco di non pensare, penso tutto prima… ogni volta che penso di voler far ridere divento più pesante… ecco, forse il significato della parola “battuta”…va in battere… quella è farsa; la commedia va in “levare”… devo lavorarci, tento ancora…
È un po’ come il rischio di suonare Chopin, esibendo un atteggiamento romantico. No! È già Chopin stesso a essere romantico. Tu suona semplicemente le note così come sono! Similmente per Shakespeare: funziona se resti aderente al testo, sovrapporre il tuo pensiero spesso lo volgarizza, lo rende pesante e, a meno che tu non sia Carmelo Bene, quando reciti dei grandi autori, se cerchi di sovrapporti con il tuo pensiero, li banalizzi.
Penso che di fronte a dei “capolavori” sia necessario mettersi al loro servizio e “giocarci”.
Il “play”, il “jouer” nel senso di recitare indica proprio la distanza che l’attore frappone fra sé e il personaggio, e che gli consente, appunto, di giocare come un bambino e non scherzare come un adulto. Ed ecco che ci troviamo a fare i conti con la cosiddetta “misura”: sapere quando stai facendo “troppo” ed è una fortuna incontrare nel tuo percorso artistico qualcuno di cui ti fidi e che ti possa fare da specchio; ho infatti sempre bisogno di una figura che mi osservi dall’esterno. Francesco Niccolini, Marinella Anaclerio, Giovanni Soresi, mia madre a volte e qualche critico leale, sono le persone a cui mi affido e che mi ricordano quando il mio “ego attoriale” sta prevaricando gli obiettivi dello spettacolo. La misura a volte va ricordata con severità ma sempre con un amore per il teatro che va avanti… sempre…

In che modo si può affrontare il tema dell’amore, anche fisico, con il pubblico bambino?

Quando Penelope e Ulisse si rincontrano dopo vent’anni, gli dei con un incantesimo ridonano loro la giovinezza, lo stesso aspetto che avevano nel momento in cui si erano conosciuti per la prima volta. È un po’ questa l’essenza dell’amore, no? Dell’amore, non dell’innamoramento, che necessita della materia. L’amore è talmente immenso da farti ringiovanire. Non dimentichiamoci che il rincontrarsi di Ulisse e Penelope è preceduto anche da un riconoscersi. Nel momento in cui ci si riconosce, ecco che il tempo non esiste più, diventa circolare e ci si ritrova immersi in quella sorgente da cui nasce tutto, dal pianto al riso… Due anziani innamorati, che si prendono per mano, per strada, sono molto simili a due ragazzi.

Nel tuo spettacolo, insomma, emerge l’amore come forza che muove tutte le cose piuttosto che l’elemento erotico…

Amor che muove il sole e l’altre stelle!
Esistono due tipi di eros. Dopo Caos si manifestano Gea, Urano e Eros il primo Eros, ed è ciò che tiene unite le cose.
Quando ti innamori cerchi il contatto con l’altro, hai bisogno di stabilire una connessione profonda con le cose, vuoi unirti a tutto… e se questo aspetto tende a venir meno col tempo, la conseguenza è che si diventa più soli, tutto perde significato.
Platone nel Simposio dice che all’inizio si ricerca un altro corpo; poi cerchi tutti i corpi che ti piacciono, dopodiché ti accorgi che quello che stai cercando è in realtà la bellezza di quei corpi,
e col tempo ti rendi conto che la Bellezza è unica, per cui non cerchi più i corpi ma la Bellezza in sé e a poco a poco la tua ricerca della bellezza diventa ricerca dell’immortalità.
Prendi l’esempio di Sarah Kane, che in Italia ottenne il successo soprattutto per la scabrosità della sua scrittura, ma non sta lì il genio della Kane… Eros incarna l’entusiasmo, lo stupore, la curiosità per lo sconosciuto e quando scopri nuovi territori diventi più vasto perché devi comprenderli, ed essendo più vasto desideri ancora più cose… L’amore per le cose nasce dalla conoscenza che hai di esse… (Leonardo). Quando amore e conoscenza viaggiano insieme nasce il bello: questa è l’essenza dell’incontro fra Ulisse e Penelope. Perciò a quel punto compaiono gli Dei, rendendo la loro notte la “notte più bella che potesse essere mai sognata”. Per questo da una storia d’amore, che ti abbia ferito o meno, si esce sempre un po’ più “grandi”. E se hai il coraggio di andare fino in fondo, diventi più vasto. Anche quando per esempio ti ritrovi perso e disperato nella vita, devi adottare una prospettiva mitologica, altrimenti ti sembra tutto piccolo e senza senso.
Ecco, questo mi sembra il processo che sta alla base dei miei ultimi spettacoli. Si tratta sempre di vedere il macrocontesto in cui le storie sono comprese. Cerco l’archetipo che sta dietro le vicende e anche io come attore non cerco più solo un personaggio, ma la funzione di un tutto.
Capisci quindi perché Jung è andato a cercare nelle profondità dell’uomo servendosi del mito. Il mito spinge oltre il limite, aiuta a comprendere ciò che non si potrà mai conoscere con esattezza.
La scienza è un continuo progredire. Così la filosofia non è solo “sofia”, ma ricerca della conoscenza. Ecco se si prova a trattare questi processi senza utilizzare un codice mitologico ci si ritrova a parlare solo di sesso e non di Eros. Amor che muove il sole e l’altre stelle! La nostra compagnia si chiama Compagnia del Sole, capite? Anche se parlo greco?

Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali