Abbozzi di parola poetica. “Cari Cuccioli” di Compagnia Rodisio

I gesti cadono come fiocchi di neve. Non fanno rumore sul palco, se non appunto il lieve crepitio di passi su un manto soffice, l’eco di uno spostamento d’aria che è accenno, semplicità, rifinitura costante. Manuela Capece e Davide Doro  “calzano la scena” come fossero sotto una teca, tanto viva e a tratti sanguigna è l’intensità della loro presenza quanto sottile, sul filo della trasparenza, è l’esilità dei loro movimenti. Al Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio hanno presentato in prima nazionale Cari Cuccioli, spettacolo messo a punto in residenza presso l’Espace600 di Grenoble. Nella sala al piano superiore della struttura teatrale, un reticolo di carta argentata, ideogrammi e piccoli oggetti appesi a ricreare un tanabata (tradizione giapponese per cui le proprie aspirazioni e i propri desideri vengono affidati all’imprevedibilità del vento), esito di due giorni di laboratorio tenuto dalla compagnia con il giovanissimo pubblico (la produzione è a partire dai due anni) e genitori. Esito in perfetta sintonia con quelli che sembrano essere i presupposti dello spettacolo: dare forma all’invisibile, chiedersi di che pasta siano fatti i sogni e adagiarli in un alveo narrativo che ce ne mostri l’ordito.
Sforzo antropologico di uscita dalle tenebre, con ritorno all’ignoto. La scena si apre infatti su una piccola catasta di legno adagiata al limite del palco. Le braci la illuminano di una fioca luce, poi uno scoppio, una vampata e nel buio si leva un potente arzigogolo di fumo. Gli attori “accorrono” a tenere vive le fiammelle, approntando una danza soffusa fatta di soffi, ondeggiamenti di palmi della mano e respiri che si incrociano. Manuela Capece e Davide Doro sono una coppia, “cuccioli d’umano” spaesati di fronte all’oscurità ma consapevoli che la loro unione è già una forza sufficiente. Il resto sono solo strumenti: il fuoco per riscaldare la notte, tavoli, sedie e porte di un’abitazione che i due non cessano di comporre e organizzare per quasi tutta la durata dello spettacolo. Fuori c’è pericolo, c’è il lupo, c’è quel male fiabesco ma concreto evocato dall’unico momento testuale: una voce fuori campo che attacca appunto con «c’era una volta». Ma fuori è anche il non-luogo dove alla fine si recheranno i protagonisti, uscendo dalla porta mentre le luci si abbassano.
Come giustamente dice la compagnia, Cari Cuccioli è un haiku visuale. Brevi e concisi elementi che formano neanche una narrazione, quanto un’ipotesi di racconto che si avviluppa su se stesso, poiché ipotesi e progetto è innanzitutto è la scelta del vivere assieme rappresentata sul palco. Allo stesso modo dei poemi giapponesi, i gesti e gli oggetti che scorrono sulla scena (dei “versi motori” appunto) traggono sostegno da un’energia oggettiva, da un principio di composizione interno al “comporsi di ciò che ci ritroviamo di fronte”  cosicché anche gli attori vengono “sbalzati all’indietro”, incarnano non già dei personaggi ma appunto delle situazioni, abbozzi di parola poetica e noi li vediamo lontani come su di un leggio o dentro di una bolla natalizia. Quasi che alla classica quarta parete se ne aggiungesse una quinta, una sorta di filtro che rende le immagini dal palco dei “riflessi”, evocazioni dall’origine. Come tutte le evocazioni, vive se siamo noi a chiamarla e a infonderla di senso. Non importa in che modo: lo sguardo attento degli adulti dalla platea, gli schiamazzi spontanei dei bambini che crepitano in sintonia con i “gesti sulla neve”, pioggia primaverile ad abbattersi fuori sul teatro di Casalecchio e a rinforzare dentro l’idea di “focolare” che viene presentata sul palco. Ogni cosa è illuminata.

Francesco Brusa




Il meraviglioso segreto della narrazione. Intervista a Francesco Niccolini

Al festival Teatro fra le generazioni di Castelfiorentino Francesco Niccolini ha presentato “Digiunando davanti al mare”, un intenso spettacolo incentrato sulla parabola dell’attivista e sociologo Danilo Dolci. Gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività di drammaturgo, su come i toni e gli accenti della scena escano modificati dall’incontro con gli spettatori più giovani. Ne è uscita una lunga conversazione che tocca i tanti “misteri” della narrazione.

Nella tua carriera ti sei cimentato sia in creazioni originali che in riscritture. Quale rapporto intrattenere col “classico” se pensiamo alla scena di un teatro per i ragazzi?

Io ho bisogno di avere un rapporto continuo con i classici perché sono un nutrimento fondamentale. Passo molto tempo a studiarli e a riprodurre un rapporto, mi auguro sano, di riscrittura. Recentemente ho adattato un Misantropo e da poco anche un Riccardo III con Enzo Vetrano e Stefano Randisi che debutterà a ottobre. Si tratta di due operazioni molto diverse: da una parte il Misantropo vede otto attori in scena e i personaggi sono proprio quelli di Molière, anche se il testo è dimezzato; Riccardo III, invece, vede in scena tre attori soltanto che interpretano tutte le parti, la struttura dunque ne esce radicalmente sconvolta. Si tratta di un confronto utilissimo, non smetto mai di imparare dai classici. Poi, però, credo sia giusto che ci sia lo spazio per la creazione: compagnie, organizzatori teatrali, io stesso, tutti insomma dovremmo trovare il coraggio per rischiare di più e realizzare testi completamente nuovi. Mi sembra che lo spazio per questo tipo di operazioni sia sempre più piccolo e penso davvero si tratti di un grave errore del teatro italiano. Ripeto: i classici sono fondamentali poi, però, occorre avere il coraggio di lasciarli, altrimenti il rischio è di andare sempre di più verso una cultura meramente “archeologica”, verso una cultura morta. Sono stato pochi mesi fa a Valencia e il cartellone del teatro nazionale indicava un solo classico e otto testi nuovi… in Italia il rapporto è praticamente invertito!

In che modo chi si occupa di teatro ragazzi dovrebbe relazionarsi con il proprio destinatario?

Per quanto mi riguarda devo capire prima di tutto a quale fascia d’età mi sto rivolgendo. Pochi giorni fa ho finito di scrivere un testo per bambini dai tre ai cinque anni (Il piccolo Aron e il Signore del Bosco, per Alcantara teatro). La lingua cambia completamente e così il ritmo, il tempo, la quantità di parole. Nella mia carriera, poi, ho avuto anche delle bellissime sorprese a posteriori, per cui magari ho scoperto che uno spettacolo nato per ragazzi dai dodici anni in su lo potevamo fare anche per i più piccoli, oppure che spettacoli per gli otto-dieci anni potevano essere tranquillamente presentati a bambini di sei o addirittura di cinque anni. È anche vero che oltre a questo, che è importante e determinante per il teatro dell’infanzia, esistono una serie di componenti come la poesia, il divertimento, il batticuore, che si mescolano fra loro e vanno al di là di qualunque distinzione d’età. Ma allo stesso tempo è chiaro che il modo di divertirsi per un bambino di quattro anni o per uno di dodici non è lo stesso, per cui risulta indispensabile prestarvi una grande attenzione e un grandissimo rispetto.
Sono sfumature e diversità stimolanti. Nel corso degli anni ho lavorato nelle situazioni più disparate e considero questo fatto una grande fortuna: sono passato dal monologo con il grande attore per il pubblico serale al confronto con il bambino di cinque anni. Non ho una compagnia mia, ma lavoro con differenti gruppi e artisti e questo mi diverte molto, come pure cambiare continuamente il tipo di pubblico.

(Il Misantropo)

Come conoscere dunque i diversi referenti? Esistono pratiche laboratoriali, specifiche modalità di osservazione?

Io cerco di mettermi “dentro” gli occhi dello spettatore, che sia un bambino di cinque di otto o di dodici anni o un signore di settanta, e cerco di assumere quel punto di vista; è ovvio che quando lavori per l’infanzia tale operazione diventi maggiormente specifica. Anni fa ho sentito Sanchis Sinisterra dire una cosa che mi piacque moltissimo: «Ho scritto sessanta testi e mi dicono che sembrano scritti da sessanta autori diversi». Mi piace poterlo pensare anche di me, cioè di poter essere quasi un autore invisibile, diventare quel particolare pubblico, quell’attore, quella compagnia, quel linguaggio particolari. Si tratta di  trasformarsi in qualcun altro ed è una “schizofrenia sana” per questo mestiere, perché mi permette di vivere molte vite e di divertirmi come un bambino che gioca: ripeto, lo considero una fortuna, un privilegio.
Il mio bambino preferito è un bambino di otto anni, quella è forse la mia età “ideale”. Devo però diventare quel bambino, poi cerco di capire se devo farmi un po’ più piccolo o crescere un po’ di più, ma l’importante è assumere quegli occhi, la lingua che parla lui, che diverte lui. Mi sento un po’ un sarto, un po’ un cuoco: devo capire gli ingredienti che ci sono, cucire addosso agli attori un particolare vestito e poi mediare tra i miei desideri e i desideri del pubblico. Mi piace il teatro perché necessita di una collaborazione costante. Non ho mai pensato di dover imporre il mio punto di vista, cerco invece di fare in modo che tutti facciano un passo l’uno verso l’altro, portando gradualmente gli attori, i registi, gli scenografi e infine gli spettatori a vedere il “film” che io mi sono già fatto nella testa e “trasmetterlo” anche nella testa degli altri. È sempre una questione di occhi che devono scambiarsi.

Hai menzionato la questione del “comico”. Esistono secondo te dei paletti da non oltrepassare quando si usa la comicità con i ragazzi?

Confini invalicabili preferisco non metterli. Ciò che a me non interessa è il comico facile, quello della parolaccia, legato alla volgarità. Penso ci siano diverse qualità del comico.  Ad esempio, in questi giorni ho dovuto scrivere per bambini molto piccoli e so che questa storia ha una grossa componente di comicità legata alla tenerezza. Ha come protagonista un bambino di cinque anni e quattro animali con i quali lui ha un rapporto quotidiano e le prime volte in cui ho provato a leggerla ho visto e sentito nelle persone attivarsi una comicità “piccola”, che tende più al sorriso che alla risata, qualcosa – ripeto – di intimamente legato alla tenerezza.
Al contrario, un paio di anni fa ho realizzato uno spettacolo con Flavio Albanese che si chiama L’universo è un materasso, per ragazzi di dieci e dodici anni, sulla storia dell’universo, partendo da Esiodo e arrivando fino alla fisica quantistica. Si tratta di uno spettacolo diviso in quattro capitoli, molto diversi fra loro e tutti con una loro specifica comicità. Quando si racconta della Teogonia gli dèi ne combinano di tutti i colori, creando una sensazione di ridicolo. Oppure nell’ultima parte va in scena un dialogo che vede un giovane e imbarazzato Einstein spiegare a Crono, il Tempo, che il tempo non esiste! Qui la comicità è molto più surreale.

Come nasce Digiunando davanti al mare?

Questo spettacolo è nato in seguito a un laboratorio di narrazione tenutosi a Mola di Bari, in cui chiesi a Giuseppe Semeraro di partecipare. Era la prima volta che provavamo a lavorare insieme. Qualche giorno di lavoro mi è servito per capire che l’attitudine di Giuseppe fosse molto più legata alla pratica attoriale, che a quella del narratore. Per questo dall’idea originaria di una narrazione  sono passato a quella di un racconto in cui avrebbero dialogato due personaggi: uno doveva essere inevitabilmente Danilo Dolci, che venendo dal nord avrebbe parlato in italiano. Il suo personaggio è caratterizzato da una “fermezza dolce” e ho creduto che per le corde recitative di Giuseppe ci volesse anche un personaggio siciliano, così ho inventato Zimbrogi. Il fatto che Giuseppe parlasse il dialetto salentino, abbastanza imparentato con i dialetti siciliani, lo avrebbe facilitato. Quella di Zimbrogi è un’invenzione parzialmente basata sulla realtà perché fra le persone che Dolci aveva intorno c’era anche un pastore esperto di stelle e di animali. Ho messo insieme le testimonianze di altri personaggi siciliani che Dolci conosceva e in più alcuni elementi propri di questo Ambrogio che è diventato l’alter ego di Dolci. Zimbrogi ha dieci anni in più di Dolci, ma presto si accorgono che questa differenza non li divide, anzi, diventano presto amici: Ambrogio è un ventisettenne con la prigione alle spalle, il riformatorio, una vita difficilissima ed è quasi analfabeta, per cui è un ragazzino quasi quanto Danilo che, da parte sua, capirà di aver bisogno anche di quel punto di vista per comprendere la terra in cui decide di fare attivismo, mentre Zimbrogi si innamora della capacità di Danilo di sognare le cose e farle esistere. Lo capisce in maniera viscerale e questa presa di coscienza diventa un po’ il fulcro dello spettacolo.
Ci sono dunque brevi momenti di narrazione, mentre ho scelto di costruire le parole di Danilo partendo dagli atti del processo che lo ha visto come imputato. Questi atti sono poetici nelle parti in cui Danilo parla, incredibili e surreali quando parla l’accusa, infine molto intensi e sentiti quando a esprimersi è la difesa: Pietro Calamandrei era l’avvocato di Dolci. Un po’ alla volta è venuto fuori il testo dello spettacolo, che a volte è un dialogo altre volta consiste in una serie di veri e propri monologhi idealmente rivolti a un terzo personaggio che non c’è e che è il giudice che condannerà i due personaggi.
L’altra cosa che mi sembrava indispensabile era mantenere una chiave che non fosse seriosa ma per una situazione così surreale e grottesca ho pensato di rendere tutto tragicamente comico. Basta pensare al carabiniere che fa sfollare i manifestanti radunati sulla spiaggia dicendo che è vietato stare in molti sulla spiaggia e che è vietato digiunare. “Magari!”, risponde Zimbrogi. Si tratta appunto di episodi tragici che diventano comici, poiché rivelano il paradosso di una giustizia italiana incapace di difendere chi subisce, tanto da considerare i più poveri alla stregua di “banditi”. È il paradosso dei paradossi.

(Digiunando davanti al mare)

Lo spettacolo è nato da subito con un destinatario preciso?

È nato per gli adulti, poi ci siamo accorti che per le scuole superiori funzionava molto bene. La risposta è emotivamente forte, probabilmente anche perché si raccontano cose dure però, come dicevo, con una vena comica e poetica. La capacità di Danilo Dolci, che era anche un poeta, è proprio quella di riuscire a mettere in atto gesti provocatori con grande delicatezza e grande poesia, pensiamo solo al fatto di ascoltare Bach durante una manifestazione in spiaggia… Oppure quando dice ai manifestanti: “non portate i coltelli altrimenti ci accuseranno di essere armati! Spezzeremo il pane con le mani…”.  Possono sembrare degli enunciati banali ma in realtà racchiudono un affascinante potenziale evangelico.

In effetti il racconto di Danilo Dolci si avvicina parecchio alla fiaba. Quanto c’è nella storia umana di fiabesco e quanto invece le fiabe dicono rispetto alla nostra storia?

Credo che tutto questo poi stia negli occhi delle persone. Io sono molto legato all’idea di uno sguardo incantato e meravigliato. Quella che ritengo una mia grande fortuna è che continuo a vivere la meraviglia di fronte alle cose e credo che sia questo a rendere meraviglioso il racconto. Dunque se c’è alla base uno sguardo “meravigliato”, ecco che in qualsiasi vicenda  la componente fiabesca viene esaltata, viene fuori. A volte anche passando dal cinismo, dalla durezza, perché sono convinto che occorra sempre mantenere una forbice aperta fra tragico e comico, cinico e sentimentale, tra la capacità di essere assolutamente freddo oppure fortemente emozionale.
L’obiettivo resta comunque quello di trasmettere allo spettatore questo incanto, questa meraviglia, anche solo per un momento. Un attore da solo sul palco che racconta senza altri strumenti che non siano il suo corpo e la sua voce, deve aver dentro di sé la meraviglia. E deve avere così chiara la visione di quello stupore da diventare visionario col suo stesso corpo e con le sue stesse parole, in modo da restituirla a chi ha davanti, perché in mezzo fra lui e il pubblico non c’è niente. Sbaglia il narratore che pensa possa aiutare servirsi di uno schermo, immagini o video: si rischia al contrario di indebolire la visione.
Ecco, la trasmissione della meraviglia è il meraviglioso segreto della narrazione. È ciò che chiamo, senza paura di sembrare retorico, “batticuore”: far uscire lo spettatore con un battito cardiaco lievemente più alto di quando era entrato. Se accade questa cosa, vuol dire che sono riuscito a far emergere almeno in una certa misura la fiaba, qualunque cosa io stia raccontando.

La meraviglia come segreto del “tout public”, anche?

Anni fa in Francia, lavoravo su un Mahābhārata con il marionettista Massimo Schuster e oltre a realizzare una versione con le marionette ne abbiamo fatta anche una “in narrazione”. La prima volta che l’abbiamo portato in Italia, a Prato, era estate e ci siamo trovati incredibilmente davanti a un pubblico composto nella sua maggioranza da bambini.
Lo spettacolo trattava una storia complessa, ambiziosa, difficile come è il Mahābhārata con nomi complicati per i bambini italiani. Eppure ne sono rimasti incantati, come quando racconti loro vecchie fiabe italiane ben note.
Quando le corde risuonano fra le nostre vite e quello che ci viene raccontato, oppure fra quello che ci viene raccontato e quello che, anche se non ne siamo pienamente consapevoli, sta radicato dentro i millenni sui quali noi cresciamo, il racconto tiene. Però non si può usare sempre la stessa formula ed è bello poter variare ogni volta lo schema, porsi delle scommesse più complicate, più ardite. Altre volte capisci che devi stare in una semplicità assoluta. Devi decidere ogni volta e non c’è una risposta fissa che vale per tutto. Una cosa che serve è un’applicazione lenta, costante e umile, studiare tanto e avere umilmente il coraggio e la fiducia di mettersi nelle mani l’uno dell’altro (drammaturgo, regista, attore…). Ma soprattutto avere la serenità anche di poter sbagliare: la scienza si basa sull’errore, dobbiamo poter sbagliare e sapere scartare per tempo tutto quello che non funziona.
Con Luigi d’Elia lo dico sempre: il primo spettacolo che abbiamo fatto è stato un disastro e lo ricordo con felicità perché quel disastro ci ha permesso di conoscerci, di capirci, di far nascere un’amicizia e di capire che la strada che dovevamo percorrere era completamente diversa da quella da cui eravamo partiti. Per cui evviva quel disastro, senza di esso non ci sarebbe stata la progressiva conoscenza e l’enorme fiducia che poi è nata e che ci porta l’anno prossimo a festeggiare un decennio di spettacoli. Ogni giorno che Luigi ed io passiamo a teatro è perché siamo felici di farlo, ci sentiamo allegri, ridiamo. E la vita ci sembra più bella.

Francesco Brusa, Nella Califano




La dura verità della fiaba. Terza istantanea da Teatro fra le Generazioni

Nel corso di questo ultimo giorno di festival, ha colpito soprattutto la necessità di un teatro che potesse definirsi tout-public, cioè adatto a tutte le fasce d’età e quindi stratificato e leggibile a più livelli. Sappiamo, tuttavia, che differenziare le fasce d’età resta un importante e fondamentale compito per coloro che decidono di definire il proprio teatro in base al destinatario al quale si rivolgono, se è vero che esiste un’istanza pedagogica nel teatro ragazzi. Come diventa possibile, allora, realizzare spettacoli che possano davvero riattivare un immaginario collettivo, spettacoli in cui tutti i piani della rappresentazione risuonino in ognuno degli spettatori, anche se in modo diverso, evitando di strizzare l’occhio ora agli adulti ora ai bambini con facili trovate?
Crediamo che una risposta possibile sia arrivata dal drammaturgo Francesco Niccolini con Digiunando davanti al mare e dal regista Michelangelo Campanale con la sua Biancaneve, la vera storia. I due spettacoli hanno in comune il desiderio di suscitare negli spettatori lo stupore che, se per i bambini è un naturale rapportarsi con il mondo, per gli adulti diventa la possibilità di recuperare la scintilla dell’infanzia.
E quale racconto si presta più di tutti a generare questo effetto se non la fiaba, che nasce notoriamente per parlare agli adulti per poi invece addolcirsi, creando come effetto secondario la dannosissima credenza per cui esisterebbero argomenti inadatti ai bambini, dei temi-tabù?

Michelangelo Campanale si smarca da questo modo comune di pensare e lo dichiara apertamente nel titolo dello spettacolo: ci parlerà della vera storia di Biancaneve recuperando l’idea della fiaba come magistra vitae e per questo sincera e senza veli dietro i quali nascondere ciò che non vogliamo vedere. Una bambina dimenticata dalla madre, troppo occupata a curarsi della propria bellezza. Una madre-matrigna che offrirà alla figlia la mela avvelenata, dopo aver già tentato di liberarsene più volte: la gelosia diventa più forte dell’amore materno. Un messaggio duro, ma “è la verità”, continua a dirci l’ultimo dei sette nani che è sempre in scena ad assicurarsi che tutto vada come deve andare, perché la vita, per quanto possa essere difficile da accettare, è fatta anche di dolore e di cattiveria.
Il teatro “immersivo” di Campanale prende per mano lo sguardo dello spettatore e corre insieme a lui attraverso la storia, un galoppare mozzafiato tra grandi apparati scenografici, luci forti e cangianti che raccontano gli umori dello spettacolo e all’improvviso una musica, quando tutto rallenta o si ferma, a sottolineare momenti culminanti o gesti simbolici, come il dono mortale della mela. Adulti e bambini condividono lo stupore che arriva da questo spaesamento, da questo tuffo che coglie impreparati, finché non si “prende” la temperatura dell’acqua e si nuota insieme.
Il teatro di Campanale, infatti, come lui stesso dichiara, mutua dal cinema elementi visivi e sonori, affinché ogni spettatore possa essere raggiunto e comprendere e sentire in base al linguaggio che più lo rappresenta.


Digiunando davanti al mare è uno spettacolo che invece segue il flusso pacato della narrazione, che procede per guizzi improvvisi e momenti di puro ascolto e contemplazione. Giuseppe Semeraro, eccezionalmente nei panni di narratore, ora nelle vesti di Danilo Dolci, ora in quelle di un personaggio vivace e sopra le righe come ‘Zimbrogli’, che sembra descrivere con i suoi modi e con la stessa storia della sua vita la Sicilia intera, ci regala una grande prova d’attore. La drammaturgia di Francesco Niccolini offre un quadro molto suggestivo della Sicilia degli anni Cinquanta, una terra povera, in cui l’unico estremo atto di protesta può essere solo quello di continuare a digiunare, ma davanti a tutti, davanti al mare, pacificamente, con la musica di Bach come sottofondo. Danilo Dolci, poeta, intellettuale e pedagogo, prende a cuore quella terra e inizia a combattere per i diritti degli ultimi, pescatori, disoccupati, contadini, per scuotere l’Italia tutta ricordando che uno dei principi della Costituzione riguarda il lavoro, come diritto, ma anche come dovere. Ed è per questo che il grande movimento popolare creato da Dolci sfocerà nello “sciopero alla rovescia” durante il quale i disoccupati lavorano gratuitamente per la collettività. Una manifestazione pacifica che però porterà all’arresto, tra gli altri, di Dolci e successivamente ad un processo che non si risolverà a favore dei fautori della manifestazione.
Una storia, dunque, una fiaba senza lieto fine, ma che ci tiene tutti raccolti intorno al fuoco, mentre la voce di Semeraro, flebilmente illuminato dalle luci di scena, cambia tono e potenza e lingua. È il teatro di narrazione, senza artifici, nudo e ancestrale. Lo stupore del pubblico viene dalla possibilità di concedersi un momento di sospensione dalla realtà pur immergendosi completamente in essa. Non si può far altro che “stare insieme alle cose” come direbbe Marco Baliani rispetto alla sua esperienza di narratore.
È il corpo del narratore che parla, che si trasforma e ci mostra la fame, la dignità, la forza, la sofferenza. È un gioco fisico e sensoriale di “andata e ritorno” dal narratore al personaggio. Gli spettatori non possono fare altro che cedere all’abbraccio della narrazione, che ci riporta al gesto più antico e naturale che conosciamo, un gesto che ha la forza del rito e che è quindi rivolto a tutti: l’ascolto.

Nella Califano




La paura dell’infanzia. Conversazione con Chiara Guidi

Chiara Guidi ha portato al Festival Teatro fra le Generazioni 2018 Fiabe Giapponesi, un complesso esperimento in cui tre narrazioni tradizionali nipponiche rivivono in una relazione sempre dinamica e accesa con una platea gremita di bambine e bambini. Con lei abbiamo parlato della necessità di un teatro che si ponga l’infanzia come categoria di pensiero.

Sto riflettendo molto sulla necessità di trovare un linguaggio che possa riunire, in uno spazio comunitario, tutte le fasce d’età, per cui questa è un po’ la matrice dell’idea di “teatro infantile”: un teatro che dovrebbe ammettere anche le giraffe, se entrassero a teatro. Un linguaggio universale come quello del rito, dove non ci si pone certo il problema di chi partecipa. Nel rito non c’è una selezione, addirittura quando indicevano i grandi digiuni o i grandi riti del passato entravano anche i lattanti. La formula del teatro consiste nel mettersi di fronte a qualcuno e creare una relazione; da qui si apre una problematicità enorme, perché si convoca sempre qualcuno per aprire un artificio, un processo che contiene in sé la scelta delle parole. Io per esempio, per poter raccontare quello che è successo stamattina, devo trovarle quelle parole, cercarle, e le parole cercate mettono in una condizione di invenzione per la quale lo spettacolo non finisce. Io non voglio che si finiscano gli spettacoli, do sempre un appuntamento al pomeriggio o ai giorni successivi.
Mi è successo anche con settecento bambini in Australia, ad Adelaide, con Jack e il fagiolo magico. I bambini scendevano, prendevano i fagioli per terra. Tu hai una filastrocca: leggila in modo che la voce vada contro la rima della filastrocca. È questa l’idea, mentre noi ci siamo abituati a una struttura teatrale frontale e rigida: vai contro quella! Penso possa essere utile vedere che cosa un’epoca storica come la nostra possa raccogliere dai cambiamenti visivi di un tempo così frammentario. Potremmo forse trovare qualcosa per intaccare la struttura; non per chiuderla, ma per trovare una durata, un ordine. Nelle Fiabe Giapponesi c’è un grande ordine, una grande costruzione “fissa” che pure può mutare ogni volta perché il teatro deve essere in grado di reggere la forza d’urto dell’infante, di colui che è privo del linguaggio. Si apre una questione enorme: come fai a reggere la forza d’urto degli stranieri? Tu, uomo di cultura, io che mi adopero… io che mi reputo non razzista…

È impossibile essere l’altro…

Esatto, eppure io ho bisogno dell’altro. Per eccellenza lo straniero è l’infante. Un bambino che strizza l’occhio a quella sedia – perché si, è una sedia, ma lui sa che è anche un cavallo – a me questo fa paura.

In questo senso intendi “fuori del linguaggio”…

L’infante rinomina, ha questa capacità di rompere… Pensate che cosa oggi succede a scuola, dove tutto è catalogato secondo terminologie inglesi, come un linguaggio separato da se stesso: io di fronte a quella parola dove sono? Un processo simile accade se sostituiamo “parola” con “rappresentazione”: quello spettacolo, di fronte al bambino, come lo vuole ingannare? Con quale gioco lo vuole ingannare, lui che sa vedere in quella sedia il cavallo? Io lo dico perché me lo ricordo: quando ero bambina c’era un cuscino che mi mettevo in testa e per me quello era un cappello, anche se continuava a essere un cuscino.

Nelle Fiabe Giapponesi ci sono una complessità, una ritmica, una stratificazione altissime. Poi c’è la questione filosofica iniziale che si sviluppa in diverse direzioni: ci sono le fiabe con una propria linearità, c’è la meraviglia del linguaggio teatrale che però è anche fatta di estrema semplicità. Che cosa è importante che resti dal tuo punto di vista? 

Questa domanda la devi fare a te stesso, quando leggi Cappuccetto Rosso a un bambino che te la chiede tante volte. Quanto gli possa far bene non lo sappiamo, quanti chilogrammi di favola ci facciano bene…  In questa epoca è importante essere riconoscenti a qualcosa che ci fa bene mentre noi non ne siamo consapevoli, scardinando la logica per la quale se qualcosa ci fa bene dobbiamo esserne consapevoli. L’amore non nasce così, tu ti innamori e non sai perché ed è l’amore che muove le cose, insieme alle stelle. La risposta alla tua domanda è “non lo so”, io so solo che questi bambini che hanno visto Fiabe Giapponesi oggi chiederanno ai genitori di essere portati in teatro. In città piccole in cui ho fatto lo spettacolo, mi è capitato di incontrare dei bambini per strada che mi hanno chiesto scusa perché i genitori non avevano voluto portarli a teatro. Succedeva qualcosa di simile negli anni 90’ con la Scuola Sperimentale, dove per tre anni avevo seguito più o meno gli stessi bambini con i quali si stabiliva un’intesa profonda e nascosta, la stessa che provo a ottenere nello spettacolo. È quello che cerco di dire anche nel libro La voce in una foresta di immagini visibili: io recito per cercare il silenzio. Faccio tutto questo per non esserci, divento io la scatola vuota, mi metto sul fondo e dico: «Voglio vedere lo spettacolo». Io ho scelto questi nove bambini, uno mi ha detto che non lo voleva fare, ma io: «Eh no, ormai sei qui e lo fai». Se spingi troppo forte rompi qualcosa, se spingi troppo poco non lasci un segno, bisogna stare nel mezzo, penso che questa sia proprio la forza dell’artigianato che si avvale della materia della voce, del corpo, dei gesti, perché anche la voce a volte ottiene il silenzio: basta scendere di una tonalità.

Nello spettacolo sono però presenti tensioni narrative anche lineari, quelle delle tre fiabe…

Occorre essere consapevoli dell’importanza del racconto e quindi, attraverso il racconto, dell’organicità della fiaba, soprattutto per quanto concerne la durata del tempo, che è contraria alla frammentarietà che viviamo. Io non voglio informare sul vuoto e sul nulla, non voglio informare su chissà che cosa del Giappone, non ci sono indicazioni didascaliche, è tutto aperto. Ciò che voglio è cercare un linguaggio che non abbia un punto ma che sia una linea; per questo lo spettacolo non finisce.
Tra l’inizio e la fine dello spettacolo avviene un cambiamento, una sorta di prova di democrazia, un “luogo politico”. Per questo è importante il “metodo errante”: incontrare gli attori, i genitori gli insegnanti; la comunità diventa riconoscente e riconoscibile, lì mi pongo un problema di utilità. Prendiamo coscienza di quello che entra nell’essenza della relazione. Alla fine de La terra dei lombrichi, quando i bambini fanno la merenda, tanti adulti in quel momento piangono. Perché all’inizio i bambini arrivano sono tutti briosi e poi alla fine, quando hanno portato fiori dall’Ade, e hanno lasciato nell’Ade solo il “Lombricone”, portano su in qualche modo Alcesti. E anche il loro compagno che va con la morte nell’Ade, è lui che sceglie di andare.
Una volta una bambina brasiliana incominciò a piangere moltissimo perché la sua amica era andata con la Morte. Io mi sono avvicinata e ho detto: «Dove siamo? In teatro, stiamo giocando». E lei ha risposto: «Sì, ma è così finto che sembra vero». È quello che cerco anche io. Vedersi piangere stando dentro, questo io chiedo al teatro: essere adulti e chiedersi perché qualcosa ci abbia fatto piangere.
Per parlare di infanzia bisogna parlare di musica, cioè dello statuto della musica, della sua invisibilità. Faccio lo spettacolo, ma al contempo sono lo spettacolo. Per questo adesso con Tuffo – che è l’ultimo percorso che presenterò al festival Puerilia a Cesena – entrano solo venti bambini e gli adulti sono esclusi. I bambini escono con la promessa che nell’arco di una settimana “tufferanno” nel mondo una delle azioni fatte durante l’ora e mezza in cui siamo stati insieme. Il teatro irrompe nella realtà, però io accompagno la descrizione di Tuffo con l’immagine di Paestum del Tuffatore e si sa che quel tuffo è nel mondo dei morti. È così il rito, è fatto a strati.

Hai detto che hai bisogno dei bambini per parlare agli adulti. In Fiabe Giapponesi tu stessa, in qualche modo, impieghi i bambini per raggiungere gli adulti in sala, ai quali proprio ti rivolgevi. Qual è dunque il tuo referente? In che modo tutto ciò sposta la questione del destinatario?

Trasferiamoci nella scuola. Io devo insegnare a te Napoleone. Io ti fornisco degli input su Napoleone e tu insegni a me Napoleone. Vuol dire che l’insegnante non dovrebbe appoggiarsi alle tipologie, ai metodi tipici, ma l’allievo dovrebbe venire in soccorso alla sua impossibilità di dire tutto a proposito di Napoleone. Questo creerebbe una situazione dello “stare tra” e non comunicare “da… a”; significherebbe stare in quel mezzo, in quella possibilità. Anche se non si dice niente di comprensibile, resta una traccia di senso. Ma la scuola pota le tracce di senso: per esempio, le macchie nel quaderno non si fanno, ma ci sono alcune macchie che sono stupende. «Il chiasso è l’opposto del silenzio»; già la Montessori aveva detto che il silenzio è a sé e che il chiasso è un’altra cosa. Ti trovi a fare una domanda perché interroghi una persona; in realtà dovresti interrogare te stesso, perché se tu aspetti quello che già ti chiedi allora che interrogazione è? Perché è tutto inserito in una prospettiva mercantilistica.

Nella situazione che crei all’inizio nelle Fiabe Giapponesi, scegliendo i bambini e facendoli salire sul palco, attraverso i corpi dei bambini sulla scena è come se creassi un contesto che sembra essere quello adatto e necessario al discorso che intendi portare. Senza poi arrivare a definire una posizione esistenziale o filosofica di vuoto, assenza o volere/non volere. Tramite la presenza dei bambini sia in platea che sul palco, è come se si creasse un contesto per il linguaggio che presenti.

Se lo spettacolo fosse fatto solo da me, semplicemente non potrei mai farlo. Come farei, alla mia età, a metter su un costume di fronte a bambini che sanno giocare meglio di me? Per questo, secondo me, non si può fare uno spettacolo per bambini sotto ai sei anni. È impossibile perché hanno la magia dell’intuizione del gioco. Un bimbo di quattro anni lo intrattieni con le luci, dicendo «la mela è rossa…» – sto esagerando, ovviamente – ma dov’è la scoperta del teatro? Il primo teatro che fanno accade quando si nascondono dietro la spalla della madre e fanno “cucù”, è quello! E avviene quando la vicinanza adulto-bambino è molto stretta. Quando incomincia ad allentarsi, allora è necessaria la relazione del teatro. Io vado a inserirmi tra le due note – adulto e bambino – per poter creare una relazione, perché ai bambini l’arte non interessa, ai bambini interessa giocare, mangiare un gelato. Questo è un tuo problema adulto, perché tu vuoi dar loro un’altra possibilità di mondo, di immaginario, di scarto, di differenza, di attrito rispetto alla realtà delle cose e alla débacle che viviamo. Però questi bambini, laddove si innamorano, portano il fuoco del racconto, sono loro il racconto: il tuo racconto di Cappuccetto Rosso vive del fuoco negli occhi di chi ti ascolta. Quando portammo Buchettino in Giappone, dissi all’attrice giapponese di andare nelle scuole a raccontare la favola, dal momento che non sapevo quale livello di relazione avessero con la fiaba, infatti in Oriente i bambini non giocano più: non c’è più il gioco mimetico, che a dire il vero si è perso molto anche da noi. Infatti in un prossimo spettacolo vorrei svuotare la Sala Bianca del Teatro Comandini e mettere in scena una lotta tra cowboy e indiani, escludendo gli adulti perché siano i bambini poi a trasferire questa energia del gioco nella realtà. Un gioco sottile, perché dentro portano un’idea di morte, di presenza.

Un po’ come il vuoto e il “non volere” delle Fiabe Giapponesi, dove la domanda di fondo sta attorno alla possibilità di comprendere l’identità fra volere e non volere…

In Fiabe Giapponesi io ci sono, ma potrei non esserci e quando non ci sono, che forma ha il mio vuoto? Se provassi a rispondere direi cose molto intellettuali. C’è una frase che ricorre nello spettacolo: «La forma è il vuoto e il vuoto è la forma». In un’occasione un bimbo ha detto: «Il nulla è il deserto senza sabbia». Altrove un altro ha detto qualcosa di incredibile, quasi come se fosse Georges Didi-Huberman a parlare: «Il nulla è proprio nulla e su questo non c’è da discutere. Il vuoto, se scavi, in fondo qualcosa trovi». Che è esattamente la nostra visione di arte: non è la superficie… oppure sì, è quella superficie che si lascia vedere, non è qualcosa di trascendentale.
Qui secondo me si rivela la spiritualità del bambino, che non è infangata da una new age di elementi, è profonda, qualcosa che ti connette al tuo sacco nella pancia della mamma, a tutta la vita. Una bambina si avvicina alla nonna e dice: «Sai, ho alzato la mano per andare nella Terra dei Lombrichi con la morte». E la nonna me lo dice perché la mamma di quella bambina è in ospedale per un cancro alla testa. In Australia entrano gli spettatori, un vecchio distribuisce a tutti i bimbi tre fagioli, quindi entrano tutti con una mano chiusa a pugno: questo è un segno molto forte. Un bimbo è tornato indietro perché un altro era a metà della fila.
Come ci credono è incredibile… possono veramente diventare dei mostri. Non c’è niente di grazioso nei bambini, sono terribili, sono grandi antichi, però non bisogna aver paura di loro. O meglio: non bisogna aver paura delle nostre paure di fronte a loro, il problema è questo. Io sono dentro questi discorsi perché sto cercando di scrivere questo libro per l’editore Sossella, insieme a Lucia Amara, Teatro Infantile. Ho impostato il libro in modo tale che il mio scritto riguardi l’arte del teatro, la tecnica del teatro che porta a un teatro infantile. Non è quindi l’arte del teatro rivolta ai bambini, ma il teatro come poetica – tempo, spazio, azione – di fronte allo spettatore per eccellenza, che è un bambino. Rispetto a un bambino ho bisogno degli adulti: quindi l’infanzia potrebbe essere anche una categoria del pensiero. Non vedi più le cose escludendole, ma – per esperienza – le poni talmente dentro tale categoria che sopraggiunge il coraggio di individuare per la stessa cosa due diversi nomi. Il coraggio di spostarsi su diversi punti di vista, quello che affermava Florenskij: «Muovetevi, guardate una cosa da più punti di vista». Superiamo l’angoscia del dover fare qualcosa con un preciso obiettivo: «Devo fare questo!». Se mi dicono che mi producono uno spettacolo io rispondo: «No, prima faccio una prova, poi la vieni a vedere e decidi».

Siamo spesso portati a idealizzare l’infanzia come possibilità di recuperare una condizione più originaria, più pura. Ci pare che a una tale visione idealizzata ponga la paura come contrappeso: questo spettatore bambino fa paura. Se noi abitiamo quello stato ci facciamo paura…

È anche una questione molto pratica: Buchettino può saltare se i bambini fanno troppo chiasso e cominciano a prendersi a cuscinate, c’è un rischio effettivo. Oppure se cerchi di creare l’atmosfera delle fiabe e i bambini parlano… anche nelle replica di oggi a volte sembrava che non si riuscisse ad “afferrare la favola”, per cui ascoltavo i bambini e riprendevo le loro parole, le ripetevo in modo che ritrovassero l’attenzione. È strano, io sto raccogliendo molti esempi su questo. Le stesse fiabe fatte a Lubiana, in una stanza a quattro pareti, rappresentava un’altra difficoltà.  In quel caso il pubblico bambino entrava, separava i fagioli che erano a terra e ci ritrovavamo tutti seduti sullo stesso grande tatami, anche gli adulti, mentre tutte e quattro le pareti attorno, dietro cui si vedevano le figure  illuminate, continuamente in continuazione. Spesso sono uscita da questi spettacoli con le insegnanti arrabbiate, perché i bambini non alzavano mai la testa e quindi, secondo loro, non vedevano lo spettacolo. E invece i bambini erano attentissimi, perché quando c’era l’apice della favola, si fermavano per alzare la testa e seguire. E allora ho risposto a quelle insegnanti: «Secondo voi quelle stesse immagini non le vedevano tra i fagioli?». Perché dobbiamo guardare tutti lì? Per l’utilità? Perché sennò si disperde? Che cos’è l’utilità? Che cos’è la perdita? Quindi è strano questo pubblico, perché è un pubblico bambino: anche io idealizzo l’infanzia, ma allo stesso tempo so che è terribile. Non sai quante volte l’ho detestata. Una volta in Buchettino a Bari avevano raggiunto un tale livello di confusione che dovevo mollare. Io non posso richiamare al silenzio: sono un’attrice, non posso fare la maestra. Stavo dicendo: «Va bene, ci fermiamo qui, non c’è possibilità di fare lo spettacolo». L’attore di fronte a un bambino non può limitarsi a fare la propria parte, pretendendo che il bambino ascolti, deve continuamente raccogliere e stabilire una relazione. Lo stesso movimento che fa la voce con le parole: sono andata giù, vado su, sono andata di qua, vado di là. È un grande movimento, una grande erranza. A un certo punto, cercando di inventare qualcosa, mi sono messa in piedi e ho cominciato a girare su me stessa come una trottola, un movimento assurdo: si sono zittiti tutti. Da quel momento ho detto: «Quando alzo un dito fate chiasso, quando lo abbasso fate silenzio», perché loro avevano bisogno di fare chiasso. Quindi è una difficoltà in atto, che credo che gli insegnanti affrontino quotidianamente. È chiesto tanto a un insegnante, per questo il teatro è interessante per la scuola, perché tra scuola e teatro non c’è grande differenza nel tipo di relazione. Si può dire che il teatro è una finzione, la scuola no, anche se in realtà in qualche modo finge anche la scuola, perché l’insegnante non è se stessa quando insegna: ha una distanza, una postura, un comportamento. Quindi questa idea di finzione, di inganno, di artificio è interessante.

È interessante questo pregiudizio per cui i bambini che non si concentrerebbero mentre cercano i fagioli: ci sembra invece che sia proprio il principio della narrazione, si è sempre narrato facendo qualcos’altro…

Esatto, è proprio questo che accade. E poi non si trattava di storie raccontate ai bambini, quelli si addormentavano. Le fiabe erano per gli adulti, come fece Tolstoj quando raccolse nelle sue Storie anche i racconti di animali, oltre alle favole di Esopo che raccoglieva dalla bocca delle persone. Nella narrazione c’è un desiderio di conoscenza, di precisione, quasi matematica. La parola dice questo: desiderio di apprendere. Comenio, che fu il primo pedagogista, parlava proprio di “matesi” e “matetica”, questa capacità di dire l’invisibile attraverso il visibile. Sto lavorando molto su questo, come i disegni astratti del libro sulla voce. Sono grafici che apparentemente non dicono niente e invece contengono tutto. Sono segni che non capisci e invece sono fondamentali. C’è un musicista che ha fatto una cosa analoga, Neuhaus: ha esposto dei disegni che sono, visivamente, il suono che lui ha prodotto ma che non ha potuto registrare perché in condizioni estreme. Sono dipinti che, mentre guardi, ti fanno sentire la musica. Allo stesso modo se tu guardi il bambino, gli parli ma senti la musica, il suono che produce, la vibrazione. C’è un libro di Carla Melazzini (progetto Chance dei Maestri di Strada di Napoli) che parla di questo e che mi sta tornando molto utile, Insegnare al Principe di Danimarca. Si parla di una difficoltà oggettiva: bambini di terza media che devono recuperare un anno di scuola per il diploma e vanno dunque motivati, si devono cioè innamorare della relazione. È una difficoltà vera nei quartieri più malfamati di Napoli. È importante chiedersi perché dobbiamo portare a teatro i bambini? Che cosa voglio dire loro? Li vuoi spaventare? No. Farli felici? Nemmeno, non ho nessun potere. In queste fiabe non c’è un lieto fine, ma nel percorso – sempre in avanti – “povero, ricco, povero” c’è la filosofia zen, quella filosofia orientale di cui l’Occidente è stato impregnato, ma che ora sta perdendo. Un sentire e una conoscenza popolari che sono però stati esclusi dal nostro orizzonte. John Cage attingeva molto da lì. Perché il silenzio è musica? Perché c’è stato Cage, ma perché non è popolare questa cosa? Perché il rumore è musica? Perché non è popolare? Perché c’è un’isteria che dice che il rumore dà fastidio. Come si può andare davanti a un bambino e scimmiottare l’infanzia? Bisogna abbattere la tradizione. Questa è la nostra storia, sono le nostre ossa, sono i nostri muscoli del pensiero.

a cura di Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Manovre di uscita dal contesto. Seconda istantanea da Teatro fra le Generazioni

Immersi come siamo in un contesto di rappresentazioni mediatiche sempre più allo stato gassoso, ci si chiede come il teatro che si rivolge all’infanzia sia in grado di “farsi riconoscere” nella sua specificità. Se tutto è rappresentazione, se quella che chiamiamo finzione ha smesso di marcare una distanza rispetto all’esperienza quotidiana “non mediata”, che ruolo o posizione può avere il teatro? Gli studi antropologici hanno spesso insistito sul concetto di “differenza”, provando a rintracciare uno specifico che solo il teatro possiede; seguendo questa pista si finisce nei pressi degli studi della relazione teatrale, isolando un “modo” dell’essere spettatori tipico del teatro, verso quella compresenza fra corpi che potrebbe (o dovrebbe) inevitabilmente interrogarci sul nostro corpo, e cioè sullo sguardo. Chi stiamo guardando, e dunque come lo guardiamo? A teatro il corpo si fa sguardo e lo sguardo attraversa dei corpi, quelli degli attori e dunque anche il nostro. Uno sguardo-corpo che si confronta con l’altro da sé e nella migliore delle ipotesi arriva a domandarsi qualcosa su di sé.
Uscendo dalla prospettiva antropologica ci si potrebbe domandare: che cosa si può comunicare, trasmettere, raccontare solo col teatro, e con nessun altro linguaggio dell’arte?
KanterStrasse, giovane compagnia aretina, ha presentato ieri Amletino, per la scrittura di Simone Martini e con Luca Avagliano, lo stesso Martini e Alessio Martinoli.  Quella di Amletino è una risposta che coniuga le questioni archetipiche del classico, trasmesse per strati a un pubblico misto composto da bambini e adulti, con la sua contestazione ottenuta per via attoriale. Da una parte Amleto, il potere, il torbido della famiglia, la regalità, in un andamento narrativo che sostanzialmente preserva l’ossatura dell’intreccio, mettendo in scena il Principe nella sua pensosità, grave e dubbioso e tormentato ma anche tutti i personaggi che fungono da “contorno”, a partire dalle coppie che diventano inesorabilmente “comiche”. Perché dall’altra KanterStrasse lavora quasi a minare le pretese della trama, l’ordine costituito, la confezione, contornando appunto la vicenda amletica di sequenze irresistibilmente comiche, al limite della gag non-sense e dello slapstick. Sospendendo dunque la trama e creando dei varchi squisitamente attorali, nei quali è l’attore, la sua tensione a destrutturare le pretese della trama a “farsi racconto”. Martini e Avagliano si muovono nei panni di un fantino-Claudio con frustino e casco e di una Gertrude che al posto della testa ha un foglio di carta con disegnato un cuore, fingono partite a Squash nei panni di Rosencratz e Guildenstern, diventano becchini che pescano e acchiappano farfalle dicendo che lo stanno facendo per finta, cioè “per assurdo”, si improvvisano guitti di fronte ad Amleto nella celeberrima sequenza del Principe che funge da protoregista dando consigli di recitazione, nel celeberrimo passaggio del teatro che dovrebbe “reggere lo specchio alla natura”. Certo il confine fra sovversione della norma (del classico e della trama) e sua “sospensione” per ottenere un ingaggio costruito su raffinati espedienti comici è molto sottile e comunque scivoloso.

Ritornando alla necessità di raccontare attraverso il teatro La regina delle nevi, battaglia finale di Renzo Boldrini e Michelangelo Campanale, già dal titolo, ci dice qualcosa del punto di vista che i due autori hanno voluto adottare per mettere in scena un classico della fiaba. La regina delle nevi di Andersen arriva agli spettatori come una storia a metà tra la biografia della protagonista e il ricordo dei racconti della nonna. Come si tratta un classico a teatro? E perché? Che cosa può dirci di più? Italo Calvino, com’è noto, scriveva che un classico non smette mai di dire ciò che ha da dire e che, per il suo configurarsi come «equivalente dell’universo», è capace di parlare a tutti e che «Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui».
Queste parole sembrano adatte per osservare il lavoro di Boldrini e Campanale, che hanno raccontato piuttosto come gli effetti della fiaba continuino a lavorare nell’inconscio di un’adulta ancora imbrigliata nei fili della fanciullezza. Si tratta di un inconscio complesso, che ospita ora ritmi e movenze bambine, ora compie salti di maturità vertiginosi, come a voler fuggire quella natura infantile incastrata tra istinto imprudente e cieco coraggio.
La vera «battaglia finale», allora, sembra stare proprio qui, nel limbo tra due età che si parlano senza mai riconoscersi del tutto. E questo permette alla protagonista, da una parte, di dialogare senza giudizio con i propri ricordi di bambina; dall’altra, però, la costringe in un limbo emotivo che si risolve soltanto nel momento in cui avviene per lei una trasformazione, che coincide con la capacità di rielaborare un racconto a lei tanto caro e in qualche modo ancora presente.
La strategia che mira a dar forma a queste complessità sembra essere – un tratto tipico nella poetica di Campanale – quella di ricorrere al mezzo del teatro come linguaggio composito e sempre fuori formato. L’impiego di una scena profondamente curata, crossmediale, intelligentemente divisa per ambienti che, ad abitarli, si spalancano dimensioni di luogo, di tempo e di senso; la chiamata a un teatro fieramente al massimo delle proprie forze; l’attenzione al mestiere d’attore come strumento di comunicazione primaria.
Un armadio al centro della scena sembra voler mettere in connessione il mondo adulto con quello dell’infanzia, una sorta di porta spazio-temporale, varcata la quale è possibile sciogliere gli antichi nodi della propria interiorità. Oltre la porta, l’intimità della protagonista, che si prepara per la battaglia finale con le proprie paure; una sedia grande per l’adulta, una piccola per la bambina: il gioco dell’attraversamento e delle dimensioni sovrapposte ricalca una dinamica di attenzione che dà alla fiaba il potere di parlare a ciascuno spettatore, che può trovare legami personali con i dedali della storia. E così è forse possibile non lasciarsi ingoiare dal contesto di uno festival pensato (solo) per i bambini: ognuno incontra e supera paure personali, come a riprendere un discorso per, finalmente, completarlo.

Una delle grandi questioni del teatro per le nuove generazioni di questi ultimi anni riguarda le modalità con cui si concepisce e si ritrae un mondo che possa essere riconoscibile per lo spettatore bambino. L’immaginario è l’orizzonte su cui si incontrano l’enunciato dell’artista e la disposizione di chi guarda, il gioco di leve e forze contrapposte necessario a crearlo e a consolidarlo può persino diventare il centro del processo artistico medesimo.
Di certo la compagnia ScenaMadre si era posta di fronte a questo dilemma nel pensare La stanza dei giochi (vincitore del Premio Scenario Infanzia 2014 – ex aequo con Fa’afafine di Giuliano Scarpinato), che metteva in scena due bambini ribaltando «la consuetudine del teatro ragazzi interpretato da adulti», si leggeva nelle motivazioni della giuria. L’effetto in qualche modo straniante, che aveva messo in allerta molti operatori e mediatori, sembra ora aver portato la compagnia a un ripensamento sulla gittata della sfida: sul palco per Compiti a casa (prodotto insieme a Gli Scarti) ci sono Marta Abate e Michele Moretti, ancora una volta adulti che interpretano bambini.
Creare la cameretta dei due figli di una giovane coppia che si avvia verso il divorzio è un processo rapido e indolore. I pochi elementi sono quelli che tutti abbiamo già in mente: lettino, tappeto da gioco, lavagnetta, matite colorate, macchinine. Ma è questo il vero immaginario da creare? A tratti rischia di sembrare una scappatoia verso riferimenti simbolici più semplici, mentre il punto starebbe proprio di là dal guado di ragionamento che lo spettacolo non riesce davvero a sorpassare: che rapporto c’è tra età adulta e bambini? Chi parla a chi? Con quali parole? O con quale immaginario?
Il teatro ragazzi si trova sempre di fronte a una sfida fondamentale: la relazione con il proprio interlocutore, che rappresenta ciò che un tempo siamo stati e ora non siamo più. Il ripostiglio disordinato – e invisibile al pubblico – diventa il luogo di uno strano esperimento che intende riportare la luce in un appartamento poco illuminato e quindi nella vita della famiglia. Si fa però di nascosto, in un luogo dimenticato, senza il quale, tuttavia, nulla potrebbe realizzarsi.
È davvero possibile parlare “ai” bambini lasciando una traccia di senso? O forse bisognerebbe piuttosto pensare di parlare “con” i bambini, mettersi dalla loro parte e riscoprire ciò che è depositato nel nostro “ripostiglio”, che proprio come quello dello spettacolo è sempre disordinato, ci si mettono tutte le cose che restano sospese, le cose da buttare via o quelle mai utilizzate.

Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Carte di identità. Prima istantanea da Teatro fra le generazioni

Relazione. Questa la parola chiave, sempre e comunque, quando si ha a che fare con il teatro, con la sua dinamica, con la sua energia di propulsione emotiva, intellettuale, materiale. Se nel mondo di oggi è sempre più lontano il pensiero dicotomico su dimensione online e dimensione offline, se nella società iperconnessa e “ipercomplessa” il filosofo Byung Chul-Han sottolinea un’impossibile distinzione tra “qui” e “altrove”, è nel luogo della comunità che un qualsiasi cammino creativo può incaricarsi di un processo direzionato.

Nella mattinata di apertura di questo Teatro fra le generazioni 2018 abbiamo assistito a tre diversi esempi di relazione fondamentale del teatro. Alice nella scatola delle meraviglie (in anteprima al festival) installa l’attenzione degli spettatori su una scena di pareti modulabili che, aprendosi e chiudendosi, ricostruisce Wonderland in un labirinto di simboli. L’abitazione di questo dispositivo scenico non sempre riesce fluida e, complice il piccolo spazio, le due attrici (una per Alice e per il Cappellaio Matto, l’altra per lo Stregatto) sgusciano al meglio dentro porte e finestre, maneggiando sagome e oggetti multicolori. Di certo spicca una ricerca sulla visione del racconto, riorganizzata in una dinamica alternativa che sottrae alle attrici il compito di fare “scene madri”, consegnandolo alla scenografia (vincitrice del Premio Otello Sarzi). E tuttavia resiste con forse troppa tenacia l’ispirazione disneyiana, che allontana una restituzione chiara del poema di Lewis Carroll, concentrando l’attenzione in maniera a tratti discontinua.

Pur se molto distanti per linguaggio, Con me in Paradiso di Teatro Periferico e Fiabe Giapponesi di Societas/Chiara Guidi hanno invece saputo creare, tra scena e platea, le pareti elastiche di un parlamento politico. Non politico partitico, ma interessato a una politica della visione. Il primo porta sul palco del Ridotto un’originale operazione di innesto drammaturgico. Il testo di Mario Bianchi – che è innanzitutto uno dei “maestri” della critica e del racconto del teatro ragazzi – rielabora l’episodio neovangelico di Zaccheo in un confronto tra un italiano e un immigrato e viene poi attraversato in una scrittura scenica dal drammaturgo Dario Villa, che entra dentro al racconto per mostrare, in uno squarcio metateatrale, le reali problematiche di un laboratorio da lui condotto con un gruppo di migranti. Abdoulaye Ba, Mauro Diao e Siaka Konde riescono a non essere tanto la personificazione del migrante, piuttosto – grazie a una presenza disincantata e generosa – un esempio di procedimento critico tra contenuto e forma. Così l’impostazione didattica – certe volte sorprendentemente impietosa nei confronti dei soliti stereotipi sull’alterità – sguscia via dalla retorica e dà senso a un’abitazione dello spazio che non cerca la pulizia ma predilige la chiarezza, impreziosita a volte da tagli di luce e tableaux vivants.

Un’apertura politica ambiziosa e sottile, invece, è ciò che può permettersi un’artista come Chiara Guidi, immersa da sempre in una ricerca che dal faro tecnico-poetico del mezzo teatrale fa luce sulla “puericultura”, sulla geografia epistemologica dell’infanzia e sulle sue complesse tassonomie. Le Fiabe Giapponesi sono un rituale che proprio nella relazione trova e rafforza il nervo della riflessione su questi segmenti di pubblico.
Sul palco principale del Teatro del Popolo nove bambini e bambine – indossato sul proprio grembiule una divisa di carta – vengono letteralmente impiegati dall’attrice cesenate nella separazione di mucchi di fagioli chiari e scuri. E lì rimarranno, inginocchiati attorno al basso tavolo che è la loro fabbrica, tra tre pareti diafane dall’intelaiatura esposta, illuminati da tubi di neon, sempre in attività, testa china che si alza all’occorrenza, a seguire il racconto. Tre fiabe tradizionali nipponiche – una verde, una blu, una rossa – vengono letteralmente “afferrate” da Guidi e rivivono in dialogo con l’ombra di un sovra-narratore umanoide che appare e scompare e con sagome stilizzate.
Arduo ricostruire in poche righe il complesso percorso di senso che questa drammaturgia altamente razionale riesce a evocare: si affrontano questioni esistenziali (differenza tra nulla e vuoto, coincidenza tra l’atto di volere e l’atto di non volere), ci si incammina su una traccia di filosofia Zen, in una didattica continuamente «errante», come desidera l’autrice. Appena sembra che lo spettacolo punti un nodo, la pratica della relazione mette alla prova la platea di adulti e bambini andando a scioglierne un altro. L’attrice parla quasi sempre in ombra, un paio di volte siede in platea per «guardare lo spettacolo», lanciando segnali sul problematico statuto della presenza. Siamo qui, ma potremmo non esserci. In questo esperimento di relazione noi guardiamo, ma soprattutto ascoltiamo, inseguendo la meticolosa partitura vocale alla ricerca di un modo per smettere di cercare. Come in quella favola Zen in cui il monaco, appeso al ramo che, cedendo, lo precipiterà nelle fauci di una tigre affamata, sceglie di sporgersi ad assaggiare l’ultima mora. «Com’era dolce».

La seconda parte del festival si è svolta all’insegna di uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo: la carta. Si tratta di una produzione di Sacchi di Sabbia dal titolo Sshhhh! Pop_up teatrali e Corti di carta di Riccardo Reina, prodotto dal Teatro delle Briciole.
La suggestione provocata dai due spettacoli è sicuramente legata all’effetto visivo della carta che, nel caso di Sacchi di Sabbia, è presentata sotto forma di libri pop-up che i venti spettatori, ai quali le tre performance sono destinate, sfogliano insieme agli attori. Con gesti lenti e delicati le pagine dei libri si susseguono per raccontare il percorso teatrale della compagnia, che sui libri pop-up ha incentrato gran parte della propria ricerca teatrale. I libri selezionati sono stati infatti precedentemente costruiti per performance site specific o per spettacoli mai realizzati ed è la stessa compagnia che, facendo scorrere su uno schermo bianco delle informazioni per gli spettatori, precisa che condivideremo anche i loro fallimenti. La parola fallimento, però, sembra davvero quella meno appropriata per descrivere un lavoro suggestivo come quello di Sacchi di Sabbia. Quattro mani, un libro e della musica. Agli spettatori non è servito altro per prendere parte a un viaggio emozionante e solitario, eppure da vivere insieme agli altri.
Carta da disegnare, da scrivere, da leggere, a voce alta o per sé, da stracciare, da ricomporre o semplicemente da contemplare… La carta, da sempre, per le sue caratteristiche, permette di relazionarci con essa fisicamente, ma anche di perderci nei segni che accoglie. Di fronte alla carta, che dialoga direttamente con la nostra interiorità, siamo nudi, soli con il nostro immaginario, che ne incontra un altro e ne produce ancora in un ciclo di stupore, scoperta, nutrimento.

La carta che diventa ispirazione e disperazione, come tutte le cose che d’improvviso colpiscono a fondo e ci svelano un segreto. È il caso del primo dei tre Corti di Carta di Reina, in cui un uomo siede a una macchina da scrivere che, all’improvviso, come se entrassimo nella testa dello scrittore ispirato, comincia a produrre non più i classici suoni metallici dei tasti, ma note musicali. L’uomo, però, sembra non essere mai soddisfatto di ciò che scrive e si sbarazza, puntualmente, dei fogli che riempie, accartocciandoli e lanciandoli dietro di sé, fino a formare una montagna di carta che sembra assumere le sembianze di una Musa meravigliosa e terribile, perché misteriosa e inafferrabile, proprio come il fuoco della creatività.

Nella Califano e Sergio Lo Gatto




Radio Planetarium – Podcast quotidiani

Il podcast quotidiano dal festival Teatro fra la generazioni, a Castelfiorentino, dal 21 al 23 marzo 2018. Nella puntata di oggi si parla di e con Chiara Guidi, Flavia Armenzoni del Teatro delle Briciole e si raccontano gli spettacoli della prima giornata di festival.

Ai microfoni Nella Califano, Lorenzo Donati, Sergio Lo Gatto




Sporgersi di fronte all’abisso. Sulla necessità del teatro ragazzi

In un presente che ha relegato l’infanzia a categoria merceologica e che spesso la considera condizione da superare, di Teatro ragazzi occorre parlare e discutere; in un sistema teatrale che riconosce e finanzia le arti rivolte all’infanzia attraverso specifiche voci di decreti, di teatro ragazzi occorre occuparsi; considerando poi un andamento storico che, a partire dagli anni ‘70, vede gli artisti italiani “uscire dai teatri” in cerca di nuove domande e ossigeno, per rigenerare il teatro e la società, di teatro per e tra le generazioni occorre necessariamente occuparsi, in cerca dei fili nel presente che ci riportano a quella vocazione “fondativa”.

Questi e altri motivi immediati ci fanno affermare che il teatro ragazzi va seguito da vicino, dismettendo una colpevole disattenzione della quale pochissimi possono dirsi immuni (come il maestro Mario Bianchi). Dal canto opposto però non va fatto l’errore di pensare al teatro ragazzi come a un’arte della quale si possa discettare senza rinnovare gli strumenti della critica teatrale. Di teatro che si rivolge all’infanzia ci si deve occupare provando a nutrirsi di domande almeno in parte di provenienza pedagogica ed educativa, perché altrimenti rischiamo di fare un’approssimazione potenzialmente dannosa. Il pubblico di questo teatro non ha scelto di stare a teatro, c’è sempre qualche adulto che sta operando una scelta in sua vece; il pubblico di questo teatro è un pubblico che sta crescendo, dunque l’esperienza artistica non può che entrare a far parte del percorso di crescita dei bambini e adolescenti, magari per contestare le loro domande sul mondo e le nostre domande educative, o spaesarle e confermarle e aprirle.
Che possa esistere – o che per certi versi anche “debba” – una vocazione a rivolgersi all’infanzia ci pare dunque importante e cruciale, se per infanzia intendiamo la tensione a porsi una domanda sull’origine. Infanzia, o “ragazzi”, dunque non come categoria da intrattenere accomodare e divertire (anzi: mai da intrattenere accomodare divertire se è solo questo lo scopo di fondo), ma come occasione per domandarci qualcosa sull’origine delle cose, rimettendo al centro collettivamente le grandi domande dell’esistenza. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perché moriremo, cos’è l’amore. Abbandonando magari certe pretese estetiche “adulte”, che a volte rischiano di trasformarsi in pretenziosità. Avendo cioè il coraggio di ritrovare anche una forma “gioiosamente infantile” con cui porci quegli interrogativi, una semplicità che non sia semplicismo. In una piccola inchiesta che abbiamo condotto l’anno scorso, Simone Guerro diceva che trattare “tematiche difficili” con i bambini significa «trovare la matrice da cui le cose partono e si diffondono», negli automatismi del pensiero in primo luogo, nella società, fin quasi nell’immaginario collettivo di un’epoca.
Vista da questa prospettiva, l’etichetta del “teatro ragazzi” non solo è chiara e immediatamente utilizzabile, ma può individuare una tensione da incoraggiare e un’area da praticare, anche da chi non l’ha mai considerata, anche da parte di chi pensa di non esserne “titolato”. Perché, come sostiene Piergiorgio Giacchè nel suo importante saggio, prima che diventasse un “servizio” l’animazione teatrale e le sue forme storiche (fra le quali il teatro che dialoga con l’infanzia) sono state e possono tornare a essere il manifestarsi nell’arte di una domanda sul proprio senso, a un tempo dolorosa e non nichilista. Vista da questa prospettiva, ci sia concessa un’amichevole polemica con la provocazione di Renzo Francabandera, quando propone la nuova etichetta di “teatro ad alta accessibilità”. Quella di Francabandera è una sollecitazione che ha il grande merito di tenere acceso un dibattito che pochi scelgono di praticare (segnaliamo anche in questo senso l’intervista a Tam Teatro Musica firmata da Renata Savo su Scene Contemporanee, oltre all’importante contributo di Mario Bianchi su ateatro sui tabù). Ma, segnalto il merito del dibattito ed entrando nel merito della questione, ci sentiamo di dire: altro che accessibilità! Quando ci poniamo le domande dell’origine stiamo facendo un’operazione di complessità, ci stiamo affacciando sul vuoto, stiamo prendendo per mano i bambini, i ragazzi, i giovani e insieme a loro stiamo guardando l’abisso. Di fronte a un abisso si piange, si ride, ci si commuove e ci si dispera. Torniamo allora a parlare delle grandi questioni che ci legano, come umani, e non di un’accessibilità che rischia di incoraggiare, alla lunga, la percezione di una spettatorialità incapace di raggiungere certe vette, alla quale va facilitata la comprensione rimuovendo ostacoli e barriere. Dovremmo allora probabilmente dismettere il concetto stesso di accessibilità culturale, non quello di teatro ragazzi, un concetto che deve continuare a farci discutere e a discutersi, senza ritenersi in pace con se stesso, “contestandosi” dall’interno per provare a uscire dal ghetto che anche per proprie colpe è stato creato negli ultimi decenni. Sapendo che per uscire da questo isolamento è necessario porsi domande difficili, non semplificate: se la cultura è quello che ci tiene insieme, rarissime volte questa sarà un pranzo di gala, quasi sempre invece si rivelerà un processo complesso, denso, faticoso. Un sentiero ripido da scalare e pieno di insidie, ma quanta aria circola quando siamo lassù insieme di fronte all’abisso! Di abissi accessibili non se ne sono mai visti.

Lorenzo Donati




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Suono

di Mirto Baliani

Amo pensare che alla parola suono debba necessariamente essere associata la parola ascolto. Non può esistere un suono senza ascolto, più precisamente senza un attento ascoltatore che permette al suono ascoltato di divenire suono sentito. Un suono che nel giungere all’orecchio è in grado di modificare il nostro essere, di emozionare questo nostro corpo quando accetta di entrare in vibrazione con il mondo che lo circonda.

Il nostro apparato uditivo è di per sé un risonatore, risponde ad una sollecitazione esterna data dalla pressione che le onde sonore applicano all’aria. All’interno dell’orecchio si attiva una serie di micro movimenti fisico/meccanici che poi vengono tradotti in impulsi elettrici interpretabili dal cervello. Quando diciamo “ascolto” il nostro corpo è già entrato in sintonia o meglio sta simpatizzando con l’esterno. L’orecchio lo fa automaticamente mentre il cervello arriva in un secondo momento, in ritardo di millesimi di secondo. L’era che abitiamo, densa di iperstimolazioni sensoriali, ha dilatato questo tempo di reazione fino all’estremo punto di non reazione, in una sorta di autodifesa messa in atto dal nostro cervello eccessivamente stimolato. Si resta sempre più indifferenti a certi stimoli sonori, come si attivasse uno spietato censore che, filtrando il magma sonoro in arrivo, ritrova interesse soprattutto e purtroppo in elementi già conosciuti e decodificati in precedenza. Il suono nuovo, diverso o strano, viene sempre più spesso archiviato come disturbo, mentre quello delicato, fatto di piccole melodie nascoste nella natura, viene identificato come “rumore di fondo”, fruscio. Eppure la natura suonava prima di noi, il suono è sempre esistito a prescindere dall’uomo e sempre lo ha affascinato e interessato (oggetto anche ora di questo mio scrivere e di questo vostro leggere). A sua volta, l’uomo grazie alla conoscenza sonora che andava acquistando, ha imparato nei millenni a destreggiarsi nella natura, a orientarsi, a difendersi. Un bambino nato in una giungla sarà istintivamente allenato all’ascolto: quell’ascolto che potrà determinare la sua vita, allertandolo ad esempio rispetto a un pericolo.

Oggi accade l’esatto opposto: le nostre orecchie sono oramai atrofizzate dall’eccesso di rumori. Il cervello fa il possibile per censurare quelli più costanti: non percepiamo più il rumore delle auto che passano nella strada sotto casa come pure il suono strisciante degli elettrodomestici che aspirano, lavano e cucinano al posto nostro, ma ciò nonostante, ci ritroviamo un apparato che pur perfettamente funzionante non riveste più il ruolo di un tempo, ovvero quello di farci scoprire il mondo, di aiutarci a codificarlo.

Quando nei laboratori mi capita di lavorare con i ragazzi, li spingo da subito a esercitare un “altro udito” con una serie di esercizi in grado di stimolare (e riscoprire) questo tipo di percezione. Spesso inizio gli incontri chiedendo ai partecipanti di chiudere gli occhi e scandagliare il silenzio che li circonda. È un silenzio contaminato, dove suoni di diversa natura, intensità e distanza si incrociano e si sovrappongono. Chiedo loro di isolare mentalmente tutti i singoli suoni che sentono in quel “silenzio”, poi di sceglierne tre e in seguito di trovare le parole per descriverli agli altri. Nulla a che vedere con quello che si può sentire o meglio provare nel silenzio assoluto e destabilizzante di una camera anecoica, dove si può raggiungere il punto massimo di ascolto del proprio corpo. In quel luogo totalmente privo di interferenze esterne, possiamo renderci conto di quanto noi stessi siamo produttori di suono: il cuore che pompa, il sangue che scorre, le membrane che si dilatano, la saliva che scende nell’esofago, e così via. Si tratta ovviamente di un esempio estremo, ma anche solo l’esercizio quotidiano all’ascolto, come dicevo prima, di un più reperibile “silenzio”, porta da subito all’interno del gruppo di lavoro un aumento della concentrazione, una maggior centratura della persona e, per conseguenza, un più attento ascolto dell’altro.

Ho sempre pensato che in un ensemble sia preferibile avere un buon grado di ascolto e sinergia tra gli elementi, piuttosto che eccellenze in grado di mirabili virtuosismi ma scollegate l’una dall’altra da uno scarso ascolto. Sono certo che quanto detto sia applicabile a qualsiasi gruppo di persone anche al di fuori delle discipline artistiche, in un ufficio come in una squadra di calcio ma forse ancor più calzante se pensiamo ad una classe di bambini o ragazzi, ancora in grado di trasformare questa esperienza in “materiale vivo”, per la vita a venire.

Mirto Baliani esplora il mistero del suono attraverso numerose attività: è musicista, compositore, sound designer, illustratore e dj. Ha composto per numerose produzioni di teatro, danza, video-documentario, programmi radiofonici, mostre e performance. Nei suoi progetti Fuocofatuo (2012) e China vs Tibet (2014) ha esplorato il rapporto tra suono e immagine, tra udibile e visibile.