“La guerra dei bottoni” o la fine dell’avventura. Qualche domanda su tabù e luoghi comuni del teatro ragazzi

Fa una certa impressione veder portato (o per meglio dire ri-portato) in scena un romanzo d’avventura come La guerra dei bottoni di Louis Pergaud. Che il teatro ragazzi abbia guardato spesso ai romanzi d’avventura per messe in scena originali è cosa nota, e anche ovvia. D’altronde almeno per un paio di secoli i romanzi d’avventura sono stati i testi di formazione e di evasione per moltissime generazioni di ragazzi. Tutto normale? No, al contrario. Di fiabe se ne vedono sempre tante. La fiaba anzi diventa spesso l’occasione per aggiungere interpretazioni, variazioni, attualizzazioni. Invece la presenza dei racconti d’avventura tende a diminuire così tanto che, quando riappare, suona come una campana stonata.
La guerra dei bottoni di Tib Teatro (per la regia di Giuseppe di Bello, con Massimiliano di Corato, Andrea Lopez Nunes, Caterina Pilon) è costruita secondo moduli narrativi forti, segue modalità rappresentative coinvolgenti ed è ben sostenuta dal lavoro degli attori. È uno spettacolo che si è meritato una lunga vita, con centinaia di repliche alle spalle e molti anni di tournée. Per noi è un ottimo pretesto per provare a ragionare sul genere d’avventura a teatro. Si racconta infatti di bande di ragazzini che si sfidano a colpi di fionda e bastonate. L’epilogo è la punizione di genitori furibondi che per calmare gli spiriti ed educare i propri figliuoli tirano fuori la cinghia dei pantaloni e non risparmiano frustate. Siamo nella società contadina francese di fine Ottocento. I ragazzini si arrampicano sugli alberi e costruiscono le proprie fortezze dentro il bosco. Si muovono per bande e giocano alla guerra. E così crescono. Tutto normale, verrebbe da dire; ma fermandosi un attimo a osservare con distacco quel che accade, l’impressione è l’acuirsi di una distanza. Il mondo descritto appare così lontano che per noi è più facile relegarlo nelle pagine scritte della finzione letteraria. Se lo si prendesse sul serio, questi ragazzini oggi sarebbero tutti soggetti BES, tipici bulletti di provincia, bisognosi di insegnanti di sostegno. I genitori poi verrebbero seguiti dagli assistenti sociali, se non proprio rinchiusi in gattabuia per violenza domestica su minori. Dunque verrebbe da chiedersi: un mondo incivile contro la nostra civiltà? Oppure si stava meglio quando si stava peggio? Domande oziose a dire il vero. Il fatto è che, in cento anni, è cambiato il mondo intero. A parte due guerre mondiali, il Novecento è stato il secolo in cui, citando le parole di Kapuscinski, si è compiuto il “genocidio dei contadini”. E di conseguenza ogni cosa è mutata.
Eppure anche tutto questo è ormai Storia. La nota stonata non riguarda lo spettacolo e in fin dei conti nemmeno il romanzo messo in scena, anche se il bosco della campagna francese appare alla stregua del mare in tempesta dell’Isola di Mompracem di Salgari. La nota stonata suona dentro di noi, cioè nella ricezione. Di fronte alla recente produzione del teatro ragazzi l’impressione è che non sia il romanzo d’avventura in sé a essere desueto, ma la sua ossatura formativa. Ciò che si fatica a rintracciare sulla scena è la dinamica dello scoprire, esplorare, conoscere; superare i pericoli, instaurare amicizie, combattere; avere coraggio. E ancora: costruire di nuovo amicizie e avere un contatto purchessia con la natura. Dolore e gioia. E poi si cresce. Infine si può tornare a casa. C’è una famiglia da cui si parte e a cui si torna. Una famiglia che premia o che punisce, comprensibile o ottusa, ma presente. Si sbaglia e si cresce. Amici, fatica, scoperte. E si cresce. Questo percorso sembra essere diventato così accidentato e frastagliato che l’attenzione della produzione teatrale di oggi pare a volte essersi concentrato più sulle zone d’ombra, sulle fragilità, sulle interruzioni, che non sulla gioia dell’andare avanti. Eppure in senso lato l’avventura non è altro che una forma intensa del compiere esperienza. Come può risultare invecchiata la forma esperienziale?
Si dice spesso, che vigono dei tabù nel teatro ragazzi. Ed è verissimo (così come se ne trovano tanti nel mercato editoriale per i più piccoli). Spesso questi tabù derivano da miopie, paure, incapacità, furbizie e pregiudizi. Un buon teatro ragazzi deve avere il coraggio di andare controcorrente e affrontare in modo intelligente anche i temi di cui poco si parla. E ci sono esempi mirabili, anche in questi ultimi tempi.
Però nell’elenco dei tabù del teatro ragazzi (al cui primo posto c’è sempre la morte) rischia di scivolare pure la “vita” e la gioia della crescita. L’ossatura formativa, composta di fatica, pericoli, sforzo, ma anche grande vitalità ed esperienze, sembra essere stata messa da parte o simbolizzata/psicologizzata talmente tanto da apparire come ombra confusa.
I tempi stanno cambiando molto velocemente e certi esempi di radicalità a volte rischiano di apparire come luoghi comuni. Più che altro quando si dice radicalità e contemporaneo si entra subito in questioni formali, stilistiche e autoriali, mentre queste dovrebbero essere coniugate alla ricerca di senso e alla capacità di avere un progetto forte in testa. Ecco allora alcune contrapposizioni che forse varrebbe la pena ridiscutere non assegnando sempre al primo polo la patente di radicalità: opera contemporanea vs messa in scena convenzionale; critica alla società e destrutturazione vs linea affermativa e modalità rappresentative; paura vs evasione; narrazione non lineare vs drammaturgia narrativa e schematica; costruzione di un’atmosfera e libertà interpretativa vs opera didascalica;  emozioni e sentimenti  vs conoscenza didattica; inconscio, fantastico vs realtà, povertà del realismo.
E se la radicalità oggi fosse proprio quella di non piegarsi alle cupezze del presente con eccessivo compiacimento? E se invece si provasse a ridiscutere la grammatica della crescita, con una reinvenzione formale che sappia ibridare e reinventare i due poli?

Rodolfo Sacchettini




L’eterno ritorno, o dell’anziano e del bambino

Un’urgenza emerge dalla programmazione della XXIX edizione di Segnali: raccontare quel rapporto tra infanzia e anzianità che, oggi, viene spesso negato nella separazione di soggetti diversi inseriti in contenitori sociali stagni, ordinati, non permeabili.
Certo è che i nonni rimangono un punto di riferimento all’interno della famiglia, ma di che famiglia si parla in una società iper-individualista, nonché resistente alle contaminazioni generazionali? Identificare un valore nell’infanzia è acquisizione recente, mentre l’anzianità continua a perdere importanza sociale, facendosi simbolo semplicistico di decadenza e improduttività. È qui che si sente necessario un nuovo modo di intendere e vivere il dialogo intergenerazionale ed è di questo dialogo che spettacoli diversi, sia per pubblico che per linguaggi, parlano. Dal musicale Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco passando per il muto Ticina mani di corteccia di Il teatro nel Baule per approdare a due dei tre Pollicino presentati al Festival, la proposta internazionale di Pulgarcito di Teatro Paraìso e Pollicino di Eco di Fondo, il rapporto tra bambini e anziani acquisisce nuova linfa e si fa spunto per riflessioni extra-teatrali.
Un uroboro, quell’eterno ritorno delle cose, quel ciclo senza inizio né fine, in cui nascita e morte coincidono. Un ciclo in cui un figlio può trasformarsi in genitore di suo padre, in cui c’è chi continua a crescere e chi, al contrario, continua a rimpicciolire. Fino alla definitiva scomparsa.
Anziani e bambini non hanno in comune né passato né futuro, la loro relazione vive immersa in un breve attimo presente, come quella tra l’ormai microscopico Pollicino di Eco di Fondo, suo figlio boscaiolo e il nipote che continuerà a disegnarlo per poter vivere avventure insieme, anche se in un altrove inconoscibile, seppur possibile da immaginare.
Quella necessità del bambino di giocare, di evadere, di conoscere i perché delle cose, la richiesta di storie e racconti da ripetere, con piccole variazioni, in continuo, il profondo bisogno di sentirsi protetti e al contempo di mantenere inalterata una routine, uniti a egocentrismo e richieste di indipendenza, si specchiano nell’anziano, in un tempo dilatato che concede maggiore concretezza ai legami affettivi e agli oggetti del passato e del presente, come si rende palese in Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione De Falco. Oggetti e persone che non hanno nulla a che fare con l’economia o con la produttività, ma che acquisiscono senso in quanto dilatazione della propria presenza e, per gli anziani, anche preparazione al distacco, all’assenza.
Un’assenza che non può però essere totale, come spiega il vecchissimo Pollicino, alias Andrea Pinna, di Eco di Fondo perché, anche se l’uno diventerà talmente grande da non poter essere visto dall’altro, sempre più piccolo, un luogo in cui incontrarsi sarà sempre lì, oltre il palco, basta inventarlo.
Quel luogo non è necessariamente oltre la vita, sembra suggerire Pollicino, può trovarsi nelle nostre città, può essere uno spazio concreto che, come scrive Vanna Iori in Pedagogia dell’invecchiamento e identità di genere [ETS, 2012], permetta di ripensare l’orientamento esistenziale di senso nel diventare anziani senza così perderne i vantaggi. È nel vivere esperienze comuni e continuative tra età, immaginari, idee, vissuti diversi che si concretizza la possibilità di uno scambio e di una crescita reali; come quella nonna e quel bambino in fuga che si adattano reciprocamente l’uno all’altra, imparando lui fin da piccolo ad accettare ciò che è diverso, e lei a non lasciarsi invecchiare, ma a continuare a scegliere.
La diversità acquisisce concretezza estetica oltreché anagrafica in Ticina mani di corteccia (Il teatro nel baule), simile a un muto re Mida che, anziché vedere ogni cosa toccata trasformarsi in oro, la vede sparire, distruggersi, appassire. Qui la vecchiaia si scorge in un personaggio solo, ai margini della società, abbandonato a causa delle sue stravaganze, non unicamente nell’aspetto. Anche qui sarà grazie a un essere opposto a lei, e quindi nell’incontro, seppur difficile, doloroso, terribile nel senso sublime del termine, che Ticina troverà nuove energie per il suo viaggio. Un viaggio complesso, contraddittorio che, se si ha il coraggio di cambiare punto di vista, permetterà di scorgere l’amore nel continuo flusso della vita.
La relazione tra chi sta entrando nella vita e chi sta per abbandonarla è visibilmente asimmetrica, ma, al contempo, rende possibile scorgere, attraverso l’apprendimento reciproco, come per Ticina, Pollicino o quella nonna e quel bambino, la necessità di relazione, condivisione e confronto di ogni essere umano, mai sufficiente a se stesso, nonostante la nostra società cerchi di negarlo. Questa relazione sbilanciata si può così fare strumento per recuperare quel vincolo reciproco tra uomini che interrompe il “progetto immunitario” della modernità e dell’individualismo, seguendo Elena Pulcini e il suo L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale [Bollati Boringhieri, 2001]. Quell’urgenza sentita da molti artisti, registi e compagnie prende così la forma di una necessità: darsi il tempo di riscoprire nella vecchiaia, così come nella prima età, la capacità di vedere la profondità delle cose senza dare peso alla superficie, uno sguardo essenziale, capace di unire esistenze tanto diverse perché nella vita tutto è in movimento e non smette mai di scorrere.

Ticina mani di corteccia

E chissà che tali urgenze e necessità non acquisiscano poi una declinazione propriamente sensoriale, un ribaltamento di sguardo che non sia tanto mutare prospettive e punti di vista, quanto cercare di sfuggire alla visione stessa.  Gli attori di Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco sono completamente soli sul palco. Nessuna scenografia, se non la luce che comunque permane fissa praticamente per tutta la durata dello spettacolo. Nessun oggetto di scena, se non gli indumenti che caratterizzano con semplicità i protagonisti. La loro è una recitazione che si avvicina molto alla pantomima, quasi alla gestualità del vaudeville: il bambino finge spesso di suonare un pianoforte di cui sentiamo solo il suono, la “nonna” mette in moto e guida un’automobile invisibile, ci viene chiesto di immaginare in continuazione oggetti, incontri, situazioni… Un viaggio sghembo e stralunato, idealmente “notturno”, dentro a una città “x” che sembra assumere i tratti di una metropoli primo-novecentesca, poiché contiene già in sé (o meglio, “arriva a contenerla” attraverso l’innocenza dei due protagonisti) una precipua dimensione di sorpresa e spaesamento.  Una dimensione per cui il rombo dei motori diventa una promessa di velocità e progresso, per cui semafori e fili del telegrafo non sono semplice “arredamento urbano” ma si fanno simbolo anche di civilizzazione. E, in maniera in fondo analoga ai flaneur di quell’epoca, ad avvincerci nella “a-topia scenica” creata dalla Compagnia Arione non sono dunque immagini o visioni, bensì i suoni e i rumori perturbanti della città, a volte anche gli odori e i gusti (in un momento dello spettacolo i due discutono proprio di ciò che stanno mangiando assieme…).
Ecco allora come l’alleanza fra prima e terza età derivi innanzitutto da una sorta di “complicità sensoriale”. La ribellione, anzi forse una vera e propria guerra (come evocato in un’altra proposta del festival, La guerra dei bottoni di Tib Teatro) contro gli adulti è una guerra contro la dittatura della vista. Non è infatti  l’età adulta proprio quel periodo della vita in cui la visione, intesa come razionalità e distanza, assume una posizione prevalente rispetto agli altri sensi? E, un poco più a fondo, non è quell’età della vita in cui in primo luogo si fa marcata una rigida distinzione fra i sensi, da cui poi il primato della vista deriva? Nell’infanzia e nella vecchiaia, per motivi diversi, vige invece un regime di maggiore “confusione”, di scivolamento da un piano all’altro, in una condizione di indeterminatezza nell’interpretare gli stimoli che rende più facile poter traslare le esperienze, che crea una realtà maggiormente allusiva e associativa, più vicina al sogno se vogliamo.
È dunque inevitabile che il teatro-ragazzi, un teatro che prova a tradurre la “infantilità” in una poetica, faccia propri tali principi di decostruzione dello sguardo. Sciogliendo molto spesso la visione in ascolto, trasformando il palco in un parco (giochi), che richiama e attira soprattutto il tatto. Un processo che, se portato alle sue estreme conseguenze, potrebbe avere implicazioni profonde. In un’intervista su Doppiozero il direttore del Centro delle arti e della tecnologia dei media di Karlsruhe Peter Weibel fa notare come morale e regole di convivenza che ciascuna società prova a darsi siano inestricabilmente legate alla sensorialità. I dieci comandamenti sono dei precetti adatti a un mondo in cui il nostro prossimo lo è anzitutto in senso spaziale, è vicino. Al contrario, oggi, quel “progetto immunitario” cui accennavamo in precedenza ci spinge verso una “società della lontananza” in cui il vincolo morale si esercita spesso fra persone e corpi magari distanti migliaia di chilometri, dove le conseguenze di certi comportamenti non hanno più un’evidenza fisica, immediatamente percepibile. È chiaro che la vista, in particolar modo se mediata, telecomunicativa o spettatoriale, gioca un ruolo fondamentale in tutto questo.
Il teatro-ragazzi potrebbe essere allora un modo per mettere in discussione  tale lontananza, per ricondurre al centro del nostro agire quei sensi che appaiono disattivati dalla società odierna. La scena per l’infanzia come luogo per ripensare, attraverso l’alleanza di figure che sembrano agli antipodi (il bambino e l’anziano), una nuova “etica della prossimità”, che, anzi, potrebbe quasi essere un’efficace definizione del teatro stesso.

Oggi

Eppure, l’alleanza fra infanzia e vecchiaia è un’alleanza poetica e intrisa di dolcezza, ma comunque ambigua e non priva di chiaroscuri. Pulgarcito, della compagnia spagnola Teatro Paraìso, ricompone i pezzi della catena generazionale e, senza rinunciare alla tenera dimensione di sogno ed evasione propria delle fiabe, ci mette di fronte anche a un crudo senso della responsabilità. In fondo, la felicità di relazione fra bambini e nonni, la leggerezza di cui si compone il loro rapporto, accade perché viene in una certa misura sospeso il “dovere della responsabilità”. Ma cosa succede quando i figli sono costretti a diventare “genitori dei propri genitori”?
Tomas Fdez e Ramon Monje sono figlio (ormai adulto) e padre (ormai anziano). Sulla scena, vediamo il primo intento a preparare le valigie per il secondo, che scopriamo dover essere accompagnato alla casa di riposo il giorno seguente. Affetto da demenza senile, recalcitrante, il padre fa i “capricci” per non farsi mettere il pigiama proprio come un bambino, si nasconde del cibo nelle tasche e non ne vuole sapere di andare a letto. Dopo essersi arrabbiato, il figlio prova allora la tattica della dolcezza: «Papà, ti ricordi quando mi raccontavi della fiaba di Pollicino?» Da qui inizia un’ingegnosa e incalzante sovrapposizione fra realtà e surrealtà, fra verità e sogno, in cui i due protagonisti si fanno prendere dalla narrazione e diventano in tutto e per tutto i personaggi di Pollicino, utilizzando l’armadio come luogo per nascondersi, prendendo i calzini per orchette, perdendosi e rincorrendosi nei pochi metri quadri della stanza. Un’evasione e un invasamento che però paiono non influire sulle decisioni concrete: al termine di questa fuga dalla realtà, vediamo il figlio riuscire finalmente a mettere a letto il padre, che sembra comunque destinato ad andare in casa di riposo (nonostante il figlio gli lasci tenere in tasca un tozzo di pane, a suggerire una certa apertura). Ma quello che si è guadagnato è la consapevolezza dell’abbandono, la sensazione di una riappacificazione generazionale pur nell’amarezza delle contingenze.
È sorprendente come la rappresentazione di una disfunzione intellettiva, quella dell’anziano padre, diventi il gancio drammaturgico per aumentare e magnificare il personaggio. Ramon Monje impersona una figura dall’abilità motoria ridotta, dalle capacità mentali offuscate, eppure – attraverso l’immersione nell’infra-realismo della fiaba – passa ad essere un vecchio, un bambino, il padre che fu, Pollicino e l’Orco senza soluzione di continuità e senza dover mutare minimamente tono recitativo. Diventa, in tutto e per tutto, un Super-personaggio. Forse, proprio qui si trova la chiave per immaginare un dialogo intergenerazionale che non neghi il conflitto e l’estraneità, né debba sospendere la responsabilità per postulare un incontro. Pulgarcito del Teatro Paraìso ci suggerisce non tanto dei modi per comprendere chi è distante da noi anagraficamente, ma ci spinge a introiettare quelle dimensioni infantili o senili che le diverse età esprimono, senza dovere per questo cambiare la propria “metrica esistenziale”.
Ci chiama ad essere, sugli spalti o anche fuori dai teatri, indefessi e infaticabili Super-spettatori!

Francesco Brusa, Camilla Fava