Tanti linguaggi che parlano una sola lingua, quella del teatro

C’è una delle scene finali di Kill Bill, in cui il “cattivo” che dà titolo al film discetta della filosofia alla base dei fumetti sui supereroi. Uno in particolare sembra discostarsi da tutti gli altri: «Quando Superman si sveglia al mattino, è Superman. Il suo alter-ego è Clark Kent. […] Quello che Kent indossa, gli occhiali, il vestito da impiegato, è il suo costume. È il costume che Superman usa per adattarsi a noi. Clark Kent rappresenta il modo in cui Superman vede noi umani».
Superabile della compagnia Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt, proposta del Festival Segnali tra l’altro vincitrice di un premio Eolo, sembra utilizzare un meccanismo simile, sembra mettere in atto un ribaltamento di sguardo che chiama subito in causa una certa idea di normalità e di “potere”, nel senso di capacità di agire nel quotidiano. I quattro personaggi dello spettacolo, di cui due in carrozzina, sono immersi proprio in un mondo da fumetto, in vere e proprie strisce disegnate (fatte scorrere su una lavagna che le proietta su di un grande schermo sul fondo del palco), scenario delle loro azioni. Con ironia lieve ma spesso anche caustica, ora rivolta verso se stessi ora verso chi non è portatore di una disabilità comunemente intesa, ci raccontano di gesti, sentimenti, difficoltà e frustrazioni che abitano la loro vita di tutti i giorni. E ci indicano il perché non è una vita “normale”: fintanto che la società ci spinge al restringimento di tempi e ritmi, a considerare il lavoro e le relazioni come delle performance, non ci sarà mai “luogo” per la diversità.
È significativo che il fumetto e il disegno, discipline che in maniera forse più immediata di altre rivelano il loro carattere di rappresentazione personale e fittizia, si facciano strumenti per ragionare di temi che paiono invece incarnarsi nelle fibre più concrete dell’individuo: libertà, coraggio, amore. E lo fanno appunto ponendosi in contrasto visivo e stilistico con i corpi vivi, in qualche modo teatralmente pesanti, degli attori. Skreek – a comic revolution, una produzione di Dascollectiv con la regia di Giovanni Jussi: un vertiginoso gioco di scatole cinesi, che rompe in continuazione tutte le quarte e le quinte pareti possibili. Ad accoglierci in sala è infatti un video che mostra delle riprese in tempo reale dell’esterno del teatro. Poi vediamo la protagonista in carne e ossa entrare dalla porta laterale e dirigersi verso il bordo del palco, dove è apprestata una “sala di comando” fatta di cavi, mixer e microfoni. Da lì lei, la “Creatrice”, si mette in comunicazione con Jean Luke, materializzatosi sullo schermo in un altrove in bianco e nero che ha tutte le fattezze di un comunissimo appartamento, trasfigurato però da linee e oggetti disegnati a mano, ancora una volta vicini a un’estetica da graphic novel. Chi è Jean Luke? È un personaggio virtuale, pare frutto dell’immaginazione della Creatrice, un “supereroe andato in pensione”, un ragazzo che vuole salvare il mondo, ma non sa come farlo. Tantomeno sa bene cosa sia il “mondo”, visto che è confinato fra le quattro mura dell’appartamento, immagine nata dalla mente di colei che lo ha creato. Eppure da lì vuole scappare, reclama la propria libertà. A un certo punto, per compiacerlo, la Creatrice chiama un volontario dal pubblico, che dovrebbe andare a far compagnia a Jean Luke. Si alza Davide, un ragazzino che viene condotto dietro le quinte e infine risucchiato nello schermo, dentro l’appartamento del supereroe il quale, dopo aver brevemente tentato di fare conoscenza, lo prende in ostaggio e si “compra” così la propria fuga dal mondo virtuale: mentre un video finalmente a colori ci mostra Jean Luke uscire dal teatro per le strade di Milano, Davide rimane invece imprigionato nel monocromatico appartamento, in un loop drammaturgico che segna la fine dello spettacolo.
«La felicità consiste nella libertà, e la libertà nel coraggio» recita il libretto di scena di Skreek di Dascollectiv, riprendendo Pericle. Eppure, la chiusura ambigua e amara delle vicende sembra suggerirci che la nostra libertà è quasi sempre a spese di qualcun altro.

Frankie

C’è, in questa ambiguità e amarezza, un ribaltamento anche formale. Fumetto, disegno e illustrazione, che a prima vista potrebbero essere considerati come un “porto sicuro” dell’evasione e della fantasia, si fanno invece segno di una certa componente oscura, quasi distopica. Invece di lanciarci verso nuovi universi e avventure, paiono costringere e racchiudere in microcosmi asfittici. Tale è la gabbia domestica in cui è confinato Jean Luke. Similmente, la quotidianità dei protagonisti di Superabile di Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt assume dei tratti claustrofobici, rivela dei confini difficili da forzare. L’essenzialità del disegno, in particolare se in bianco e nero e “a pennarellone” come succede in buona parte di questi spettacoli, assume quindi una funzione per così dire “espressionistica”. Tesa cioè a espungere dalla realtà le sfumature, per rimarcarne al contrario gli elementi più perturbanti e stridenti. Ma tesa soprattutto, come accennavamo in precedenza, a reclamare per la presenza dei corpi attoriali in scena uno statuto di verità che in qualche modo si sporga oltre il teatro, si affacci con il busto e il volto fuori dalla scena, pure restandovi dentro con i piedi ben ancorati. «Siete sicuri di essere reali?» ci chiede la protagonista di Skreek, mentre i due personaggi in sedia a rotelle di Superabile si guardano l’un l’altro e si domandano: «Che cosa vedi?» «Due occhi, un naso con un neo, un volto…».
Le componenti smaccatamente rappresentative e finzionali esprimono il punto di vista e i sentimenti dei personaggi, oggettivizzandoli nel fumetto, mentre i loro corpi e i pensieri che da quei corpi provengono procedono più vicini a noi, per una sorta di “sbalzo percettivo”. Ecco dunque che l’utilizzo di linguaggi altri, la messa in campo dei nuovi media sulla scena, serve in fondo a ribadire il più antico dei linguaggi teatrali: la compresenza di attore e spettatore, impegnati quasi in egual misura in un comune processo di partecipazione emotiva. Con il dubbio, però, che i ruoli siano saltati, perché gli attori sul palco diventano praticamente spettatori di se stessi, dei propri flussi mentali che scorrono sullo schermo. E noi in poltrona ci sentiremmo chiamati a intervenire, visto che, lasciati così come sono, gli sviluppi di Superabile e Skreek così come quelli di Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto sembrano faticare a procedere, ingolfarsi, entrare in strani loop…  Perché è il nostro punto di vista sulla diversità, sul potere, sul coraggio a dover cambiare, per dare alle storie un altro esito. Potremmo essere dei potenziali deus ex-machina, e restiamo inchiodati al nostro posto. Ma, via via che gli spettacoli ci pongono di fronte alle nostre responsabilità, è un posto sempre più scomodo.
Il pubblico è testimone quindi e, per essere testimoni, è necessario rendersi consapevoli, come scriveva Ubersfeld, della dinamica di “denegazione”. Senza rinnegare la realtà che avviene sul palco, il pubblico deve accettarla come altra, accogliendone la profonda veridicità e la responsabilità etica ad essa connessa: lo spettatore deve poter andare fino in fondo, non essere mai estraneo, nonostante il gioco finzionale e la distanza rispetto a ciò che vede sul palco.
Come per l’oscuro spettacolo Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto, che, attraverso un’estetica da primo cinema muto, grazie anche a quello schermo velato, filtro della visione e concreta parete da superare, racconta una storia – su fondo nero – in cui il pubblico non può far altro che immergersi, ma prendendo una posizione. Non si esce dallo spettacolo senza un’opinione. Il racconto senza parole di un figlio, marionetta creata da Mariella Carbone, abbandonato sempre più a se stesso a causa degli impegni dei genitori, è tutto contemporaneo. Le movenze ripetute, alienanti, da pupazzo di legno appartengono però più ai vivi che alla marionetta stessa. Sarà un disegno a riconsegnare al figlio la possibilità di sognare un mondo altro, reso vivo da un essere immaginato e immaginario, quel mostruoso Frankie alla Mary Shelley che si rivela l’unica opportunità di fuga da una realtà buia, ripetitiva e claustrofobica. Un finale aperto, il ritrovarsi della famiglia oltre la cortina del velo, al confine con la platea, che lascia spazio a interpretazioni anche opposte, nasconde in sé la responsabilità dello spettatore.
Il teatro, con il mistero e il celato che gli concedono vita e sostanza, può risalire al suo essere evento in dialogo con la natura umana più profonda proprio grazie all’unione di differenti linguaggi. Non un’unione sintetica o pacificata, ma, seguendo Artaud nel suo Sul teatro libanese, una sorta di fusione che metta l’accento sull’interferenza tra segni significativi ed espressivi diversi. Che si tratti di fumetti, tecnologie all’avanguardia, immaginario cinematografico, nella programmazione della XXIX edizione di Segnali gli spettacoli che uniscono forme espressive diverse in scena lo fanno per metterle in contrasto con il dispositivo teatrale, giocando sull’interferenza e non sulla sintesi di linguaggi, rimarcandone la mancanza di identità.

Francesco Brusa, Camilla Fava