Riempire gli spazi vuoti: la libertà dell’immaginazione

Nel corso della IX edizione del festival “Teatro fra le Generazioni”, tenutosi tra Castelfiorentino ed Empoli dal 19 al 22 marzo, ci siamo posti diversi interrogativi. Abbiamo coinvolto nelle nostre riflessioni anche gli artisti e le compagnie presenti al festival (QUI): esiste un’istanza pedagogica nel teatro rivolto alle giovani generazioni? Che tipo di linguaggi esso utilizza e in che modo si relaziona con le nuove forme di comunicazione?

Intendiamo affrontare questi argomenti analizzando alcuni degli spettacoli presentati al festival. Tra i più interessanti emergono quelli che non hanno cercato facili scorciatoie, ma si sono rivolti al proprio destinatario con onestà, indagando la complessità dei contenuti proposti.

Si tratta di un teatro che non riduce e non soffoca i propri mezzi espressivi, ma anzi sfrutta strumenti diversificati, dalla figura alle ombre, dalla danza alle proiezioni. La scelta di utilizzare linguaggi evocativi e carichi di suggestioni nasce dal desiderio di lasciare uno spazio vuoto che l’immaginazione dei bambini potesse riempire: i bambini in questo modo si assumono la propria responsabilità di spettatori e prendono parte al gioco teatrale. La scelta di tempi distesi, di lunghe pause tra momenti narrativi e momenti dedicati allo scorrere delle immagini ha dimostrato la necessità, da parte di diverse compagnie, di restituire al pubblico di spettatori bambini quella lentezza e quell’attenzione minate dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

La questione dei linguaggi trova certamente grande spazio di riflessione nel teatro di figura, dove l’utilizzo di ombre, maschere, burattini, marionette, pupazzi e oggetti crea una frattura con la realtà, ma nello stesso tempo riesce a raccontarla evocando mondi e atmosfere. Un esempio di teatro di figura è “La gazza ladra”, spettacolo ideato da Paolo Valli e Katarina Janoskova, anche attori in scena, e pensato per bambini dai 3 anni in su. Il testo, scritto da Francesco Niccolini, che intreccia l’omonima opera di Rossini, della quale Mario Autore ha elaborato le musiche, con la storia del diluvio universale – la gazza fu l’unico animale a non ripararsi sull’Arca, ma a volarci sopra – viene raccontata attraverso immagini ispirate alle opere dell’illustratore genovese Emanuele Luzzati. Gli attori giocano sul palco, inventano ruoli, spazi e azioni sempre nuovi, invitando il pubblico a uno sforzo immaginativo e creativo. Gli spettatori sono immersi in un mondo che si arricchisce progressivamente di luci, sagome di cartone, ombre e musica in un crescendo di entusiasmo fino alla salvezza dal diluvio, che tutto lava riportando il colore.

Si rivolge a una fascia d’età più alta, dai 6 anni, “Non ho l’età”, una produzione di Riserva Canini e Campsirago Residenza, per la regia di Marco Ferro e Valeria Sacco. Lo spettacolo prende vita dalle riflessioni sul tema del tempo, condivise, durante un percorso laboratoriale, con bambini dai 6 ai 10 anni.  Attraverso l’utilizzo di una corda, che assume le più svariate forme, e due pupazzi, gli attori Manuela De Meo e Pietro Traldi costruiscono una partitura fisica che ripercorre le varie fasi della vita: il rapporto dell’uomo con la memoria, la nascita e la morte, l’amore. I rari momenti narrativi sono affidati a una voce fuori campo. I gesti sono concreti, funzionali, privi di qualsiasi stilizzazione e mantengono in questo modo tutta la loro emotività, caricandosi di attesa. Tra l’attesa e la realizzazione della forma c’è un tempo sospeso in cui tutto può essere o non essere, c’è il tempo dell’immaginazione e dell’intuizione. A differenza della colorata esuberanza de “La gazza ladra”, lo spettacolo di Riserva Canini lascia che la semplicità della messinscena tenga aperti tutti gli interrogativi sulla questione del tempo, “in modo che la fantasia possa collegare i puntini e costruire un disegno che sarà diverso per ognuno”, come ricorda l’attrice Manuela De Meo. Il bambino, in questo caso, non solo non viene messo al riparo dalla complessità del mondo, come spesso accade, ma, anzi, le sue stesse riflessioni diventano materia dalla quale attingere per la costruzione dello spettacolo.

locandina di Non ho l’età (dalla pagina Facebook di Riserva Canini Teatro)

Un altro interessante lavoro è La meccanica del cuore, una coproduzione del Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita, tratto dall’omonimo romanzo di Mathias Malzieu e diretto da marco Maccieri e Angela Ruozzi. Si tratta di uno spettacolo in cui sia la parola che l’impianto scenografico occupano un grande spazio. La storia, dai tratti fiabeschi, racconta di Jack, un giovane dall’oscuro passato, che può sopravvivere solo grazie a una magia della sua levatrice, Madeleine. La donna ha applicato al suo cuore un orologio, raccomandando al ragazzo di non innamorarsi mai perché questo sentimento potrebbe distruggere quel marchingegno al quale la sua vita è legata. Una storia che parla di crescita, di identità, del rapporto con la realtà. Scopriremo che l’orologio di Jack non è altro che il tentativo, da parte della sua levatrice, di proteggere il ragazzo dalle emozioni e dal dolore che possono procurare. Il ragazzo per anni vive con il peso della sua fragilità, della sua malattia, della sua infelicità. Jack si fida di Madeleine e solo quando si strappa l’orologio dal petto, preso dalla disperazione per un amore finito, si accorge dell’inganno. La realtà non è sempre come sembra e spesso le nostre convinzioni riescono a stravolgerla.  Si tratta di tematiche molto vicine al pubblico preadolescente al quale lo spettacolo si rivolge. La messinscena guadagna grande fascino grazie all’utilizzo di sagome e ombre, opera di Garioni e Montecchi. L’ombra diviene lo strumento per trattare gli elementi centrali e più sensibili dello spettacolo, come il ricordo, la scoperta dell’amore e della sessualità, il confine tra realtà e finzione. La scelta di questo linguaggio permette di ricreare l’atmosfera onirica del romanzo che si riempie di senso proprio grazie a tutti quegli elementi che lo allontanano dalla nostra realtà quotidiana, ma lo avvicinano alle nostre esperienze emotive. Come descrivere l’amore, la gelosia, la rabbia? “Mi sono sentito come se…” diciamo spesso. A volte abbiamo bisogno di una metafora per farci chiari. In questo spettacolo il linguaggio del teatro di figura diventa metafora di un mondo apparentemente sconosciuto.

Angela Ruozzi, regista de La meccanica del cuore, durante la nostra intervista al Teatro del Popolo di Castelfiorentino

L’utilizzo delle immagini diventa centrale nello spettacolo di Vania Pucci, “Di segno in segno”, una produzione di Giallo Mare Minimal Teatro che quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di repliche. Adriana Zamboni interagisce con l’attrice in scena realizzando delle immagini che per mezzo di una lavagna luminosa vengono proiettate su un fondale bianco, unico elemento scenografico, dando corpo al racconto. Vania Pucci attraverso una finestra guarda il mondo e lo descrive, passando dai pianeti agli oceani. Quando lo spettacolo nacque l’utilizzo della lavagna luminosa era una novità assoluta in teatro e permetteva di comporre in modo immediato le immagini sul fondale. Oggi i linguaggi utilizzati per questo lavoro diventano ancora più interessanti rispetto al discorso sulle nuove tecnologie, che sempre di più mettono i bambini di fronte a immagini preconfezionate. Vedere un’artista che con la sola abilità manuale aggiunge pellicole e colori mettendo insieme una forma dopo l’altra provoca una forte curiosità nello spettatore. “Di segno in segno”, un titolo che non a caso contiene anche il gioco di parole Disegno-Insegno, si colloca tra gli spettacoli che puntano sulla stimolazione sensoriale per raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità immaginative. Uno spettacolo che non rinuncia, dopo vent’anni, a portare in teatro una forma narrativa da fruire pazientemente, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto.

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno

L’utilizzo di linguaggi diversificati è stato dunque utile alle compagnie per rendere leggibile lo spettacolo a più livelli, per ampliare le possibilità di comprensione, per lasciarsi guidare dall’intuito. Il valore pedagogico di uno spettacolo, in fondo, non è rintracciabile anche a partire dalla scelta, di cui si accennava all’inizio, di lasciare degli spazi vuoti da riempire, di non imbrigliare l’immaginazione, ma di lasciarla correre libera? 

Nella Califano, Michele Spinicci




Dentro la meccanica del cuore: conversazione con la compagnia MaMiMò

La seconda conversazione incentrata sulla relazione tra arte e pedagogia nasce dalla visione de La meccanica del cuore. Lo spettacolo è tratto dal romanzo omonimo di Mathias Malzieu e coprodotto dal Centro Teatrale MaMiMò insieme al Teatro Gioco Vita, con l’adattamento di Marco Maccieri e Angela Ruozzi (che firmano anche la regia).

Abbiamo incontrato Angela Ruozzi e i tre attori Fabio Banfo, Cecilia Di Donato e Paolo Grossi.

Quando parliamo di teatro fra le generazioni si pensa inevitabilmente al rapporto tra arte e pedagogia. Come si declina questo legame nel vostro lavoro?

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono. Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Crediamo che il punto di forza dell’aspetto pedagogico – pedagogico non didattico! – derivi dal fatto che questo lavoro si sviluppa a partire da tante domande. Il teatro non deve dirti cosa pensare, qual è la cosa giusta da fare: è necessario che ciascuno si ponga la propria personale domanda, altrimenti si rischia di insinuare una netta distinzione tra bene e male.A quel punto l’arte può cadere nella demagogia e imporre una sola via percorribile.

Nell’epoca delle nuove tecnologie, da dove nasce l’idea di accostare il
teatro delle ombre alla presenza fisica degli attori in scena?

Principalmente dalla voglia di lavorare con Teatro Gioco Vita e dalla lettura del testo di Malzieu, che contiene una chiave onirica, poetica e visionaria, tale per cui non erano sufficienti i mezzi attorali classici. Abbiamo sentito la necessità di aprirci a panorami nuovi, a immagini, evocazioni; quindi ci siamo rivolti a maestri come Nicoletta Garioni e Fabrizio Montecchi (a loro spetta la cura di sagome, scene e ombre ndr) che ci hanno insegnato tanti loro segreti. È grazie a loro se lo spettacolo ha la capacità di esprimersi anche attraverso immagini e ombre. Quando ci siamo resi conto che le parole non erano sufficienti, anzi rischiavano di appiattire significati molto più ampi e complessi, abbiamo capito che le ombre erano necessarie al percorso che ogni attore costruisce scena dopo scena. Giocare con le ombre è un esperimento molto complesso da gestire, perché quando sei da questa parte del velo non hai la percezione e la consapevolezza di quello che appare dall’esterno. Necessita di grande controllo e lucidità. L’ombra non è solo un elemento estetico, è uno scarto di linguaggio che dà un senso diverso alla storia e racconta qualcosa che non si può toccare ma solo percepire. L’ombra racconta l’invisibile, fa vedere l’anima.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




«Mi capite anche se parlo greco?» Una conversazione con Flavio Albanese

Al festival di Maggio all’Infanzia Flavio Albanese era in scena con Canto la storia dell’astuto Ulisse (una produzione Piccolo Teatro, Teatro Gioco-Vita e Compagnia del Sole). Il viaggio e le gesta dell’eroe greco vengono presentati ai bambini con un approccio che è allo stesso tempo dialogico, teso a coinvolgere il pubblico con una serie di domande, e immersivo, grazie anche alle ombre del maestro Lele Luzzati.
Abbiamo chiacchierato con l’attore, provando a capire da quali domande e da quali percorsi arriva la sua peculiare presenza scenica e chiedendoci in che modo teatro, mito e conoscenza vadano a formare un tutt’uno inscindibile

Cosa ti spinge a occuparti di teatro ragazzi e qual è il tuo punto di partenza per orientarti nella relazione con questo tipo di pubblico?

Sono arrivato al teatro ragazzi per caso. Porto avanti ricerche legate ai temi che mi affascinano e incuriosiscono fin da ragazzo, fin da bambino addirittura, e verso i quali sento l’esigenza di approfondire. Questo è il punto di partenza. Ho sempre condiviso il mio percorso artistico con Marinella Anaclerio, e lei ha fatto altrettanto con me, forse è anche la mia compagna di vita da così tanto tempo proprio perché con lei metto in comune dubbi, domande, incertezze che alimentano le nostre ricerche generando i nostri spettacoli e animando ogni nostro progetto, senza trovare mai una parola definitiva, perché l’unica cosa che ci sembra chiara è che nulla di quello che fai può essere completamente certo e risolto.
Quando ho affrontato per la prima volta i dialoghi platonici studiando con un maestro russo molto vicino al lavoro di Vasil’ev, sono rimasto colpito da come l’immortalità dell’anima venisse dimostrata attraverso un processo geometrico-matematico assolutamente razionale e potesse essere compresa da chiunque, anche da una bambino. Ho sentito che avrei potuto proporre questi stessi dialoghi filosofici proprio a quei ragazzi che normalmente non amano la filosofia e la matematica, suscitando in loro un certo divertimento e dimostrando attraverso il teatro quanta meraviglia possa esserci nella ricerca di “come ottenere il doppio di una superficie di un quadrato con il lato di due piedi”. Ho capito che da questo punto di vista, il cosiddetto “teatro ragazzi” possiede straordinarie potenzialità.

Cosa ha guidato la tua scelta di mettere in scena la storia di Ulisse?

Il mito mi affascina molto, lo considero “l’hard-disk” della conoscenza più profonda che l’uomo aveva accumulato prima dell’invenzione della scrittura. Era una conoscenza fatta di cose visibili e invisibili che convivono senza pregiudizio e solo nel mito; l’uomo ha trovato uno spazio possibile per far convivere come in una formula magica il visibile e l’invisibile. Infatti l’essere umano è composto da una parte visibile e una invisibile.
I bambini capiscono e accettano più facilmente degli adulti i miti perché assomigliano formalmente alle fiabe e alle favole (anche se le favole sono essenzialmente diverse). La psicanalisi si è soffermata a lungo sul mito perché ha intuito che lì c’è qualcosa che si ancora fortemente nel profondo dell’essere umano, e ci sono tantissimi legami anche con la scienza: infatti la prima cosa che spiego ai ragazzi alla fine di ogni spettacolo, quando ci fermiamo a parlare e riflettere, è che i miti aiutano gli scienziati a realizzare nuove scoperte così come le favole aiutano i bambini a scoprire il mondo.
Ci sono intuizioni straordinarie, per esempio: all’inizio c’era il caos, poi Gea e Urano che generano l’infinito (tutte le cose visibili e invisibili) ma tutte queste cose non hanno spazio per venire fuori; si manifestano solo quando Gea e Urano si dividono nel momento in cui Crono, col falcetto, li separa; infatti in quel momento inizia il regno del Tempo e nasce lo spazio… È qualcosa di vicinissimo alla descrizione del Big Bang che tratteggia Hawking nel suo Dal Big Bang ai buchi neri, in cui parla di «lampadine che iniziano ad accendersi nell’universo» (un’immagine teatrale straordinaria!).
Ci sono fortissime connessioni fra il mito, la scienza e la spiritualità, soprattutto nel momento in cui la scienza inizia ad “annusare” la fisica quantistica e quando dall’idea di atomo si passa al concetto di “vibrazione”. Penso fortemente al Vangelo di Giovanni «in principio era il Verbo» dove
“Verbo” vuol dire proprio vibrazione, che in principio era presso Dio… che fossero i quanti?! Eh Eh Eh (rido perché non bisogna prendersi troppo sul serio).
Insomma voglio dire che quello che presento ai ragazzi è sempre associato a un percorso profondo di studio e di ricerca personale.
Lo spettacolo realizzato con Francesco Niccolini L’universo è un materasso, per esempio, è nato lavorando a stretto contatto con un docente universitario, Marco Giliberti, che verificava di volta in volta i contenuti scientifici del testo. Lo stesso titolo deriva da una sua spiegazione.
Dunque per me è molto importante trasmettere queste modalità di conoscenza alle nuove generazioni, soprattutto per stimolarli ad accendere processi di ricerca piuttosto che cercare risposte.

Infatti i tuoi spettacoli non sono divulgativi…

Il mio intento non è quello di divulgare – non sono un divulgatore – ma di trasmettere un processo di pensiero, che poi è lo stesso che utilizzo, per esempio, all’inizio dello spettacolo sull’Odissea. Voglio che i ragazzi comprendano che la difficoltà di tradurre un testo non è la ricerca delle parole esatte ma nella capacità di intercettare quella mentalità che ha dato origine a quelle parole.
Tornare a quella mentalità apre tantissimi “buchi”… neri … Significa cambiare il modo di pensare il mondo, prima di viverci. È lo stesso concetto per cui è importante pensare il teatro, prima di farlo.
Ho bisogno di tutto questo per “sentire” Ulisse dentro di me, per sentire appunto il desiderio di ricerca. Lavorare in questo modo mi sintonizza con la parte sconosciuta di ciò che mi circonda.


Che ruolo ha lo spazio scenico nella costruzione drammaturgica dei tuoi spettacoli?

In questo momento del mio percorso lo spazio scenico è uno spazio che comprende anche il pubblico. Una volta rimasi fulminato dalle parole di Paolo Rossi che mi disse: «Ricordati che gli attori non fanno teatro per il pubblico, ma con il pubblico». Ecco, il mio istinto teatrale va in questa direzione. La mia formazione è strehleriana con una forte influenza russa, per me esiste uno spazio unico in cui il pubblico è parte dello spettacolo. Si tratta, in fondo, di qualcosa di vicino anche alla commedia dell’arte.
Nel caso dello spettacolo su Ulisse ero coadiuvato in scena da un mezzo molto potente ed espressivo: le ombre di Luzzati. Le sue immagini sono molto più potenti della mia recitazione perché contengono quell’elemento irrazionale che inevitabilmente suscita grande fascinazione nel pubblico: “le cose invisibili sono molto più potenti di quelle visibili”. È dunque inevitabile che a un certo punto le ombre prendano il sopravvento. Allora piano piano mi sono fatto da parte, mostrando solo in qualche accenno la mia presenza e lasciando “libere” le ombre in scena.

Il tuo spettacolo è ricco di momenti esilaranti, ma è possibile utilizzare la comicità e il divertimento senza cadere nella trappola della risata facile?

Questa è la trappolona in cui rischia di cadere qualsiasi attore, perché si cerca sempre di ottenere il consenso del pubblico. Prima di mettere in scena uno spettacolo, come dicevo, mi preparo, studio tantissimo e tutto ciò che dico è frutto di ricerche, che spesso durano dei mesi, sostenute dal costante confronto con Marinella, prima di tutto, e poi amici e docenti universitari, filosofi e studiosi che si appassionano con me, mi accompagnano nel processo creativo. Quando maneggi molto bene una materia o un argomento, proprio come quando ti presenti ben preparato a un’interrogazione, diventi leggero, perché sei libero di parlare senza pensare e questa leggerezza a volte diventa commedia. Cerco di non pensare, penso tutto prima… ogni volta che penso di voler far ridere divento più pesante… ecco, forse il significato della parola “battuta”…va in battere… quella è farsa; la commedia va in “levare”… devo lavorarci, tento ancora…
È un po’ come il rischio di suonare Chopin, esibendo un atteggiamento romantico. No! È già Chopin stesso a essere romantico. Tu suona semplicemente le note così come sono! Similmente per Shakespeare: funziona se resti aderente al testo, sovrapporre il tuo pensiero spesso lo volgarizza, lo rende pesante e, a meno che tu non sia Carmelo Bene, quando reciti dei grandi autori, se cerchi di sovrapporti con il tuo pensiero, li banalizzi.
Penso che di fronte a dei “capolavori” sia necessario mettersi al loro servizio e “giocarci”.
Il “play”, il “jouer” nel senso di recitare indica proprio la distanza che l’attore frappone fra sé e il personaggio, e che gli consente, appunto, di giocare come un bambino e non scherzare come un adulto. Ed ecco che ci troviamo a fare i conti con la cosiddetta “misura”: sapere quando stai facendo “troppo” ed è una fortuna incontrare nel tuo percorso artistico qualcuno di cui ti fidi e che ti possa fare da specchio; ho infatti sempre bisogno di una figura che mi osservi dall’esterno. Francesco Niccolini, Marinella Anaclerio, Giovanni Soresi, mia madre a volte e qualche critico leale, sono le persone a cui mi affido e che mi ricordano quando il mio “ego attoriale” sta prevaricando gli obiettivi dello spettacolo. La misura a volte va ricordata con severità ma sempre con un amore per il teatro che va avanti… sempre…

In che modo si può affrontare il tema dell’amore, anche fisico, con il pubblico bambino?

Quando Penelope e Ulisse si rincontrano dopo vent’anni, gli dei con un incantesimo ridonano loro la giovinezza, lo stesso aspetto che avevano nel momento in cui si erano conosciuti per la prima volta. È un po’ questa l’essenza dell’amore, no? Dell’amore, non dell’innamoramento, che necessita della materia. L’amore è talmente immenso da farti ringiovanire. Non dimentichiamoci che il rincontrarsi di Ulisse e Penelope è preceduto anche da un riconoscersi. Nel momento in cui ci si riconosce, ecco che il tempo non esiste più, diventa circolare e ci si ritrova immersi in quella sorgente da cui nasce tutto, dal pianto al riso… Due anziani innamorati, che si prendono per mano, per strada, sono molto simili a due ragazzi.

Nel tuo spettacolo, insomma, emerge l’amore come forza che muove tutte le cose piuttosto che l’elemento erotico…

Amor che muove il sole e l’altre stelle!
Esistono due tipi di eros. Dopo Caos si manifestano Gea, Urano e Eros il primo Eros, ed è ciò che tiene unite le cose.
Quando ti innamori cerchi il contatto con l’altro, hai bisogno di stabilire una connessione profonda con le cose, vuoi unirti a tutto… e se questo aspetto tende a venir meno col tempo, la conseguenza è che si diventa più soli, tutto perde significato.
Platone nel Simposio dice che all’inizio si ricerca un altro corpo; poi cerchi tutti i corpi che ti piacciono, dopodiché ti accorgi che quello che stai cercando è in realtà la bellezza di quei corpi,
e col tempo ti rendi conto che la Bellezza è unica, per cui non cerchi più i corpi ma la Bellezza in sé e a poco a poco la tua ricerca della bellezza diventa ricerca dell’immortalità.
Prendi l’esempio di Sarah Kane, che in Italia ottenne il successo soprattutto per la scabrosità della sua scrittura, ma non sta lì il genio della Kane… Eros incarna l’entusiasmo, lo stupore, la curiosità per lo sconosciuto e quando scopri nuovi territori diventi più vasto perché devi comprenderli, ed essendo più vasto desideri ancora più cose… L’amore per le cose nasce dalla conoscenza che hai di esse… (Leonardo). Quando amore e conoscenza viaggiano insieme nasce il bello: questa è l’essenza dell’incontro fra Ulisse e Penelope. Perciò a quel punto compaiono gli Dei, rendendo la loro notte la “notte più bella che potesse essere mai sognata”. Per questo da una storia d’amore, che ti abbia ferito o meno, si esce sempre un po’ più “grandi”. E se hai il coraggio di andare fino in fondo, diventi più vasto. Anche quando per esempio ti ritrovi perso e disperato nella vita, devi adottare una prospettiva mitologica, altrimenti ti sembra tutto piccolo e senza senso.
Ecco, questo mi sembra il processo che sta alla base dei miei ultimi spettacoli. Si tratta sempre di vedere il macrocontesto in cui le storie sono comprese. Cerco l’archetipo che sta dietro le vicende e anche io come attore non cerco più solo un personaggio, ma la funzione di un tutto.
Capisci quindi perché Jung è andato a cercare nelle profondità dell’uomo servendosi del mito. Il mito spinge oltre il limite, aiuta a comprendere ciò che non si potrà mai conoscere con esattezza.
La scienza è un continuo progredire. Così la filosofia non è solo “sofia”, ma ricerca della conoscenza. Ecco se si prova a trattare questi processi senza utilizzare un codice mitologico ci si ritrova a parlare solo di sesso e non di Eros. Amor che muove il sole e l’altre stelle! La nostra compagnia si chiama Compagnia del Sole, capite? Anche se parlo greco?

Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali




Epica Etica Etnica Pathos. Un racconto da Bari

Epica [La riscoperta del tu]. È Odissea il vero titolo sotto cui si raccontano le gesta dell’eroe greco Ulisse? In realtà, l’Odissea è una catalogazione postuma, un “nome di comodo” che sorge quando gli infiniti rivoli delle infinite storie si cristallizzano e si tramandano in un’opera, che arriva nel tempo fino a noi. Ma Flavio Albanese ci ricorda subito che Omero forse non esiste, o meglio, ora (che ce lo siamo inventato) sì che esiste, ma magari non è mai esistito. Così, il titolo dello spettacolo, che significativamente non è “Odissea” ma Canto la storia dell’astuto Ulisse (una “super-produzione” Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Gioco Vita, Compagnia del Sole), ci suggerisce di buttar via il libro e provare a recuperare il carattere orale della storia, la sua natura di “mormorio collettivo” che va di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, che si perde nella notte della civiltà ma da quella notte trae linfa, poiché i personaggi che la popolano sono oscuri a se stessi e si scoprono narrandosi, sono l’uomo che per la prima volta contempla la propria ombra, e le proprie ombre. Ma per farlo ha bisogno delle muse. E, visto che siamo a teatro, con i ragazzi, ecco che le muse diventano i bambini.
L’attore si rivolge infatti a loro direttamente, come a chiedere “cantami, cantatemi voi delle gesta di Ulisse, ditemi cosa sapete di lui”. Il recupero dell’oralità nella narrazione è appunto la “riscoperta del tu”, di come le storie nascano dall’ascolto di chi le fruisce ancor più che dalle parole di chi le racconta. «Ma dai, sì che lo sappiamo cos’è la guerra di Troia», dice un bambino dalla fila destra, «gli eroi? Gli eroi sono forti» urla un altro dal centro, «coraggiosi» si sente dalla sinistra. Albanese li incalza e li imbecca, modellando lo sviluppo dello spettacolo e la propria recitazione sulle loro risposte. Così, può capitare che si saltino interi passaggi, o che si rida dell’apparente incoerenza di alcune vicende, perché ciò che si rincorre in scena non è l’esattezza della trama o la fedeltà a un testo ma la convergenza di attore e pubblico verso il medesimo approccio partecipativo. Verso un medesimo impeto di ricerca («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» è la prima frase che rintocca sul palco).
Allora il viaggio diventa un viaggio attorno alla parola e alle sue sfumature («metis» è un concetto un po’ intraducibile, forse potrebbe essere la cazzimma), un’esplorazione dei confini del pensiero e delle possibilità di conoscenza. Epiche non sono le gesta, epica è l’altezza delle domande che di volta in volta ci si pone, e che, in qualche modo, ci conducono ai limiti dell’epica stessa. Ulisse è infatti l’eroe che fonda la modernità, rinunciando a essere immortale e accettando pienamente la propria finitudine. Spezza il tempo circolare, e ne fa una linea di cui vivere l’esaurirsi e la decadenza. È da qui che nasce l’etica, “la scoperta del tu”. Forse è da qui anche che il mito smette di bastare, e arriva il teatro.

Tomcat

Etica [Nelle sfumature della libertà]. Quando il cielo di carta del teatrino – di pirandelliana memoria – si strappa e compare un buco, gli dei che fino ad allora avevano guidato e sostenuto le azioni degli uomini vengono meno; l’uomo è perso, senza punti di riferimento a cui guardare o dare colpe; proprio perché diventa libero di scegliere cosa fare, come agire, quale strada percorrere nel buio dell’incertezza, nel futuro che avanza tra dubbi e domande. Quale comportamento tenere di fronte alla vita che ci mette alla prova quotidianamente? Come sapere se un’azione che compiamo sia giusta o sbagliata? Che conseguenze avrà per me, per il mio prossimo e, più in generale, per la società? Sono queste domande che forse il tempo del teatro permette all’uomo di affrontare (e a quei giovanissimi appena entrati in fase adolescenziale a cui si rivolge un certo tipo di spettacoli), perché non contiene in sé la soluzione, ma propone allo spettatore materiale di riflessione, facendogli compiere un percorso, chiedendo ascolto sì, ma non una risposta immediata: si sedimenta negli occhi e nella mente di chi sta seduto in platea offrendo nutrimento per lo spirito. Il giovane uomo (ma più in generale lo spettatore) – che superati l’innocenza e il disincanto propri dell’infanzia piomba sperduto sotto quello strappo nel cielo di carta – si ritrova nel buio della sala teatrale solo con la propria coscienza e allo stesso tempo è parte di una comunità che si pone le stesse domande. Si compie il rito del teatro:  insieme si vive un’esperienza che presuppone un ragionamento, impegno, responsabilità, crescita, empatia; ci si confronta con quella che chiamiamo etica.
Parte da questa Christian Di Domenico con Mio fratello rincorre i dinosauri, spettacolo rivolto agli adolescenti , prodotto da Arditodesio e tratto dall’omonimo libro edito da Einaudi, in cui la scelta di tenere un figlio con la sindrome di down permette e comporta alla famiglia Mazzariol di vivere l’esperienza unica, difficile e controversa di confrontarsi continuamente con il giudizio altrui ma soprattutto con la propria coscienza. Giacomo Mazzariol, dopo un’infanzia trascorsa spensieratamente, una volta raggiunta la fase dell’adolescenza deve far i conti con le proprie idiosincrasie e capire come non vergognarsi di Giovanni, il fratello con un cromosoma in più (e la passione sfrenata per i dinosauri) su cui il protagonista della storia riversa paure e incertezze, tenendolo nascosto agli amici e non difendendolo dallo scherno dei bulletti del paese. Di Domenico si fa un narratore dal piglio disincantato, ironico, a tratti forse si serve di una comicità troppo facile, ma è anche affilato e pungente, senza offrire fino in fondo un proprio giudizio, ma impiegando pause di sospensione che lasciano spazio al giovane spettatore di essere riempite con un proprio ragionamento. La voglia di essere invisibile, il desiderio di non avere un familiare incapace di badare a se stesso, gli interrogativi su cosa succederà in futuro e chi si occuperà di Giovanni e l’urlo quasi ricacciato in gola di “vorrei non fossi mai nato”, inevitabilmente si scontrano con le considerazioni del pubblico che a sua volta è portato a chiedersi quale comportamento avrebbe tenuto se fosse stato al posto di Giacomo; a quanto in fondo sia semplice giudicare cosa sia giusto o sbagliato se quella scelta non ci vede implicati in prima linea. Il modo scanzonato di Christian Di Domenico di raccontare come la vita ci spinga a prendere posizioni su questioni spinose e dalle mille possibili sfumature (contro un’ottica binaria e semplificativa di bianco/nero e giusto/sbagliato dove sempre più spesso la nostra società sembra dirigersi) ci costringe a parlare di quell’etica con cui facciamo i conti per scoprire e relazionarci con l’altro da sé, ma in primo luogo anche a rispondere a se stessi e alla propria coscienza.
Se l’aborto in Mio fratello insegue i dinosauri è solo accennato è invece ben presente nello spettacolo Tomcat di Bottega Bombardini coprodotto da Teatro Stabile di Mercadante e Casa del Contemporaneo, proposto ai ragazzi dai 14 anni. In un futuro distopico che ricorda la serie tv Black Mirror gli esseri umani sono sottoposti a degli screening obbligatori che impediscono a chi abbia malattie genetiche o malformazioni di svilupparle o addirittura di nascere. La storia di Jesse, intrappolata in una gabbia di cristallo – poiché descritta come “raro soggetto psicopatico” in questo domani atipico e sottoposta ad analisi che la trasformano in cavia negandole di crescere liberamente e di relazionarsi con i suoi coetanei – si intreccia con la storia del dottor Charlie che vorrebbe impedire alla moglie di portare avanti una gravidanza in quanto il feto è affetto da fibrosi cistica. E allora «la fortuna di essere liberi, essere passibili di libertà che sembrano infinite» – come cantavano in Narko’$ i CCCP – diviene qui solo un ricordo dove la ricerca scientifica può determinare la vita e non ammette margini di errore o di diversità, proprio come vi sembrerebbe incappata Jesse. Se però nello spettacolo è fin troppo facile schierarsi con la donna che a tutti i costi vuole dare una possibilità di vita al suo bambino lottando contro le leggi e suo marito – verso cui si è portati invece a sviluppare distanza e repulsione, figura, la sua, troppo negativamente stereotipata –, nella società di oggi troviamo quasi una situazione ribaltata: la legge 194, che permette alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza e che in questi giorni compie 40 anni dalla sua entrata in vigore, non gode di ottima salute come dimostrano inchieste recenti; troppi obiettori di coscienza e troppi pochi dottori disponibili a effettuare l’aborto. E allora ci si chiede se questa distopia proposta nello spettacolo non sia fuori fuoco per certi punti di vista. Si pone sì domande etiche importanti Tomcat, soprattutto rivolgendosi ad adolescenti che si affacciano alla vita, ma lo fa quasi con la volontà di guidare uno sguardo, spingendoci a schierarci e non a domandarci cosa faremmo se.  I confini etici della ricerca scientifica e umana qui evocati sono nella realtà ancora più labili, dimostrano come l’equilibrio tra diritto, obbligo e libertà di scelta sia scivoloso e impervio, non semplificabile in stereotipi netti di buono/cattivo e giusto/sbagliato; servono tante domande e infinite risposte aperte per instillare dubbi e perplessità che permettano di far sviluppare una propria etica negli occhi di chi è seduto in platea e si sta affacciando alla vita. Questi giovani spettatori sono i cittadini di domani e non possono prescindere dalla complessità del mondo: ci sono innumerevoli sfumature nelle possibilità di affrontare le difficoltà del nostro quotidiano e al teatro è affidato il compito di farle risaltare, diventando terreno aperto allo scontro e al confronto.

Sogno

Etnica [Una lingua minore?]. Ma questo connubio, questo insistito “ingorgo” scenico che lega la responsabilità delle proprie azioni con il mistero della nascita e dell’origine ci ricorda che “etica” significa, innanzitutto, provenienza. Ovvero la lingua che ci ritroviamo a parlare e a tradire quotidianamente, quell’incrocio di mentalità e culture che ci vanno a comporre. «I fiumi segreti e immemorabili che convergono in me» li chiamava Borges.
Percorrendo le proposte del festival, viene in mente di come il teatro ragazzi – se lo si considera una poetica e non mera categoria ministeriale – possa appunto essere un “continuo ragionare attorno alla provenienza”, non da ultimo la provenienza in quanto “tradizione teatrale”. Spettacoli quali Sogno di Fontemaggiore Teatro, Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale, lo stesso Canto la storia dell’astuto Ulisse di e con Flavio Albanese e, in qualche misura, Il principe felice con lieto fine di Principio Attivo Teatro si aggirano fra le “basi” della presenza scenica e del metodo attoriale, raggiungono una semplicità di linguaggio che si fa quasi trasparente, a svelare le “meccaniche artigianali” che il linguaggio sostengono e infine proiettano sul palco. Ritroviamo infatti la commedia dell’arte e il grammelot, gestualità che stanno a metà strada fra la danza e l’arte circense, modalità di narrazione immersiva ma al tempo stesso dialogica, l’agire puro del corpo nello spazio e nella pelle dei personaggi. Il tutto a un grado di leggibilità che verrebbe da definire “da manuale”.
Recuperare uno sguardo bambino, assumere l’infanzia come principio di creazione teatrale – lo abbiamo ripetuto da più parti – significa appunto arrivare a fare della semplicità un sinonimo di felicità espressiva. Nel migliore dei casi, raggiungendo una pulizia e un’essenzialità del proprio stare in scena che unisca le generazioni nella medesima meraviglia fruitiva. Nel peggiore, procedere per mera sottrazione, abbassare i toni e il livello affinché certi codici e certi intenti o concetti risultino “comprensibili” anche ai più piccoli. Eppure, non è detto che nell’abbassamento, nello scarto, finanche nel semplicismo stesso (purché se ne sia consapevoli) non vi siano dei germi fecondi e delle possibilità artistiche. Gli spettacoli citati fanno uso a volte del dialetto, a volte di regionalismi e voci per nulla “lavorate” che avvicinano gli attori agli spettatori invitando i secondi a non prendere troppo sul serio i primi (il narratore dell’Odissea di tanto in tanto si scompone, uscendo dal personaggio e apostrofandoci con evidente accento), mettono in campo danze e movimenti di stampo prettamente mimetico e “sguaiatamente naturalistico” (una delle danzatrici di Cappuccetto Rosso zompetta qua e là sul palco a mo’ di capretta), non temono di ripetere parole e gesti per meglio sottolineare alcune tinte e situazioni della trama (dove l’uso del refrain scava il ritmo stesso dello spettacolo, come in Sogno), imperniano la recitazione sul sentimentalismo e sulla commozione (magari nella salsa dolceamara, o meglio, lietamente tragica di Il principe felice con lieto fine).
È un caleidoscopio di mugugni, versolini, risate anche facili, dialoghi scarni. Il teatro-ragazzi come lingua minore? Se per “lingua minore” intendiamo quella capacità di scardinare gerarchie sintattiche e semantiche, di far vibrare le parole di risonanze interne, che Deleuze attribuiva a Kafka e poi per traslato a Carmelo Bene, perché no? Potrebbe essere una sorta di “laboratorio a scena aperta” in cui ritrovare, assieme all’abc della pratica teatrale, anche un principio per la sua messa in discussione. Un peculiare dialetto scenico, un particolarissimo idioletto che già nel pronunciarlo svela la propria natura plurale, palpitante e composito “meticciato puro”, e duro.

Zanna Bianca (ph:Maurizio Bertoni)

Pathos [L’emozione della pedagogia]. È un’eterogeneità che spesso ci avvince e ci sorprende. Riuscendo a farlo per vie che sembrano tra l’altro totalmente opposte fra loro. Se il Pollicino di Teatro della Tosse e Teatro del Piccione (con la regia di Manuela Capece e Davide Doro) rende il palco un antro oscuro, una sorta di caverna gelida e spaventosa in cui siamo invitati a entrare, Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini pare invece giocare più sulle tinte calde, sul recupero della descrizione naturalistica e paesaggistica, utilizzando la scena come una tela per dipinti in cui riverberano colori, precisi aggettivi e nomi propri di piante e di animali.
Entrambi partono dal vuoto. Simona Gambaro e Paolo Piano, gli attori di Pollicino, sembrano veramente minuscole figure nel nulla, mentre lo spazio teatrale si allunga in lungo e in largo diventando una prateria sterminata. Non c’è niente, nessuna scenografia, nessun oggetto o maschera, solo i corpi e le voci dei protagonisti. E sono proprio queste ultime, le voci interiori della tormentata coscienza di due genitori che hanno abbandonato i loro figli, a essere “sputate” e amplificate nel vuoto, fino a assumere una densità e una consistenza granitiche, fino a farsi esse stesse “scenografia piena”. Anche Luigi D’Elia ha poco attorno a sé: un fondale e alcuni lupi scolpiti in ferro che delimitano il suo spazio d’azione. Non ha bisogno di muoversi molto. O meglio, lo fa nel piccolo: sono micro-movimenti, gestualità minime e improvvisi scarti del dettaglio a veicolare la narrazione. A volte, l’emozione è tutta in uno scatto di mascella. Altre, la ritroviamo concentrata in una breve pausa del parlato. In generale, c’è una rispondenza esatta e potentissima fra luci, corpo e parola, che concorrono armonicamente a toccare quelle corde più sensibili e profonde del sentimento di noi spettatori.
Si tratta quasi di due diverse idee di teatro a confronto. Manuela Capece e Davide Doro spingono il pathos tutto verso l’interiorità. Aprono una voragine in scena che pare risucchiarci dentro di sé. Esplorano la coscienza, anzi il rimosso, non descrivono un bosco, con i suoi alberi e i suoi sentieri, ma la paura che si ha di quel bosco, ovvero la “selva” dantesca che è fatta solo di smarrimento e abbandono. Ci parlano da un fondo, da una fossa inaccessibile. Infatti, gli attori sono davanti a noi ma è come se li vedessimo dall’alto, ci sentiamo di sporgerci dalle nostre poltroncine per meglio scrutare. Al contrario, Luigi D’Elia e Francesco Niccolini ci ributtano contro lo schienale, seppur dolcemente. Per loro il pathos si risolve in una esteriorità pura e variopinta. Si concentrano sugli arbusti e sul fango, scivolano con le parole sul ghiaccio, raccontano dei colori del cielo e di un’eccitazione sensuale che si spande nell’aria. La loro è una vera e propria “drammaturgia della pelle”. Non della carne, che presuppone già un dentro, ma scrittura epidermica, testimonianza amplificata per recettori sensoriali.
Sono comunque domande adulte. Non a caso, non c’è mai un personaggio bambino in scena. Di fronte alla fiaba di Pollicino o alla fabula romanzata di Zanna Bianca, sia Capece/Doro che D’Elia/Niccolini si chiedono «come parla a me, “grande”, questa storia? Come mi scuote e mi impressiona?» Il loro teatro per e con i bambini sta allora tutto nella condivisione di una “debolezza” (della paura e dell’angoscia, ma anche del pianto e dell’incanto “facili”). Nel dismettere i panni dell’adulto, che si vuole forte e sicuro, senza però scimmiottare il bambino ma offrendogli uno spaesamento, altro ed enigmatico eppure comune.
Offrendogli il mistero dell’empatia e dell’emozione, che è già un principio pedagogico. Forse l’unico.

Francesco Brusa, Carlotta Tringali