Vedere il lupo da vicino: conversazione con Zaches Teatro

«Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno
già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono
essere uccisi»

G. K. Chesterston

La compagnia Zaches Teatro utilizza questa citazione per presentare il suo Cappuccetto rosso al festival “Teatro
fra le generazioni”. Una produzione in collaborazione con Giallo Mare Minimal
Teatro, Fondazione Sipario Toscana, La Città del Teatro e Regione Toscana. In
scena, gli interpreti Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Daria Menichetti.

A partire dalle domande su cui ci stiamo interrogando nel corso di questa
IX edizione di “Teatro fra le generazioni” abbiamo intavolato una breve
conversazione con la regista Luana Gramegna (che si è occupata anche della
drammaturgia e della coreografia), Francesco Givone (scene, luci, costumi e maschere)
e Stefano Ciardi (progetto sonoro e musiche originali).

Negli ultimi anni si parla spesso di formazione del pubblico. Quale pensate
sia il legame tra arte e pedagogia?

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia
e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la
nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo
intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.
Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico
quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è
perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione
più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante
offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni
che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli
insegnanti.

A proposito di stimoli: oggi i bambini sono abituati a un sovraccarico di
informazioni, a un flusso rapido di immagini. Voi comunicate attraverso la
danza, la maschera, le ombre e nel vostro spettacolo ci sono molti momenti di
silenzio. Quali sono le ragioni di questa scelta?

Forse il problema più grande degli ultimi anni è legato al ritmo, che
spesso ci obbliga a creare montaggi sempre più serrati per seguire il tipo di
fruizione a cui sono abituati i giovanissimi. Nel nostro modo di lavorare c’è
la volontà di recuperare ciò che da sempre appartiene alla memoria teatrale e
umana, come le maschere e le ombre, che colpiscono il nostro
immaginario più di qualsiasi altro linguaggio. Si tratta di strumenti semplici
ma capaci di parlare ai bambini di oggi.

Lo spettacolo è consigliato a partire dai 4 anni, pensate che questo tipo
di lavoro sia adatto a un pubblico così giovane?

Noi lo consigliamo dai 4 anni perché pensiamo che i bambini a quell’età possiedano la capacità di operare fortissime associazioni attraverso l’uso delle immagini, senza la necessità della parola, che spesso porta a chiudersi dentro alcuni schemi mentali. Nel percorso verso l’età adulta più impariamo, più perdiamo qualcosa. I bambini invece hanno ancora la capacità di avvertire l’archetipo della fiaba, non a livello concettuale, ma emozionale ed è questo che a noi interessa. Esiste già una grande offerta di spettacoli didattici che si occupano di veicolare informazioni, ma per noi è importante che il bambino conservi un’emotività viva.

Il linguaggio che usiamo non è fruibile da tutti allo stesso modo, ma siamo convinti che non sia una debolezza, bensì un punto di forza. Lo spettacolo, che rispetta la struttura originaria della fiaba, può essere letto in modo stratificato: un pubblico più preparato potrà individuare tutti i simboli che la fiaba contiene, esistono però anche livelli di lettura più semplici.

Per la messa in scena del vostro spettacolo avete consultato diverse
versioni della fiaba di Cappuccetto rosso. Come avete presentato agli
spettatori gli elementi più inquietanti e crudeli contenuti in esse?

La fiaba nasce come racconto indirizzato non soltanto ai bambini. Semplificarla e renderla rassicurante equivale a sminuirla. Non si può privare la fiaba di tutti quegli aspetti inquietanti che le appartengono. Nello spettacolo c’è un momento in cui il lupo scende in platea, ma dopo una tensione iniziale, i bambini di solito cominciano ad accarezzargli il muso. Vedere il lupo da vicino assume una funzione catartica, di svelamento e dunque di superamento della paura. Per noi è un momento fondamentale, perché permette ai bambini di avvicinarsi alla paura, conoscerla, darle un volto. La paura nasce da ciò che non conosciamo. Coraggioso non è chi non ha paura, ma chi decide di non sottrarre lo sguardo davanti a essa. La paura non deve essere censurata, ma gestita. Costituisce una parte importante del nostro essere, della nostra crescita. Non abbiamo intenzione di presentare ai bambini un mondo che non esiste, ma di farli rispecchiare nella realtà in cui vivono, prepararli a un universo che diventa sempre più complicato. Il vero problema, oggi, sono gli adulti che non sanno gestire la paura.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




Dentro la meccanica del cuore: conversazione con la compagnia MaMiMò

La seconda conversazione incentrata sulla relazione tra arte e pedagogia nasce dalla visione de La meccanica del cuore. Lo spettacolo è tratto dal romanzo omonimo di Mathias Malzieu e coprodotto dal Centro Teatrale MaMiMò insieme al Teatro Gioco Vita, con l’adattamento di Marco Maccieri e Angela Ruozzi (che firmano anche la regia).

Abbiamo incontrato Angela Ruozzi e i tre attori Fabio Banfo, Cecilia Di Donato e Paolo Grossi.

Quando parliamo di teatro fra le generazioni si pensa inevitabilmente al rapporto tra arte e pedagogia. Come si declina questo legame nel vostro lavoro?

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono. Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Crediamo che il punto di forza dell’aspetto pedagogico – pedagogico non didattico! – derivi dal fatto che questo lavoro si sviluppa a partire da tante domande. Il teatro non deve dirti cosa pensare, qual è la cosa giusta da fare: è necessario che ciascuno si ponga la propria personale domanda, altrimenti si rischia di insinuare una netta distinzione tra bene e male.A quel punto l’arte può cadere nella demagogia e imporre una sola via percorribile.

Nell’epoca delle nuove tecnologie, da dove nasce l’idea di accostare il
teatro delle ombre alla presenza fisica degli attori in scena?

Principalmente dalla voglia di lavorare con Teatro Gioco Vita e dalla lettura del testo di Malzieu, che contiene una chiave onirica, poetica e visionaria, tale per cui non erano sufficienti i mezzi attorali classici. Abbiamo sentito la necessità di aprirci a panorami nuovi, a immagini, evocazioni; quindi ci siamo rivolti a maestri come Nicoletta Garioni e Fabrizio Montecchi (a loro spetta la cura di sagome, scene e ombre ndr) che ci hanno insegnato tanti loro segreti. È grazie a loro se lo spettacolo ha la capacità di esprimersi anche attraverso immagini e ombre. Quando ci siamo resi conto che le parole non erano sufficienti, anzi rischiavano di appiattire significati molto più ampi e complessi, abbiamo capito che le ombre erano necessarie al percorso che ogni attore costruisce scena dopo scena. Giocare con le ombre è un esperimento molto complesso da gestire, perché quando sei da questa parte del velo non hai la percezione e la consapevolezza di quello che appare dall’esterno. Necessita di grande controllo e lucidità. L’ombra non è solo un elemento estetico, è uno scarto di linguaggio che dà un senso diverso alla storia e racconta qualcosa che non si può toccare ma solo percepire. L’ombra racconta l’invisibile, fa vedere l’anima.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci