A Castelfiorentino gli spettacoli si fanno alle nove: istantanea dal primo giorno

A Castelfiorentino gli spettacoli si fanno alle nove. Ma non di sera. Di mattina. Già perché si comincia negli orari scolastici al Teatro del Popolo, quando le maestre hanno già raccolto i gruppi di spettatori da accompagnare fino alla platea. Se lo chiederanno se le poltrone rosse avranno qualche cuscino per vedere meglio? Forse no, ma certo a vederli da dietro questi microspettatori fa un po’ effetto, ché quasi neanche arrivano all’altezza dello schienale, fanno silenzio finché possono, poi il contagio di qualche risata, di un piccolo accenno di meraviglia che gli ruba gli occhi e li affascina con qualcosa di più grande ancora, come se quell’attrazione fosse più forte in uno spazio condiviso, di una comune esperienza.
Teatro fra le generazioni, il festival diretto da Renzo Boldrini nella provincia toscana, inizia proprio da quella preposizione inabissata nel mezzo tra i due termini in relazione: il teatro, ossia quel che nella scena s’agita a un possibile ascolto, le generazioni al plurale, convocate assieme perché il luogo promuova lo scambio sulla base della fruizione concreta e sensibile.

È una storia di leggende quella che apre la giornata, la firma Giacomo Pedullà, regista di Teatro Popolare d’Arte per il Mare Mosso scritto da Manuela Critelli. Leggende marine di pescatori si affacciano nel dialogo di un passaggio testimoniale, pedagogico, da un padre a un figlio in procinto di far salpare la barca verso il mare largo, alla ricerca di pesci, ossia del sostentamento, della vita. Ma nella loro relazione nulla avrebbe lo scarto di una scoperta, se non intervenissero eventi esterni a raggiungere da estremi opposti il mondo arcaico della nautica, entrambi come degli interventi contemporanei su ciò che pare viva nel tempo fermo di un dialogo diretto con i miti dell’epica fantastica sottomarina. A contatto i due estremi – il cui punto primario è una ragazza un po’ frivola rimasta per caso sulla barca – sembrano rintracciare punti in comune, forse proprio in virtù di quella staticità evolutiva che trattiene il mito coevo del presente, evidenziando la distanza con il tema portante, ossia quella migrazione coatta di cui soffrono i fondali del Mediterraneo. Al fine di tenerne il filo, il racconto vive in scena su un sistematico ricorso all’evocazione leggendaria (Colapesce, Ulisse, Scilla e Cariddi), innescata anche attraverso l’uso di tecniche di proiezione sul telo delle vele, a farsi ora mare ora cielo stellato; ma se nobile è il tentativo di stimolare il pubblico su un tema emergente e attuale, ancora l’insegnamento morale appare troppo didattico e concluso in una struttura aneddotica, poco indagato attraverso un maggiore spaesamento di cui le forme teatrali saprebbero disporre.

Ca’ Luogo d’Arte di Maurizio Bercini fa spostare invece la platea su montagne innevate, per dare vita alla fiaba in sette storie La regina della neve, scritta dal danese Hans Christian Andersen a metà dell’Ottocento e che narra del viaggio di formazione compiuto da Gerda, alla ricerca del suo amico Kay sparito nel bosco per mano della regina della neve. Se il lavoro è ancora in fase di studio, la resa scenica sembra già molto avanzata e la volontà degli attori di conquistare l’ascolto sembra aver già trovato un buon punto di contatto. La scena è curata e delimitata da una pedana su cui svolgere parte delle azioni di relazione e di racconto, su cui ricevere la neve dall’alto, su cui ampliare l’immaginazione di chi assiste a farsi ora casa, ora foresta, ora fiume, ora strada; i tre attori passano per i personaggi con fluidità, sanno che alla base c’è un patto di fiducia e che non hanno bisogno di dare spiegazioni, ma grazie alla mediazione teatrale possono spingersi a essere qualcosa utilizzando elementi semplici come un cappello a fare il personaggio o uno scheletro di bastoni a fare la struttura di una casa; grazie a una giocosità palpabile, solo a volte spinta troppo oltre con battute non cristalline, sanno stimolare impulsi di curiosità verso il tema da un lato e la sequenza della vicenda dall’altro.

La piccola storia del melo incantato è storia piccola che ha una versione più grande, da palco, ma è in una stanza per pochi spettatori in circolo che Giacomo Verde, altro storico esponente del teatro infanzia e di ricerca, la porta in ascolto per pochi minuti. A differenza dei primi due lavori, attorno allo schermo piatto disteso che una geometria solida trasparente proietta in forma piramidale, non ci sono bambini tra gli spettatori e questo impedisce di verificarne una fruizione dedicata. Gli adulti sentono la voce di Verde che fuori scena narra una storia popolare di origine polacca, una madre sola fatica alla ricerca di un lavoro per il figlio che non sia soltanto di sostegno alla scarsa ricchezza familiare ma che sia un motore di felicità per la loro vita. La semplicità estrema del racconto, che tiene in sé certi stilemi della struttura fiabesca classica come la ripartizione delle prove da affrontare prima di quella risolutiva o l’apparizione come svelamento della scelta da compiere, non è tuttavia sostenuta da una qualità affabulatoria limpida che renda fluidi i passaggi del testo, né da un uso non didascalico delle immagini, bloccate a sottolineare le fasi di una vicenda già di per sé stessa esile.

Ma gli spettacoli non sono che un passaggio di domande, molte delle quali affiancheranno la crescita di questi bambini, un giorno adulti, che avranno tutto il tempo di dispiegarle tra le esperienze formative, imparando come le immagini sappiano ricreare un contesto esistenziale in cui misurarsi, una visione dopo l’altra. A fine giornata vanno via, in fila indiana seguiti dalle maestre, come pulcini lungo la strada indicata da una guida. A ritroso la stessa strada che hanno fatto, al mattino presto, per arrivare in teatro.

 

Simone Nebbia