Nella tana dell’arte. Una giornata con Maurizio Bercini

Maurizio Bercini, allievo di Otello Sarzi e per venticinque anni direttore artistico del Teatro delle Briciole, fondato nel 1976 insieme a Letizia Quintavalla e Bruno Stori, nel 2001 da vita, insieme a Marina Allegri, a Cà luogo d’arte. Andiamo a trovarlo per un’intervista nella campagna di Gattatico, dove si prepara per il debutto, al festival Colpi di Scena, di Caro Orco diretto da Davide Doro della Compagnia Rodisio. Uno spettacolo in cui, sulla scia de L’Orco, di Maurizio Bercini e Marini Allegri, che andrà in scena, in serale, sempre al festival ideato da Accademia Perduta Romagna Teatri, si continua a indagare la figura del personaggio più temuto delle fiabe. Ci accolgono i colori sgargianti della vecchia baracca di Otello Sarzi, un vero e proprio pezzo di storia che riposa beato in un prato verde. Ha inizio così la nostra visita, che è un tuffo nella poetica di Maurizio Bercini, la cui sapienza artigianale attraversa ogni oggetto della casa-laboratorio, che visitiamo con l’entusiasmo di chi ha accesso a un piccolo museo per pochi visitatori.

Verso Gattatico. Un’introduzione alla figura di Maurizio Bercini (con Cira Santoro):

Maurizio Bercini: «Ho iniziato con la compagnia del Collettivo di Parma, compagnia che ora gestisce il Teatro Due. Era appena nato il famoso decentramento: anche per i comuni piccoli c’era un grosso patrimonio di teatri da restaurare e la comunità europea cominciava a finanziare il restauro delle sale più significative. Allora a Parma c’era un festival di teatro molto bello, organizzato dalla compagnia del Collettivo. Lì ho rivestito il ruolo di Direttore di Palcoscenico

 

«Una notte con Letizia Quintavalla ci siamo recati in modo molto estemporaneo da Otello Sarzi per chiedere di occuparci di burattini: il giorno dopo abbiamo iniziato io e Letizia, dividendoci lo stipendio di una sola persona e stabilendoci a vivere da lui. Otello era particolare, ma era bravissimo in qualsiasi operazione artigianale. Lui era burattinaio, mentre il nonno Francesco era attore. Diceva di aver fatto i burattini solo perché c’era la guerra e non poteva andare in giro con una compagnia di persone. Allora si è creato una “compagnia” teatrale che potesse stare in una valigia e gli permettesse di girare.»

 

Marina Allegri: «Fare teatro per l’infanzia voleva dire fare territorio, aggregare territori. In quel senso si trattava di un teatro politico: erano operazioni basate su un pensiero molto forte. Si faceva ricerca con in mente quell’orizzonte, c’erano fondi, c’erano le istituzioni, gli assessorati, adesso invece sono i teatranti che cercano semplicemente di “mettere qualcosa” intorno all’infanzia

 

Maurizio Bercini: «Forse la forma che più di tutte sta degenerando è proprio il circo contemporaneo: ora è molto facile prendere delle cantonate, commettere errori di lettura o interpretazione. È stato un po’ snaturato, come il teatro di strada. Soprattutto quest’ultimo direi che è diventato un po’ l’alibi di amministratori, compratori, venditori per risparmiare. Ti si offre solo la “vetrina”, concetto che è secondo me un po’ lo spartiacque fra quello che c’era prima e il dopo, soprattutto dal punto di vista della dignità del lavoro e delle persone. E anche della qualità dei lavori, dell’accoglienza. È avvenuto un ribaltamento: nel momento in cui si è considerato il teatro una vetrina ecco che i protagonisti diventavano quelli che guardavano, non più quelli che facevano gli spettacoli.»

 

«Agli inizi degli anni ’90 siamo arrivati alle Briciole, con 650 spettacoli all’anno, 90 dipendenti e un sacco di lavoro. C’era un dualismo fortissimo a livello stilistico fra me e Letizia Quintavalla e, vista la mole di lavoro, era abbastanza obbligatorio che ci dividessimo le regie. Con 650 spettacoli all’anno, era inevitabile che si formassero praticamente 4 compagnie diverse che giravano. Però nonostante quello, propulsioni e sinergie diverse andavano ad alimentare una visione comune

 

«I bambini vanno abituati anche alla convenzione del teatro e non solo al teatro.»

 

«Per il nostro ultimo lavoro la scenografia infatti è una casa in miniatura, e per me – che sono uno che ama da matti costruire le scene – dover creare un ambiente nel quale poi gli attori devono muoversi è un meccanismo che mi stimola molto. Questo parlando da regista. Da attore, invece, questo giro di essenzialità mi è piaciuto tantissimo, sia che venga messo a punto da me e Marina, sia con Davide Doro (che cura appunto la regia del nostro ultimo spettacolo). Anzi, con Davide, la ricerca dell’essenzialità diventa ancora più rigida, più estrema: l’utilizzo degli oggetti viene ridotto all’osso e si lavoro parecchio su se stessi, cercando di non farsi prendere dal panico. Sai, quando non riesci a risolvere certi passaggi, tendi a pensare a degli escamotage. Davide al contrario ti impone di mantenere la direzione che hai intrapreso, finché le soluzioni per continuare non arrivano spontaneamente

 

Cira Santoro: «Le domande che si facevano ai loro tempi, quando abbiamo iniziato, erano molto pratiche, concrete, artigianali. Rispondevano a esigenze tecniche. Con Letizia Quintavalla ho lavorato per lo spettacolo L’arte di Tatà che facemmo al Crest. C’erano cinque Pulcinella, ognuno con caratteri diversi. Mi ricordo che si parlava poco dei bambini. Era venuto fuori un personaggio del Pulcinella intellettuale, pedante, intelligentone. A un certo punto Letizia mi chiese che immagine stessimo dando dei bambini che studiavano, era una domanda che mi obbligava a immaginarmi qualcosa di diverso nella scrittura. Era una domanda concreta, mentre oggi pensiamo allo spettatore in modo più astratto… dovremmo recuperare quella sapienza artigianale, e pensare a che cosa stiamo costruendo intorno allo spettatore, anche dal punto di vista organizzativo.»

 

Maurizio Bercini: «Lavorando sulla paura, sull’orco… fino a dove puoi spingerti? Se “non si può parlare” qualcosa stride. Mi sembra che oggi chi vende gli spettacoli ha tantissimi timori, e forse in questo senso un problema c’è. Ma, come non si può parlare? Devi studiare il modo per parlare di queste cose, ma non esiste che tu non ne possa parlare.»

Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati

 




Epica Etica Etnica Pathos. Un racconto da Bari

Epica [La riscoperta del tu]. È Odissea il vero titolo sotto cui si raccontano le gesta dell’eroe greco Ulisse? In realtà, l’Odissea è una catalogazione postuma, un “nome di comodo” che sorge quando gli infiniti rivoli delle infinite storie si cristallizzano e si tramandano in un’opera, che arriva nel tempo fino a noi. Ma Flavio Albanese ci ricorda subito che Omero forse non esiste, o meglio, ora (che ce lo siamo inventato) sì che esiste, ma magari non è mai esistito. Così, il titolo dello spettacolo, che significativamente non è “Odissea” ma Canto la storia dell’astuto Ulisse (una “super-produzione” Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Gioco Vita, Compagnia del Sole), ci suggerisce di buttar via il libro e provare a recuperare il carattere orale della storia, la sua natura di “mormorio collettivo” che va di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, che si perde nella notte della civiltà ma da quella notte trae linfa, poiché i personaggi che la popolano sono oscuri a se stessi e si scoprono narrandosi, sono l’uomo che per la prima volta contempla la propria ombra, e le proprie ombre. Ma per farlo ha bisogno delle muse. E, visto che siamo a teatro, con i ragazzi, ecco che le muse diventano i bambini.
L’attore si rivolge infatti a loro direttamente, come a chiedere “cantami, cantatemi voi delle gesta di Ulisse, ditemi cosa sapete di lui”. Il recupero dell’oralità nella narrazione è appunto la “riscoperta del tu”, di come le storie nascano dall’ascolto di chi le fruisce ancor più che dalle parole di chi le racconta. «Ma dai, sì che lo sappiamo cos’è la guerra di Troia», dice un bambino dalla fila destra, «gli eroi? Gli eroi sono forti» urla un altro dal centro, «coraggiosi» si sente dalla sinistra. Albanese li incalza e li imbecca, modellando lo sviluppo dello spettacolo e la propria recitazione sulle loro risposte. Così, può capitare che si saltino interi passaggi, o che si rida dell’apparente incoerenza di alcune vicende, perché ciò che si rincorre in scena non è l’esattezza della trama o la fedeltà a un testo ma la convergenza di attore e pubblico verso il medesimo approccio partecipativo. Verso un medesimo impeto di ricerca («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» è la prima frase che rintocca sul palco).
Allora il viaggio diventa un viaggio attorno alla parola e alle sue sfumature («metis» è un concetto un po’ intraducibile, forse potrebbe essere la cazzimma), un’esplorazione dei confini del pensiero e delle possibilità di conoscenza. Epiche non sono le gesta, epica è l’altezza delle domande che di volta in volta ci si pone, e che, in qualche modo, ci conducono ai limiti dell’epica stessa. Ulisse è infatti l’eroe che fonda la modernità, rinunciando a essere immortale e accettando pienamente la propria finitudine. Spezza il tempo circolare, e ne fa una linea di cui vivere l’esaurirsi e la decadenza. È da qui che nasce l’etica, “la scoperta del tu”. Forse è da qui anche che il mito smette di bastare, e arriva il teatro.

Tomcat

Etica [Nelle sfumature della libertà]. Quando il cielo di carta del teatrino – di pirandelliana memoria – si strappa e compare un buco, gli dei che fino ad allora avevano guidato e sostenuto le azioni degli uomini vengono meno; l’uomo è perso, senza punti di riferimento a cui guardare o dare colpe; proprio perché diventa libero di scegliere cosa fare, come agire, quale strada percorrere nel buio dell’incertezza, nel futuro che avanza tra dubbi e domande. Quale comportamento tenere di fronte alla vita che ci mette alla prova quotidianamente? Come sapere se un’azione che compiamo sia giusta o sbagliata? Che conseguenze avrà per me, per il mio prossimo e, più in generale, per la società? Sono queste domande che forse il tempo del teatro permette all’uomo di affrontare (e a quei giovanissimi appena entrati in fase adolescenziale a cui si rivolge un certo tipo di spettacoli), perché non contiene in sé la soluzione, ma propone allo spettatore materiale di riflessione, facendogli compiere un percorso, chiedendo ascolto sì, ma non una risposta immediata: si sedimenta negli occhi e nella mente di chi sta seduto in platea offrendo nutrimento per lo spirito. Il giovane uomo (ma più in generale lo spettatore) – che superati l’innocenza e il disincanto propri dell’infanzia piomba sperduto sotto quello strappo nel cielo di carta – si ritrova nel buio della sala teatrale solo con la propria coscienza e allo stesso tempo è parte di una comunità che si pone le stesse domande. Si compie il rito del teatro:  insieme si vive un’esperienza che presuppone un ragionamento, impegno, responsabilità, crescita, empatia; ci si confronta con quella che chiamiamo etica.
Parte da questa Christian Di Domenico con Mio fratello rincorre i dinosauri, spettacolo rivolto agli adolescenti , prodotto da Arditodesio e tratto dall’omonimo libro edito da Einaudi, in cui la scelta di tenere un figlio con la sindrome di down permette e comporta alla famiglia Mazzariol di vivere l’esperienza unica, difficile e controversa di confrontarsi continuamente con il giudizio altrui ma soprattutto con la propria coscienza. Giacomo Mazzariol, dopo un’infanzia trascorsa spensieratamente, una volta raggiunta la fase dell’adolescenza deve far i conti con le proprie idiosincrasie e capire come non vergognarsi di Giovanni, il fratello con un cromosoma in più (e la passione sfrenata per i dinosauri) su cui il protagonista della storia riversa paure e incertezze, tenendolo nascosto agli amici e non difendendolo dallo scherno dei bulletti del paese. Di Domenico si fa un narratore dal piglio disincantato, ironico, a tratti forse si serve di una comicità troppo facile, ma è anche affilato e pungente, senza offrire fino in fondo un proprio giudizio, ma impiegando pause di sospensione che lasciano spazio al giovane spettatore di essere riempite con un proprio ragionamento. La voglia di essere invisibile, il desiderio di non avere un familiare incapace di badare a se stesso, gli interrogativi su cosa succederà in futuro e chi si occuperà di Giovanni e l’urlo quasi ricacciato in gola di “vorrei non fossi mai nato”, inevitabilmente si scontrano con le considerazioni del pubblico che a sua volta è portato a chiedersi quale comportamento avrebbe tenuto se fosse stato al posto di Giacomo; a quanto in fondo sia semplice giudicare cosa sia giusto o sbagliato se quella scelta non ci vede implicati in prima linea. Il modo scanzonato di Christian Di Domenico di raccontare come la vita ci spinga a prendere posizioni su questioni spinose e dalle mille possibili sfumature (contro un’ottica binaria e semplificativa di bianco/nero e giusto/sbagliato dove sempre più spesso la nostra società sembra dirigersi) ci costringe a parlare di quell’etica con cui facciamo i conti per scoprire e relazionarci con l’altro da sé, ma in primo luogo anche a rispondere a se stessi e alla propria coscienza.
Se l’aborto in Mio fratello insegue i dinosauri è solo accennato è invece ben presente nello spettacolo Tomcat di Bottega Bombardini coprodotto da Teatro Stabile di Mercadante e Casa del Contemporaneo, proposto ai ragazzi dai 14 anni. In un futuro distopico che ricorda la serie tv Black Mirror gli esseri umani sono sottoposti a degli screening obbligatori che impediscono a chi abbia malattie genetiche o malformazioni di svilupparle o addirittura di nascere. La storia di Jesse, intrappolata in una gabbia di cristallo – poiché descritta come “raro soggetto psicopatico” in questo domani atipico e sottoposta ad analisi che la trasformano in cavia negandole di crescere liberamente e di relazionarsi con i suoi coetanei – si intreccia con la storia del dottor Charlie che vorrebbe impedire alla moglie di portare avanti una gravidanza in quanto il feto è affetto da fibrosi cistica. E allora «la fortuna di essere liberi, essere passibili di libertà che sembrano infinite» – come cantavano in Narko’$ i CCCP – diviene qui solo un ricordo dove la ricerca scientifica può determinare la vita e non ammette margini di errore o di diversità, proprio come vi sembrerebbe incappata Jesse. Se però nello spettacolo è fin troppo facile schierarsi con la donna che a tutti i costi vuole dare una possibilità di vita al suo bambino lottando contro le leggi e suo marito – verso cui si è portati invece a sviluppare distanza e repulsione, figura, la sua, troppo negativamente stereotipata –, nella società di oggi troviamo quasi una situazione ribaltata: la legge 194, che permette alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza e che in questi giorni compie 40 anni dalla sua entrata in vigore, non gode di ottima salute come dimostrano inchieste recenti; troppi obiettori di coscienza e troppi pochi dottori disponibili a effettuare l’aborto. E allora ci si chiede se questa distopia proposta nello spettacolo non sia fuori fuoco per certi punti di vista. Si pone sì domande etiche importanti Tomcat, soprattutto rivolgendosi ad adolescenti che si affacciano alla vita, ma lo fa quasi con la volontà di guidare uno sguardo, spingendoci a schierarci e non a domandarci cosa faremmo se.  I confini etici della ricerca scientifica e umana qui evocati sono nella realtà ancora più labili, dimostrano come l’equilibrio tra diritto, obbligo e libertà di scelta sia scivoloso e impervio, non semplificabile in stereotipi netti di buono/cattivo e giusto/sbagliato; servono tante domande e infinite risposte aperte per instillare dubbi e perplessità che permettano di far sviluppare una propria etica negli occhi di chi è seduto in platea e si sta affacciando alla vita. Questi giovani spettatori sono i cittadini di domani e non possono prescindere dalla complessità del mondo: ci sono innumerevoli sfumature nelle possibilità di affrontare le difficoltà del nostro quotidiano e al teatro è affidato il compito di farle risaltare, diventando terreno aperto allo scontro e al confronto.

Sogno

Etnica [Una lingua minore?]. Ma questo connubio, questo insistito “ingorgo” scenico che lega la responsabilità delle proprie azioni con il mistero della nascita e dell’origine ci ricorda che “etica” significa, innanzitutto, provenienza. Ovvero la lingua che ci ritroviamo a parlare e a tradire quotidianamente, quell’incrocio di mentalità e culture che ci vanno a comporre. «I fiumi segreti e immemorabili che convergono in me» li chiamava Borges.
Percorrendo le proposte del festival, viene in mente di come il teatro ragazzi – se lo si considera una poetica e non mera categoria ministeriale – possa appunto essere un “continuo ragionare attorno alla provenienza”, non da ultimo la provenienza in quanto “tradizione teatrale”. Spettacoli quali Sogno di Fontemaggiore Teatro, Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale, lo stesso Canto la storia dell’astuto Ulisse di e con Flavio Albanese e, in qualche misura, Il principe felice con lieto fine di Principio Attivo Teatro si aggirano fra le “basi” della presenza scenica e del metodo attoriale, raggiungono una semplicità di linguaggio che si fa quasi trasparente, a svelare le “meccaniche artigianali” che il linguaggio sostengono e infine proiettano sul palco. Ritroviamo infatti la commedia dell’arte e il grammelot, gestualità che stanno a metà strada fra la danza e l’arte circense, modalità di narrazione immersiva ma al tempo stesso dialogica, l’agire puro del corpo nello spazio e nella pelle dei personaggi. Il tutto a un grado di leggibilità che verrebbe da definire “da manuale”.
Recuperare uno sguardo bambino, assumere l’infanzia come principio di creazione teatrale – lo abbiamo ripetuto da più parti – significa appunto arrivare a fare della semplicità un sinonimo di felicità espressiva. Nel migliore dei casi, raggiungendo una pulizia e un’essenzialità del proprio stare in scena che unisca le generazioni nella medesima meraviglia fruitiva. Nel peggiore, procedere per mera sottrazione, abbassare i toni e il livello affinché certi codici e certi intenti o concetti risultino “comprensibili” anche ai più piccoli. Eppure, non è detto che nell’abbassamento, nello scarto, finanche nel semplicismo stesso (purché se ne sia consapevoli) non vi siano dei germi fecondi e delle possibilità artistiche. Gli spettacoli citati fanno uso a volte del dialetto, a volte di regionalismi e voci per nulla “lavorate” che avvicinano gli attori agli spettatori invitando i secondi a non prendere troppo sul serio i primi (il narratore dell’Odissea di tanto in tanto si scompone, uscendo dal personaggio e apostrofandoci con evidente accento), mettono in campo danze e movimenti di stampo prettamente mimetico e “sguaiatamente naturalistico” (una delle danzatrici di Cappuccetto Rosso zompetta qua e là sul palco a mo’ di capretta), non temono di ripetere parole e gesti per meglio sottolineare alcune tinte e situazioni della trama (dove l’uso del refrain scava il ritmo stesso dello spettacolo, come in Sogno), imperniano la recitazione sul sentimentalismo e sulla commozione (magari nella salsa dolceamara, o meglio, lietamente tragica di Il principe felice con lieto fine).
È un caleidoscopio di mugugni, versolini, risate anche facili, dialoghi scarni. Il teatro-ragazzi come lingua minore? Se per “lingua minore” intendiamo quella capacità di scardinare gerarchie sintattiche e semantiche, di far vibrare le parole di risonanze interne, che Deleuze attribuiva a Kafka e poi per traslato a Carmelo Bene, perché no? Potrebbe essere una sorta di “laboratorio a scena aperta” in cui ritrovare, assieme all’abc della pratica teatrale, anche un principio per la sua messa in discussione. Un peculiare dialetto scenico, un particolarissimo idioletto che già nel pronunciarlo svela la propria natura plurale, palpitante e composito “meticciato puro”, e duro.

Zanna Bianca (ph:Maurizio Bertoni)

Pathos [L’emozione della pedagogia]. È un’eterogeneità che spesso ci avvince e ci sorprende. Riuscendo a farlo per vie che sembrano tra l’altro totalmente opposte fra loro. Se il Pollicino di Teatro della Tosse e Teatro del Piccione (con la regia di Manuela Capece e Davide Doro) rende il palco un antro oscuro, una sorta di caverna gelida e spaventosa in cui siamo invitati a entrare, Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini pare invece giocare più sulle tinte calde, sul recupero della descrizione naturalistica e paesaggistica, utilizzando la scena come una tela per dipinti in cui riverberano colori, precisi aggettivi e nomi propri di piante e di animali.
Entrambi partono dal vuoto. Simona Gambaro e Paolo Piano, gli attori di Pollicino, sembrano veramente minuscole figure nel nulla, mentre lo spazio teatrale si allunga in lungo e in largo diventando una prateria sterminata. Non c’è niente, nessuna scenografia, nessun oggetto o maschera, solo i corpi e le voci dei protagonisti. E sono proprio queste ultime, le voci interiori della tormentata coscienza di due genitori che hanno abbandonato i loro figli, a essere “sputate” e amplificate nel vuoto, fino a assumere una densità e una consistenza granitiche, fino a farsi esse stesse “scenografia piena”. Anche Luigi D’Elia ha poco attorno a sé: un fondale e alcuni lupi scolpiti in ferro che delimitano il suo spazio d’azione. Non ha bisogno di muoversi molto. O meglio, lo fa nel piccolo: sono micro-movimenti, gestualità minime e improvvisi scarti del dettaglio a veicolare la narrazione. A volte, l’emozione è tutta in uno scatto di mascella. Altre, la ritroviamo concentrata in una breve pausa del parlato. In generale, c’è una rispondenza esatta e potentissima fra luci, corpo e parola, che concorrono armonicamente a toccare quelle corde più sensibili e profonde del sentimento di noi spettatori.
Si tratta quasi di due diverse idee di teatro a confronto. Manuela Capece e Davide Doro spingono il pathos tutto verso l’interiorità. Aprono una voragine in scena che pare risucchiarci dentro di sé. Esplorano la coscienza, anzi il rimosso, non descrivono un bosco, con i suoi alberi e i suoi sentieri, ma la paura che si ha di quel bosco, ovvero la “selva” dantesca che è fatta solo di smarrimento e abbandono. Ci parlano da un fondo, da una fossa inaccessibile. Infatti, gli attori sono davanti a noi ma è come se li vedessimo dall’alto, ci sentiamo di sporgerci dalle nostre poltroncine per meglio scrutare. Al contrario, Luigi D’Elia e Francesco Niccolini ci ributtano contro lo schienale, seppur dolcemente. Per loro il pathos si risolve in una esteriorità pura e variopinta. Si concentrano sugli arbusti e sul fango, scivolano con le parole sul ghiaccio, raccontano dei colori del cielo e di un’eccitazione sensuale che si spande nell’aria. La loro è una vera e propria “drammaturgia della pelle”. Non della carne, che presuppone già un dentro, ma scrittura epidermica, testimonianza amplificata per recettori sensoriali.
Sono comunque domande adulte. Non a caso, non c’è mai un personaggio bambino in scena. Di fronte alla fiaba di Pollicino o alla fabula romanzata di Zanna Bianca, sia Capece/Doro che D’Elia/Niccolini si chiedono «come parla a me, “grande”, questa storia? Come mi scuote e mi impressiona?» Il loro teatro per e con i bambini sta allora tutto nella condivisione di una “debolezza” (della paura e dell’angoscia, ma anche del pianto e dell’incanto “facili”). Nel dismettere i panni dell’adulto, che si vuole forte e sicuro, senza però scimmiottare il bambino ma offrendogli uno spaesamento, altro ed enigmatico eppure comune.
Offrendogli il mistero dell’empatia e dell’emozione, che è già un principio pedagogico. Forse l’unico.

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Quella gioia che divora lo spazio. Un focus su Compagnia Rodisio

Davide Doro e Manuela Capece (Compagnia Rodisio) pongono grande attenzione al gesto, alla mimica, al movimento in scena nei suoi minimi dettagli. Al Festival Segnali hanno presentato Joy (prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale), uno spettacolo che cerca di raccontare nemmeno una situazione, ma uno stato d’animo, una sensazione impercettibile.
Vi proponiamo un focus su questa proposta, dove a una breve recensione dello spettacolo affianchiamo le parole della compagnia, con cui abbiamo conversato poco dopo la messa in scena.  

C’è un uomo che ha una sfera in mano, l’accarezza, la manipola, la dilata, la compatta, ad un certo punto la sfera immaginaria pulsa e diventa un cuore vivo agli occhi dello spettatore bambino che si trova di fronte a Joy di Compagnia Rodisio. L’uomo danza nello spazio con armonia e precisione adamantina e, nonostante la sua età, non ci racconta delle sue primavere, ma dell’essenza del viaggio che lo ha condotto davanti a noi, sul palco del Teatro Fontana per il Festival Segnali. Esplode il suo corpo, si divora lo spazio, lo abbraccia con una vertigine di ampi movimenti di braccia veloci, poi trattiene in sé quell’universo fagocitato cercando di far risuonare quel carnevale, dentro. L’uomo poi torna bambino e si confronta con l’assenza del corpo a scuola, in un sistema che il corpo lo annulla, lo mette a tacere, lo giudica come fastidioso quando indomabile ed esuberante, elogia l’immobilità non come conquista consapevole ma come possibile spegnimento di una accensione e di un desiderio al fare, all’andare. La sfera, che prima era gioiosa, si trasforma in un’esplosione di rabbia come se i due sentimenti si definissero solo se accostati, in un orizzonte dialogico dove lo scontro è finalizzato alla definizione del sé. E da questo universo mondo che è la costruzione dell’io, si arriva a spostare lo sguardo al di fuori, alla natura, al mondo animale, alle piante e ai fiori, in un esercizio di sguardo che si allontana e amplia, arrivando a puntare il naso all’insù fino alle stelle e all’universo al quale rivolgiamo preghiere, pensieri e interrogazioni capaci di riguardarci. Uno spettacolo dedicato al pubblico di bambini a partire dai 3 anni che ha la virtù di scegliere il linguaggio coreutico, senza paura di sbagliare o essere frainteso, andando dritti al corpo dello spettatore ed elargendo solo un piccolo frammento di racconto tattile ed emotivo: “Faceva freddo. Ero molto piccolo. E avevo paura. Mia mamma, senza mai lasciarmi la mano, si abbassò e raccolse una castagna da terra. Poi mi disse: “Vedi, questa castagna è magica. Tienila in tasca, e quando hai paura e ti senti solo, infila la mano in tasca e stringila forte. Vedrai, andrà tutto bene”. Ovviamente noi sappiamo che quella castagna non è magica, ma per una frazione di secondo, ci crediamo e usciamo dalla sala sereni, dopo aver attraversato svariate tempeste nel mezzo.

Agnese Doria

Lo spettacolo Caino e Abele di Compagnia Rodisio (ph:M.Zanghellin)

Cosa significa utilizzare il movimento nel teatro-ragazzi? C’è un “principio di semplicità” che anima il gesto?

Più che un principio di semplicità, credo che per noi prevalga un principio di onestà, di necessità, di modo che il gesto e il movimento non siano qualcosa di puramente estetico. È quasi una questione di verità. Esattamente come la parola: se nel tuo discorso ci sono parole in più, risultano in eccesso proprio perché non sono necessarie, vere e oneste.
È indubbio che partire da una storia, che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, possa sembrare meno difficoltoso per certi aspetti. Perlomeno come punto di partenza, dopodiché sorge tutta una serie di complessità sul come far arrivare questa narrazione al pubblico. Credo che appunto il “modo” sia la cosa centrale. Quindi non so se l’assenza di una narrazione complichi o meno le cose.
Nel caso di Joy, il pensiero che sta alla base della costruzione dello spettacolo ha seguito una mia esigenza molto personale, intima, per cui non sentivo la necessità di raccontare una storia con uno svolgimento chiaro ma piuttosto di condividere degli stati d’animo. Quindi, il principio che ho seguito è stato più quello di dover creare dell’armonia, laddove la gioia è appunto quella sensazione di essere in armonia con il resto, con l’oltre da sé.

Nel caso di Joy ci si rivolge a una fascia d’età di piccolissimi, dai 3 anni…

Crediamo che più si abbassi l’età, più ci voglia cura. Qualsiasi scelta in scena dev’essere supportata da una forte responsabilità, dal colore alle luci, etc. Questo però non vuol dire che si debba guardare al bambino piccolo intimoriti dal fatto che possa capire o non possa capire, che si debba divertire o non si debba divertire… Noi tentiamo di allargare quanto più riusciamo la “forbice delle loro possibilità di visione”: personalmente penso che un bambino anche molto piccolo possa seguire senza problemi l’opera o una storia drammatica, perché hanno strumenti di rielaborazione molto particolari.
Soprattutto gli spettatori che vanno dai 3 ai 5 anni si muovono nello spazio fra verità e finzione in maniera molto più agile dei grandi. Hanno molta più familiarità con l’elemento magico della scena e quindi puoi prenderti il lusso di proporre delle visioni anche fortemente complesse e ambigue, risulta paradossalmente più facile “osare”. Già con le elementari invece si perde quella capacità di stare fra il vero e il finto, gli strumenti di fruizione si avvicinano sempre di più a quelli degli adulti e subentra la necessità di avere una struttura, che può essere molto banalmente una storia o la riconoscibilità dei personaggi (buono/cattivo, etc.).
Quindi indubbiamente è delicato produrre spettacoli per questa fascia d’età, ma ci si può prendere un ampio spettro di libertà di composizione. Joy in tal senso è una proposta inusuale: ci sono parti che certamente richiamano il divertimento o la risata, ma di fondo è uno spettacolo contemplativo.

Voi lavorate molto anche in Francia. Che differenze ravvisate, soprattutto rispetto alle proposte di danza per i ragazzi?

In Italia è da qualche tempo che si è iniziato a proporre la danza ai bambini, mentre in Francia si tratta di un processo avviato da molti anni. Quindi hai un pubblico che, dai bambini ai genitori, è già abituato al movimento in scena, e questo succede dalla grande città al piccolo villaggio di provincia. Ovviamente la Francia e il Belgio sono un po’ delle eccezioni nel panorama internazionale, dove il sistema è talmente forte e avanzato che rende gli spettatori “pronti” e reattivi, perché è un pubblico fortemente stimolato da una grande varietà di proposte.

Nello spettacolo ci sono gesti molto vicini alla pantomima, al mimo, qualcosa che nel panorama attuale è sempre più raro vedere. Come mai?

Crediamo che sia molto legato al sistema di formazione e accademia. Non c’è più una formazione d’attore completa, che contempli anche queste forme di recitazione. Sempre tornando alla Francia, gli attori sono spesso anche danzatori e musicisti. Le nostre accademie sono invece rimaste a un sistema molto più classico, per cui ci si specializza rispetto a una o massimo due competenze. C’è un livello di formazione magari molto alto che però risulta diviso in settori. Invece in Francia, Belgio o anche Danimarca ci è capitato di vedere spettacoli dove gli interpreti, spesso anche molto giovani, possedevano uno spettro di linguaggi e abilità pressoché totale.
Noi ci siamo formati come autoditatti, affiancando durante gli anni ’90 dei maestri come Letizia Quintavalla, Bruno Stori o Maurizio Bercini, ma non abbiamo mai frequentato l’accademia. Però ci sarebbe piaciuto avere una formazione accademica ma completa, che stimolasse anche uno sviluppo di curiosità il più possibile vario ed eterogeneo. Al contrario, questo tipo di completezza la si deve cercare autonomamente, frequentando seminari, workshop, etc. che sono il più delle volte a pagamento per cui per un attore giovane diventa anche difficoltoso inventarsi il proprio percorso di “educazione teatrale”.

Francesco Brusa, Rodolfo Sacchettini




Tre domande per tre Pollicini. Conversazione con Teatro Paraìso, Eco di Fondo e Teatro del Piccione

Una fiaba oscura, cruda, inquietante, spesso nemmeno raccontata ai più piccoli, entra come fil rouge nella XXIX edizione del Festival Segnali, che ha visto ben tre Pollicino nella sua programmazione. Dal Pulgarcito di Teatro Paraìso (Tomás Fdez. Alonso, Ramòn Monje, Inaki Rikarte, Inaki Salvador) una delle proposte internazionali della rassegna, passando per l’anziano Pollicino di Eco di Fondo (Giacomo Ferraù, Giulia Viana, Libero Stelluti, Andrea Pinna) e concludendo con la fedele versione proposta da Teatro del Piccione (Simona Gambaro, Paolo Piano) e Teatro della Tosse, con regia e drammaturgia di Davide Doro e Manuela Capece, il celebre racconto di Perrault viene messo in scena da differenti angolature.
Abbiamo intervistato le tre compagnie per scoprire da dove venga la spinta e quali siano le scelte fatte per raccontare una fiaba solo in apparenza tanto senza speranza.

Perché avete deciso di mettere in scena Pollicino?

Tomás Fdez. Alonso (Teatro Paraìso): Semplicemente ci sembrava un testo stimolante e desideravamo metterlo in scena. Per prima cosa lo abbiamo proposto al regista, che ci ha pensato sopra e se ne è uscito con la proposta di far diventare il personaggio di Pollicino un anziano. Questo è stato sostanzialmente il nostro punto di partenza. Il resto è stato costruito attraverso l’improvvisazione: da lì si sono create altre situazioni, che hanno innescato ulteriori intuizioni, da cui infine sono nate le scene e i conflitti presenti nello spettacolo. In più, ci siamo posti come condizione di non utilizzare alcuna ambientazione che non fosse quella di una normale stanza d’appartamento: tutte le vicende si sarebbero dovute svolgere negli spazi e con gli oggetti che si possono comunemente trovare in una normale camera. Questo, che potrebbe sembrare una limitazione, si è infine convertito in uno dei punti di forza dello spettacolo. Ci ha infatti permesso di trasformare tanti oggetti di uso quotidiano in qualcosa di diverso, a volte addirittura di farli diventare dei personaggi (come nel caso dei calzini che a un certo punto “impersonano” le figlie dell’Orco della fiaba), oppure di rendere più interessanti ed evocativi elemento che a tutta prima non sembrerebbero così centrali, come gli stivali delle sette leghe che vanno a dare senso a quasi tutto lo spettacolo.

Simona Gambaro, Paolo Piano (Teatro del Piccione): Pollicino è già entrato a far parte di nostri altri spettacoli, ad esempio con Piccoli Eroi. Nonostante si tratti di spettacoli diversi, c’è un’urgenza comune che parte dalla fiaba di Perrault. Nel Pollicino messo in scena qui a Segnali, centrale è l’elemento della paura, quel saper trovare le proprie risorse per affrontare una sfida. Questa paura e questa audacia accomunano Piccoli Eroi e Pollicino, sono l’urgenza che diventano un invito ad avere coraggio e fiducia.
Nel caso di Pollicino, la scelta drammaturgica e registica di Manuela Capece e Davide Doro è stata di mantenere un’assoluta fedeltà alla fiaba, messa in scena senza dare interpretazioni o doppie letture. La scelta, forte, è stata quella di essere nudi e crudi proprio come la fiaba, elementari nell’uso dei suoi simboli, della sua costruzione narrativa e dei personaggi. Una fiaba buia, truculenta, la cui crudezza abbiamo voluto trasmettere anche attraverso una scena che è uno spazio vuoto in cui vivono soltanto parole e personaggi. Paradossalmente però questa fiaba è anche un inno alla vita, al saper andare dentro e oltre le cose: lo spettacolo accade in teatro, un luogo di per sé buio, e i bambini vivono un’esperienza di paura, di inquietudine, che si fa strada, anche concretamente, tra il pubblico. La conquista del tesoro da parte di Pollicino, solo evocato e mai sul palco, nel finale è anche la conquista che il pubblico fa arrivando alla fine dello spettacolo: noi torniamo in scena come genitori e diciamo: «bravi bambini, ce l’avete fatta, siete stati coraggiosi». Questo è il nocciolo di Pollicino che, declinato per un’altra età, era in Piccoli Eroi.

Eco di fondo: Pollicino nasce proprio in un filone della compagnia, teso a indagare miti e fiabe. Da un lato, i miti sono maggiormente dedicati a un teatro per adulti, mentre le fiabe sono riservate ai più piccoli. Tuttavia spesso si mischiano anche perché miti e fiabe hanno delle radici molto comuni, lavorano su paradigmi potentissimi che si possono declinare in qualsiasi modo.
Come sempre, abbiamo sempre prima pensato al tema, di cosa avevamo urgenza di parlare anche a livello personale. È  un periodo della nostra vita in cui, com’è normale, ci dobbiamo assumere maggiori responsabilità, in cui stiamo diventando “genitori dei nostri genitori”. Inoltre, in questo momento stiamo anche portando avanti degli incontri con l’università di Milano incentrati sui caregiver. Quindi, abbiamo subito pensato a Pollicino in quanto fiaba dell’abbandono per eccellenza, assieme a Hansel e Gretel, con cui speriamo di confrontarci prima o poi.
In scena si vede una casa di riposo. Cosa si può dire delle case di riposo? Tutti abbiamo su di esse un’opinione personale, che però non rispecchia un’universalità. È qualcosa di molto specifico, che varia da persona a persona. Nel caso di Pollicino, il protagonista le vede come un inferno ma è chiaro che per molti altri non sia questa la realtà. Siamo stati in delle case di riposo, ne abbiamo osservato il funzionamento, con i bambini infine abbiamo realizzato delle prove aperte che ci aiutano a “rodare” lo spettacolo. Fino all’ultimo ci siamo interrogati se arrivare al punto in cui Pollicino diventa così piccolo da scomparire, avevamo dei dubbi su come potesse essere recepito dai bambini… ci è sembrato che il doppio piano di narrazione funzioni bene. Ai bambini arriva il lato più divertente e divertito, mentre gli adulti si identificano di più con le responsabilità connesse alle scelte da prendere nel momento in cui i propri genitori invecchiano.

Nonostante questi temi di fondo, negli spettacoli c’è anche un uso molto diffuso dell’ironia…

Simona Gambaro, Paolo Piano: Sì, è un doppio registro contraddittorio. Come siamo contraddittori noi in quanto persone lo sono anche i personaggi della fiaba e di conseguenza i nostri ruoli. Ci si completa. I due genitori che noi incarniamo si dimostrano dei disgraziati abbandonando i loro figli. È necessario notare come l’abbandono dei figli sia un fatto che accade oggi, magari lontano dai nostri occhi, ma accade. I genitori di Pollicino, come nella realtà, non sono univoci, non sono cattivi. Sono dei disgraziati che non possono fare altro, o non riescono a immaginare cos’altro potrebbero fare. Quando l’abbandono avviene nella realtà forse è proprio l’unico tentativo di soluzione immaginabile per chi lo mette in atto. Quindi essendo una realtà difficile non abbiamo potuto fare altro che restituirla nella sua complessità. In questi personaggi, in questi ruoli c’è anche la nostra inadeguatezza come esseri umani, la nostra necessità di cercare degli spiragli di felicità anche nella disperazione. È per questo che fanno capolino ironia e leggerezza.
Inoltre l’ironia assume un ruolo importante anche dal punto di vista drammaturgico. Per quanto i personaggi della fiaba siano tagliati con l’accetta, non abbiano nomi – sono il Padre, la Madre, un Boscaiolo e sua Moglie, l’Orco e l’Orchessa – siano monolitici insomma nella loro funzione, portandoli sul palco acquisiscono una rotondità. Tale rotondità e tale ambivalenza mettono “in moto” il pubblico, lo costringono a non restare passivo di fronte allo spettacolo. Se i personaggi fossero piatti, come schizzati su un foglio, saremmo noi come artisti a dare la nostra chiave di lettura, imboccando il pubblico, ma non è ciò che desideriamo per gli spettatori. Pollicino gioca molto sulla soglia, sul confine. Il linguaggio è chiuso, noi siamo immersi nella nostra storia, ma la soglia è permeabile e l’ironia è una delle chiavi d’accesso.

Eco di fondo: Ci siamo divertiti a ironizzare sul concetto del rimpicciolimento, per cui ogni gesto o azione diventa estremamente faticoso da compiere per una persona che si fa via via sempre più piccola (processo che ovviamente allude all’invecchiamento). In questo senso, il mondo delle fiabe è un’ambientazione che facilita a evadere dal realismo, che dunque ci aiuta a percepire le problematicità evidenti ma senza renderle evidentemente drammatiche. Ciò che avviene è dunque una decontestualizzazione delle problematiche concrete, per trasporle in un’ambientazione diversa. Di conseguenza abbiamo preso ispirazione dal ruolo che nella versione di Perrault hanno i genitori di Pollicino, che sono due boscaioli. Da lì è nata la nostra idea di raccontare un boscaiolo, che dunque nel contesto odierno potrebbe essere un progettatore di case e capanne, etc. e la moglie del boscaiolo che si presume invece trascorra più tempo a casa e da lì “assiste” i personaggi delle fiabe, offrendo loro un supporto per via telefonica.

Tomás Fdez. Alonso: Credo che i bambini abbiano molta capacità di resilienza. Nel momento in cui ancora stavamo costruendo lo spettacolo, ci siamo accorti di come Pollicino sia in realtà un testo veramente terrorizzante: parla di genitori che da quanto sono poveri sono costretti a prendere la decisione di abbandonare i propri figli nel bosco, per non vederli morire fondamentalmente. Sono situazioni tragiche, truculente…  Allo stesso tempo però sono storie che appartengono all’immaginario collettivo e la cui origine si perde nella notte dei tempi, sono un patrimonio della cultura occidentale. Come si possono raccontare a bambini piccoli? Durante le prove dello spettacolo, abbiamo conversato con degli psicologi, che ci hanno spiegato come non ci sia problema per i bambini a recepire queste storie, per loro il carattere terrorifico e truculento non ha nessuna importanza. I bambini si identificano con Pollicino, che è un bambino piccolo come loro, che come loro parla poco e ascolta molto, e che ha il coraggio e la forza per uscire dalle situazioni di massima difficoltà. È questo il valore delle fiabe per i bambini. Ecco perché i bambini nel vedere le vicende di Pollicino si divertono mentre gli adulti si concentrano su gli altri elementi maggiormente conflittuali. L’importante è riuscire a inserire nello spettacolo sufficienti “stratificazioni” e livelli, cosicché ciascuno spettatore possa entrare nella dimensione di narrazione che sente più vicina a lui.

C’è la sensazione di una sovrapposizione fra infanzia e vecchiaia (negli spettacoli di Teatro Paraìso e di Eco di Fondo, Pollicino è a tutti gli effetti un anziano)… che cosa hanno in comune queste età della vita? In generale, oggi, le fiabe parlano a tutti?

Tomás Fdez. Alonso: Credo che esistano opere universali, da cui derivano semplicemente letture diverse. L’isola del tesoro, E.T. o il cinema di Charlie Chaplin sono opere per bambini o per adulti? Allo stesso modo, Pollicino è una fiaba che appartiene all’immaginario occidentale.
Un nonno e un bambino hanno molto in comune. Il primo si trova all’inizio della vita e il secondo alla fine, rappresentano insieme il circolo della vita. Perché i bambini e gli anziani si intendono così facilmente? Perché in realtà dal punto di vista psicologico sono molto simili: gli anziani non vivono le cose in un modo così pesante come gli adulti e, di conseguenza, capiscono meglio i bambini.
Pensiamo alla maschera del clown, di cui si dice essere “il bambino che tutti siamo stati da piccoli”. Chi sono, di solito, i clown migliori nel circo? Sono quelle persone anziane, gli acrobati o i giocolieri che non possono più esercitarsi e che quindi diventano clown. Anche lì, come nella vita reale, chi è alla fine della vita o della carriera riesce a parlare meglio a chi invece sta nel punto iniziale del circolo. Il nonno si comporta a tutti gli effetti come un bambino: non vuole togliersi il pigiama, fa i capricci, nasconde cibo nelle tasche… azioni che spesso fanno anche i bambini, i quali dunque sono quelli che ridono di più osservando i nonni.

Eco di fondo: L’idea  del nostro spettacolo è stata anche quella di, attraverso il gioco e attraverso un immaginario comune, pop, ma anche con tutto il tatto possibile, guidare adulti ma soprattutto bambini a prendere consapevolezza delle diverse fasi della vita. Diventare anziani è un po’ come ritornare bambini, si diventa sempre più fragili, sempre più piccoli e si va in un altrove, proprio come i personaggi delle fiabe. Nelle fiabe c’è scritta la parola fine ma si sa che queste storie continuano da qualche altra parte, forse e chissà come.
Credo che questo sia un atteggiamento profondamente infantile: i bambini non capiscono la fine del gioco, però capiscono la trasformazione. Cioè, non smettono mai di giocare ma tu gli puoi proporre un altro gioco e loro ti seguiranno, perché intuiscono che non c’è fine ma c’è solo un’altra forma. Allora il gioco di correre diventa facciamo il gioco del silenzio e viene preso all’istante però cambia forma e non può diventare un’interruzione. È qualcosa che ci ha guidato anche a livello stilistico: nello spettacolo utilizziamo diversi linguaggi, dal cinema alla musica, da riferimenti ad altre fiabe agli oggetti, proprio come mischiare i linguaggi è alla base del gioco infantile. Il bambino fa dialogare mondi che non hanno a che fare l’uno con l’altro, e li fa dialogare per una sua scelta totalmente arbitraria.

Simona Gambaro, Paolo Piano: Purtroppo la fiaba ha perso il riconoscimento della sua funzione perché non è stata più utilizzata per lo strumento potentissimo che è. Pollicino è talmente truculenta che, per esempio, non è nemmeno stata presa in considerazione da Disney, ma la tendenza generale è quella di rendere le fiabe “a misura di bambino”, con poco rispetto invece per lui e per la sua capacità di comprensione. Calvino, nell’Introduzione a Fiabe italiane, dice che le fiabe sono il catalogo dei destini dell’uomo. In ogni fiaba sono raccontati i passaggi essenziali della vita, per cui un Pollicino parlerà in un modo diverso in base a chi lo ascolta, alla sua età, al suo vissuto.
Nello specifico questa fiaba è veramente oscura, spaventosa, contiene il peggio dell’animo umano: dall’abbandono alla povertà, dall’assassinio, anche di bambini, al cannibalismo. Eppure, ci abbiamo visto uno strumento da mettere nelle mani dei bambini con la consapevolezza che con i più piccoli si possa davvero affrontare qualunque discorso. Ci siamo resi conto che i giovani spettatori riconoscono immediatamente la possibilità di utilizzare un racconto come mezzo per se stessi, per la propria vita di ogni giorno, traducendolo in opportunità. Inizialmente abbiamo fatto resistenza alla volontà di Manuela Capece e Davide Doro di non fornire al pubblico alcuna interpretazione ulteriore della fiaba, pensavamo fosse necessario uno sforzo in più. Invece, quando abbiamo accettato questa pulizia, ci siamo resi conto che lì, in questa fiaba, e nella fiaba in generale, c’è tutto. Ci siamo fidati e affidati alla fiaba.

di Francesco Brusa, Agnese Doria, Camilla Fava, Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti

a cura di Francesco Brusa, Camilla Fava




Abbozzi di parola poetica. “Cari Cuccioli” di Compagnia Rodisio

I gesti cadono come fiocchi di neve. Non fanno rumore sul palco, se non appunto il lieve crepitio di passi su un manto soffice, l’eco di uno spostamento d’aria che è accenno, semplicità, rifinitura costante. Manuela Capece e Davide Doro  “calzano la scena” come fossero sotto una teca, tanto viva e a tratti sanguigna è l’intensità della loro presenza quanto sottile, sul filo della trasparenza, è l’esilità dei loro movimenti. Al Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio hanno presentato in prima nazionale Cari Cuccioli, spettacolo messo a punto in residenza presso l’Espace600 di Grenoble. Nella sala al piano superiore della struttura teatrale, un reticolo di carta argentata, ideogrammi e piccoli oggetti appesi a ricreare un tanabata (tradizione giapponese per cui le proprie aspirazioni e i propri desideri vengono affidati all’imprevedibilità del vento), esito di due giorni di laboratorio tenuto dalla compagnia con il giovanissimo pubblico (la produzione è a partire dai due anni) e genitori. Esito in perfetta sintonia con quelli che sembrano essere i presupposti dello spettacolo: dare forma all’invisibile, chiedersi di che pasta siano fatti i sogni e adagiarli in un alveo narrativo che ce ne mostri l’ordito.
Sforzo antropologico di uscita dalle tenebre, con ritorno all’ignoto. La scena si apre infatti su una piccola catasta di legno adagiata al limite del palco. Le braci la illuminano di una fioca luce, poi uno scoppio, una vampata e nel buio si leva un potente arzigogolo di fumo. Gli attori “accorrono” a tenere vive le fiammelle, approntando una danza soffusa fatta di soffi, ondeggiamenti di palmi della mano e respiri che si incrociano. Manuela Capece e Davide Doro sono una coppia, “cuccioli d’umano” spaesati di fronte all’oscurità ma consapevoli che la loro unione è già una forza sufficiente. Il resto sono solo strumenti: il fuoco per riscaldare la notte, tavoli, sedie e porte di un’abitazione che i due non cessano di comporre e organizzare per quasi tutta la durata dello spettacolo. Fuori c’è pericolo, c’è il lupo, c’è quel male fiabesco ma concreto evocato dall’unico momento testuale: una voce fuori campo che attacca appunto con «c’era una volta». Ma fuori è anche il non-luogo dove alla fine si recheranno i protagonisti, uscendo dalla porta mentre le luci si abbassano.
Come giustamente dice la compagnia, Cari Cuccioli è un haiku visuale. Brevi e concisi elementi che formano neanche una narrazione, quanto un’ipotesi di racconto che si avviluppa su se stesso, poiché ipotesi e progetto è innanzitutto è la scelta del vivere assieme rappresentata sul palco. Allo stesso modo dei poemi giapponesi, i gesti e gli oggetti che scorrono sulla scena (dei “versi motori” appunto) traggono sostegno da un’energia oggettiva, da un principio di composizione interno al “comporsi di ciò che ci ritroviamo di fronte”  cosicché anche gli attori vengono “sbalzati all’indietro”, incarnano non già dei personaggi ma appunto delle situazioni, abbozzi di parola poetica e noi li vediamo lontani come su di un leggio o dentro di una bolla natalizia. Quasi che alla classica quarta parete se ne aggiungesse una quinta, una sorta di filtro che rende le immagini dal palco dei “riflessi”, evocazioni dall’origine. Come tutte le evocazioni, vive se siamo noi a chiamarla e a infonderla di senso. Non importa in che modo: lo sguardo attento degli adulti dalla platea, gli schiamazzi spontanei dei bambini che crepitano in sintonia con i “gesti sulla neve”, pioggia primaverile ad abbattersi fuori sul teatro di Casalecchio e a rinforzare dentro l’idea di “focolare” che viene presentata sul palco. Ogni cosa è illuminata.

Francesco Brusa