Il dovere dell’artista al coraggio e la paura di noi spettatori

Il teatro Kismet e il teatro Abeliano si trovano ai poli opposti della direttrice nord/sud di Bari. Li collega una tortuosa traiettoria che passa per il centro cittadino, oppure una strada statale che – nei nostri spostamenti da uno spettacolo all’altro – vediamo spesso fitta di ingorghi e di traffico. Il compito di questi teatri è proprio anche quello di ricucire certe lontananze, di installarsi nella periferia per dare vita a una “particolarità urbana” che non diventi emarginazione sociale. Ed è appunto sul filo di tali questioni che il festival Maggio all’infanzia ragiona e sviluppa le proprie azioni da oltre vent’anni. Lo fa assumendo l’infanzia come una prospettiva possibile, sul presente, certo, ma inevitabilmente anche sul futuro. Lo fa riempiendo la direttrice nord/sud di una nutrita comunità di operatori, insegnanti, artisti, bambini e famiglie, semplici spettatori (ma può uno spettatore essere veramente semplice o  semplicemente disinteressato?) che per quattro giorni si muovono, osservano, si incuriosiscono.

Fra il Kismet e l’Abeliano ci sono quasi sei chilometri. Fra il palco e la prima fila di spettatori c’è circa un metro di separazione. Anzi, ancora meno per Concerto fragile di Casa degli Alfieri – Universi sensibili (per la regia di Antonio Catalano), una delle proposte che apre la giornata inaugurale del festival. I bambini sono infatti a strettissimo contatto con le attrici, a dividerli praticamente solo un fascio di luce. Sul palco, una sorta di laboratorio o addirittura di “cucina sonora” fatta di piccoli oggetti, contenitori, bizzarri strumenti ma soprattutto di un fondoscena dal chiaro sapore artigianale e casalingo, dietro il quale i protagonisti a volte si rintanano per meglio rimarcare i gesti e le espressioni. Quello di Sara Bevilacqua e Alessandra Manti è un invito a scomporre e ricomporre in continuazione il suono e la sua esemplificazione grafica. Non a caso all’inizio ci viene chiesto di immaginare il “rumore di occhi” e vediamo degli occhi finti che le attrici “indossano” mentre riproducono il suono di una tale operazione. Poi, metaforicamente, ci caviamo pure noi gli occhi ed è la volta del rumore dei pesci, delle stelle, del tempo che passa e così via, in un piccolo crescendo di premesse astratte che si traducono però in un approccio che resta sempre fortemente figurativo.
«A teatro si fa silenzio» dice una maschera del Kismet prima dell’inizio dello spettacolo. Eppure, poco dopo la sala viene riempita di stimoli uditivi. Eppure, la compagnia durante lo spettacolo cerca ripetutamente la “rumorosa partecipazione” dei bambini, spingendoli a battere le mani, a cantare con loro, ad ammiccare ai propri gesti. Un anno fa – proprio commentando il festival di Maggio all’infanzia – parlavamo sulla scorta di Korczak del “diritto del bambino al rispetto”. Ora, ci pare che questo principio possa trovare il proprio contrappeso speculare nel “dovere dell’artista al coraggio”. In quel metro scarso fra la prima fila e il palco, c’è un abisso: l’abisso di una radicale distanza, di cui il teatro sembrerebbe non poter fare a meno per accadere. Si tratta ovviamente di una distanza che può essere messa in discussione, sfumata o annullata, ma che dovrebbe essere presupposta affinché vi sia innanzitutto una relazione, fra chi da una parte si assume il rischio di presentarsi in quanto alterità e chi dall’altra è così chiamato a un ascolto nel senso più profondo del termine. Sono, in fondo, le basilari condizioni per instaurare un qualsivoglia rapporto pedagogico.
Nell’approccio di Casa degli Alfieri – Universi sensibili parrebbe esserci invece una certa paura a instaurare questa distanza, la tendenza a confondere i piani per timore di non suscitare l’interesse del bambino. Si porta una ragazzina del pubblico sul palco, senza poi lasciarle alcuna autonomia. Ci si esprime a volte a versi e mugugni, quando la situazione sembrerebbe invece reclamare il semplice uso delle parole. È un peccato, dal momento che l’impianto dello spettacolo, seppur esile (fragile come appunto esemplificato dal titolo), possiede una carica evocativa che guarda agli elementi, a una felice e rarefatta “intrusione” dei misteri del cosmo dentro oggetti di carattere domestico. Ma quello che ne riceviamo infine è uno smussato incanto verso le “cose primarie” e non, ben più potente e viscerale, un incanto primario verso le cose, verso il teatro.

Concerto Fragile

L’artista che si relazioni con un pubblico bambino ha davanti a sé una spietata sincerità e uno sguardo in attesa, sospeso, curioso di ciò che dovrà accadere dopo il buio in sala e nello stesso tempo pronto a vagare alla ricerca di altri stimoli più accattivanti. Tutto questo, insieme al dovere al rispetto del proprio interlocutore e al dovere al coraggio della messinscena, rende arduo il compito dell’artista e pregno di responsabilità, ma, riprendendo le parole di Chiara Guidi in un’intervista per il festival di Castelfiorentino di quest’anno, «non bisogna aver paura delle nostre paure» di fronte ai bambini. Relazionarsi con questo tipo di pubblico, infatti, vuol dire innanzitutto essere capaci di superare ogni tipo di stereotipo che accompagna l’idea d’infanzia, come quello secondo il quale esisterebbero temi, considerati tabù, con i quali essa non debba venire a contatto. Parlare ai bambini di morte e di violenza, per esempio, sembra ancora difficile, sebbene essi ne vengano quotidianamente subissati attraverso i media, che però non lasciano il tempo dell’elaborazione, costringendo l’interlocutore a subire immagini e informazioni che finiscono per perdere il proprio stesso senso. È per questo, forse, che ascoltare una storia risulta sempre un’esperienza potente e impressionante, per i bambini come per gli adulti, proprio perché il tempo sospeso del racconto permette di soffermarsi sulle emozioni che provengono dall’ascolto. Moltissimo teatro ragazzi sceglie di mettere in scena le fiabe classiche; le fiabe però non nascono per i bambini, ma arrivano a loro dopo accurate rivisitazioni e addolcimenti, attraverso altre strade, e contengono spesso accadimenti tragici dove tutti quei temi considerati tabù, di cui prima si parlava, sono all’ordine del giorno. Quando un artista decide di mettere in scena una fiaba classica presentandola nei suoi tratti originali, superando la paura delle proprie paure e riconoscendo il valore formativo e iniziatico della fiaba, che nasce come faro per accompagnare la crescita, ecco che ci troviamo di fronte a un’opera di senso.

Pollicino, una fiaba che parla, tra le altre cose, di abbandono, di paura, di morte è stata la storia della quale Manuela Capece e Davide Doro della Compagnia Rodisio hanno curato la regia e la drammaturgia. I due attori, Simona Gambaro e Paolo Piano sono stati magistrali protagonisti di un racconto immersivo che comincia, come tutte le storie, con un fuoco centrale. Il pubblico non si ritrova a essere solo spettatore, testimone di una storia che si svolge inesorabile sotto i propri occhi, ma è chiamato a una riflessione profonda e contraddittoria. Il dialogo iniziale dei genitori di Pollicino non lascia trapelare alcun giudizio rispetto al loro comportamento: erano poveri, non potevano sfamare i propri figli e li hanno abbandonati. All’inizio dello spettacolo I due attori si rivolgono al pubblico dimostrando continui sbalzi d’umore: passano dalla gioia al senso di colpa, alla disperazione, dei lampi emotivi che ci investono con una luce violenta e sorridiamo e ridiamo e ripiombiamo nella pena. Genitori che abbandonano i propri figli al loro destino, soli, nel buio del bosco, con la propria paura. Come soli e al buio siamo noi spettatori: la musica esce dalle casse fortissima, stordisce e qualche bambino cerca rassicurazione tra le braccia dei genitori o chiede conferma rispetto alla finzione di ciò che sta vedendo. L’orchessa, invece, quasi in un ribaltamento delle certezze emotive, è una madre premurosa che non può fare a meno di accoglierti, fa scaldare i sette fratelli, o meglio, ci fa scaldare, perché è a noi che si rivolge. Ci fa mangiare bene e ci manda a letto, sfidando la folle crudeltà del marito, l’Orco. Un orco ricoperto di pelliccia che potrebbe essere chiunque e qualsiasi cosa, potrebbe racchiudere tutte le nostre più intime paure, l’uomo nero, senza volto, il volto lo conosciamo solo noi. Il passo è lento, pesante ed è sempre più vicino. Aspettiamo il momento in cui deciderà di sfondare la quarta parete e questo accade nel momento peggiore, quando brandisce un coltellaccio tra le mani e grugnendo salta da una sedia all’altra della platea, illuminato a tratti da una luce stroboscopica, e sembra essere dovunque. La sala piomba nel terrore. È troppo? Noi sappiamo solo di aver fatto un percorso, di essere stati tanti piccoli Pollicino e il nostro coraggio è stato premiato. A differenza dei media, che non permettono di metabolizzare le immagini, di porsi domande su ciò che stiamo guardando, il teatro ha il potere di farci ancora più paura, ma di stimolare domande, di entrare in contatto con la nostra intimità. I due attori, alla fine, si complimentano con noi per il nostro coraggio, siamo stati bravi. Ci accompagnano sulla soglia della storia, siamo usciti e ce l’abbiamo fatta, rallenta a poco a poco la tensione e festeggiamo con loro, più forti, più grandi, sotto una pioggia dorata.

Locandina di Cappuccetto Rosso

Con lo stesso senso del rispetto e del coraggio la fiaba di Cappuccetto Rosso viene affrontata dal regista Michelangelo Campanale (coadiuvato dalle coreografie di Vito Cassano), che già in alcuni dei suoi precedenti lavori ha dimostrato quanto per lui sia importante rispettare la verità della fiaba: conoscere la verità e saperla affrontare è l’unico modo per crescere. Un lupo, una bambina, il rosso e il nero, una rosa e un gruppo di danzatori-acrobati. La messinscena di Campanale è un vero e proprio show che coinvolge e rapisce, ma dietro le luci, la musica, le danze frenetiche, si consuma una delle più ambigue delle fiabe: un lupo inganna una bambina e la divora. È un lupo antropomorfizzato quello di Campanale, un uomo elegante che sa danzare con leggerezza, ma che alla vista della bambina non sa reprimere i propri istinti animaleschi. Si rivolge anche a un pubblico di bambini che nonostante lo abbia visto braccato da un gruppo di cacciatori e ripetutamente colpito, ma mai mortalmente, non è dalla sua parte. Lo riconoscono come il lupo cattivo delle fiabe al quale spetta, alla fine, una meritata morte affinché il bene trionfi. È proprio a questo punto che il lupo ricorda ai bambini che ucciderlo è inutile, la paura è inarrestabile e non morirebbe insieme a lui. I momenti di divertimento e di eccitata allegria sono tanti e fanno da contrappeso a una storia della quale cogliamo la verità dolorosa nei momenti di delicatezza e rallentamento. Cappuccetto Rosso attraversa il bosco, a passi lenti, raccogliendo I fiori che il lupo ha messo lì per lei, una trappola, per condurla sulla soglia di una casa a lei nota ma che non avrà nulla di famigliare. Attraverso l’espediente del ralenty viviamo uno dei momenti più intensi dello spettacolo: un uscio che si apre e poi si richiude contiene tutta la disperazione di un evento. Cappuccetto Rosso è afferrata per le trecce e dopo non sappiamo più nulla di lei. In quel gesto violento è racchiuso tutto l’orrore di quell’esclamazione tanto attesa dai bambini, e ascoltata sempre con paura ed eccitazione: «è per mangiarti meglio!». Sebbene tutto avvenga con una lentezza inesorabile non possiamo far niente per lei, e quindi per noi, che siamo sempre coinvolti emotivamente. Non si può cambiare il destino della fiaba, è lui che opera in noi un mutamento, una crescita, ma solo se ci viene raccontata la verità. Campanale non adotta il finale di Perrault, ma il suo punto di vista è forse ancora più inquietante: la bambina si salva, ma il lupo non muore mai, è sempre in agguato. Questa volta Cappuccetto Rosso ce l’ha fatta, ma domani chissà …

Francesco Brusa, Nella Califano




La paura dell’infanzia. Conversazione con Chiara Guidi

Chiara Guidi ha portato al Festival Teatro fra le Generazioni 2018 Fiabe Giapponesi, un complesso esperimento in cui tre narrazioni tradizionali nipponiche rivivono in una relazione sempre dinamica e accesa con una platea gremita di bambine e bambini. Con lei abbiamo parlato della necessità di un teatro che si ponga l’infanzia come categoria di pensiero.

Sto riflettendo molto sulla necessità di trovare un linguaggio che possa riunire, in uno spazio comunitario, tutte le fasce d’età, per cui questa è un po’ la matrice dell’idea di “teatro infantile”: un teatro che dovrebbe ammettere anche le giraffe, se entrassero a teatro. Un linguaggio universale come quello del rito, dove non ci si pone certo il problema di chi partecipa. Nel rito non c’è una selezione, addirittura quando indicevano i grandi digiuni o i grandi riti del passato entravano anche i lattanti. La formula del teatro consiste nel mettersi di fronte a qualcuno e creare una relazione; da qui si apre una problematicità enorme, perché si convoca sempre qualcuno per aprire un artificio, un processo che contiene in sé la scelta delle parole. Io per esempio, per poter raccontare quello che è successo stamattina, devo trovarle quelle parole, cercarle, e le parole cercate mettono in una condizione di invenzione per la quale lo spettacolo non finisce. Io non voglio che si finiscano gli spettacoli, do sempre un appuntamento al pomeriggio o ai giorni successivi.
Mi è successo anche con settecento bambini in Australia, ad Adelaide, con Jack e il fagiolo magico. I bambini scendevano, prendevano i fagioli per terra. Tu hai una filastrocca: leggila in modo che la voce vada contro la rima della filastrocca. È questa l’idea, mentre noi ci siamo abituati a una struttura teatrale frontale e rigida: vai contro quella! Penso possa essere utile vedere che cosa un’epoca storica come la nostra possa raccogliere dai cambiamenti visivi di un tempo così frammentario. Potremmo forse trovare qualcosa per intaccare la struttura; non per chiuderla, ma per trovare una durata, un ordine. Nelle Fiabe Giapponesi c’è un grande ordine, una grande costruzione “fissa” che pure può mutare ogni volta perché il teatro deve essere in grado di reggere la forza d’urto dell’infante, di colui che è privo del linguaggio. Si apre una questione enorme: come fai a reggere la forza d’urto degli stranieri? Tu, uomo di cultura, io che mi adopero… io che mi reputo non razzista…

È impossibile essere l’altro…

Esatto, eppure io ho bisogno dell’altro. Per eccellenza lo straniero è l’infante. Un bambino che strizza l’occhio a quella sedia – perché si, è una sedia, ma lui sa che è anche un cavallo – a me questo fa paura.

In questo senso intendi “fuori del linguaggio”…

L’infante rinomina, ha questa capacità di rompere… Pensate che cosa oggi succede a scuola, dove tutto è catalogato secondo terminologie inglesi, come un linguaggio separato da se stesso: io di fronte a quella parola dove sono? Un processo simile accade se sostituiamo “parola” con “rappresentazione”: quello spettacolo, di fronte al bambino, come lo vuole ingannare? Con quale gioco lo vuole ingannare, lui che sa vedere in quella sedia il cavallo? Io lo dico perché me lo ricordo: quando ero bambina c’era un cuscino che mi mettevo in testa e per me quello era un cappello, anche se continuava a essere un cuscino.

Nelle Fiabe Giapponesi ci sono una complessità, una ritmica, una stratificazione altissime. Poi c’è la questione filosofica iniziale che si sviluppa in diverse direzioni: ci sono le fiabe con una propria linearità, c’è la meraviglia del linguaggio teatrale che però è anche fatta di estrema semplicità. Che cosa è importante che resti dal tuo punto di vista? 

Questa domanda la devi fare a te stesso, quando leggi Cappuccetto Rosso a un bambino che te la chiede tante volte. Quanto gli possa far bene non lo sappiamo, quanti chilogrammi di favola ci facciano bene…  In questa epoca è importante essere riconoscenti a qualcosa che ci fa bene mentre noi non ne siamo consapevoli, scardinando la logica per la quale se qualcosa ci fa bene dobbiamo esserne consapevoli. L’amore non nasce così, tu ti innamori e non sai perché ed è l’amore che muove le cose, insieme alle stelle. La risposta alla tua domanda è “non lo so”, io so solo che questi bambini che hanno visto Fiabe Giapponesi oggi chiederanno ai genitori di essere portati in teatro. In città piccole in cui ho fatto lo spettacolo, mi è capitato di incontrare dei bambini per strada che mi hanno chiesto scusa perché i genitori non avevano voluto portarli a teatro. Succedeva qualcosa di simile negli anni 90’ con la Scuola Sperimentale, dove per tre anni avevo seguito più o meno gli stessi bambini con i quali si stabiliva un’intesa profonda e nascosta, la stessa che provo a ottenere nello spettacolo. È quello che cerco di dire anche nel libro La voce in una foresta di immagini visibili: io recito per cercare il silenzio. Faccio tutto questo per non esserci, divento io la scatola vuota, mi metto sul fondo e dico: «Voglio vedere lo spettacolo». Io ho scelto questi nove bambini, uno mi ha detto che non lo voleva fare, ma io: «Eh no, ormai sei qui e lo fai». Se spingi troppo forte rompi qualcosa, se spingi troppo poco non lasci un segno, bisogna stare nel mezzo, penso che questa sia proprio la forza dell’artigianato che si avvale della materia della voce, del corpo, dei gesti, perché anche la voce a volte ottiene il silenzio: basta scendere di una tonalità.

Nello spettacolo sono però presenti tensioni narrative anche lineari, quelle delle tre fiabe…

Occorre essere consapevoli dell’importanza del racconto e quindi, attraverso il racconto, dell’organicità della fiaba, soprattutto per quanto concerne la durata del tempo, che è contraria alla frammentarietà che viviamo. Io non voglio informare sul vuoto e sul nulla, non voglio informare su chissà che cosa del Giappone, non ci sono indicazioni didascaliche, è tutto aperto. Ciò che voglio è cercare un linguaggio che non abbia un punto ma che sia una linea; per questo lo spettacolo non finisce.
Tra l’inizio e la fine dello spettacolo avviene un cambiamento, una sorta di prova di democrazia, un “luogo politico”. Per questo è importante il “metodo errante”: incontrare gli attori, i genitori gli insegnanti; la comunità diventa riconoscente e riconoscibile, lì mi pongo un problema di utilità. Prendiamo coscienza di quello che entra nell’essenza della relazione. Alla fine de La terra dei lombrichi, quando i bambini fanno la merenda, tanti adulti in quel momento piangono. Perché all’inizio i bambini arrivano sono tutti briosi e poi alla fine, quando hanno portato fiori dall’Ade, e hanno lasciato nell’Ade solo il “Lombricone”, portano su in qualche modo Alcesti. E anche il loro compagno che va con la morte nell’Ade, è lui che sceglie di andare.
Una volta una bambina brasiliana incominciò a piangere moltissimo perché la sua amica era andata con la Morte. Io mi sono avvicinata e ho detto: «Dove siamo? In teatro, stiamo giocando». E lei ha risposto: «Sì, ma è così finto che sembra vero». È quello che cerco anche io. Vedersi piangere stando dentro, questo io chiedo al teatro: essere adulti e chiedersi perché qualcosa ci abbia fatto piangere.
Per parlare di infanzia bisogna parlare di musica, cioè dello statuto della musica, della sua invisibilità. Faccio lo spettacolo, ma al contempo sono lo spettacolo. Per questo adesso con Tuffo – che è l’ultimo percorso che presenterò al festival Puerilia a Cesena – entrano solo venti bambini e gli adulti sono esclusi. I bambini escono con la promessa che nell’arco di una settimana “tufferanno” nel mondo una delle azioni fatte durante l’ora e mezza in cui siamo stati insieme. Il teatro irrompe nella realtà, però io accompagno la descrizione di Tuffo con l’immagine di Paestum del Tuffatore e si sa che quel tuffo è nel mondo dei morti. È così il rito, è fatto a strati.

Hai detto che hai bisogno dei bambini per parlare agli adulti. In Fiabe Giapponesi tu stessa, in qualche modo, impieghi i bambini per raggiungere gli adulti in sala, ai quali proprio ti rivolgevi. Qual è dunque il tuo referente? In che modo tutto ciò sposta la questione del destinatario?

Trasferiamoci nella scuola. Io devo insegnare a te Napoleone. Io ti fornisco degli input su Napoleone e tu insegni a me Napoleone. Vuol dire che l’insegnante non dovrebbe appoggiarsi alle tipologie, ai metodi tipici, ma l’allievo dovrebbe venire in soccorso alla sua impossibilità di dire tutto a proposito di Napoleone. Questo creerebbe una situazione dello “stare tra” e non comunicare “da… a”; significherebbe stare in quel mezzo, in quella possibilità. Anche se non si dice niente di comprensibile, resta una traccia di senso. Ma la scuola pota le tracce di senso: per esempio, le macchie nel quaderno non si fanno, ma ci sono alcune macchie che sono stupende. «Il chiasso è l’opposto del silenzio»; già la Montessori aveva detto che il silenzio è a sé e che il chiasso è un’altra cosa. Ti trovi a fare una domanda perché interroghi una persona; in realtà dovresti interrogare te stesso, perché se tu aspetti quello che già ti chiedi allora che interrogazione è? Perché è tutto inserito in una prospettiva mercantilistica.

Nella situazione che crei all’inizio nelle Fiabe Giapponesi, scegliendo i bambini e facendoli salire sul palco, attraverso i corpi dei bambini sulla scena è come se creassi un contesto che sembra essere quello adatto e necessario al discorso che intendi portare. Senza poi arrivare a definire una posizione esistenziale o filosofica di vuoto, assenza o volere/non volere. Tramite la presenza dei bambini sia in platea che sul palco, è come se si creasse un contesto per il linguaggio che presenti.

Se lo spettacolo fosse fatto solo da me, semplicemente non potrei mai farlo. Come farei, alla mia età, a metter su un costume di fronte a bambini che sanno giocare meglio di me? Per questo, secondo me, non si può fare uno spettacolo per bambini sotto ai sei anni. È impossibile perché hanno la magia dell’intuizione del gioco. Un bimbo di quattro anni lo intrattieni con le luci, dicendo «la mela è rossa…» – sto esagerando, ovviamente – ma dov’è la scoperta del teatro? Il primo teatro che fanno accade quando si nascondono dietro la spalla della madre e fanno “cucù”, è quello! E avviene quando la vicinanza adulto-bambino è molto stretta. Quando incomincia ad allentarsi, allora è necessaria la relazione del teatro. Io vado a inserirmi tra le due note – adulto e bambino – per poter creare una relazione, perché ai bambini l’arte non interessa, ai bambini interessa giocare, mangiare un gelato. Questo è un tuo problema adulto, perché tu vuoi dar loro un’altra possibilità di mondo, di immaginario, di scarto, di differenza, di attrito rispetto alla realtà delle cose e alla débacle che viviamo. Però questi bambini, laddove si innamorano, portano il fuoco del racconto, sono loro il racconto: il tuo racconto di Cappuccetto Rosso vive del fuoco negli occhi di chi ti ascolta. Quando portammo Buchettino in Giappone, dissi all’attrice giapponese di andare nelle scuole a raccontare la favola, dal momento che non sapevo quale livello di relazione avessero con la fiaba, infatti in Oriente i bambini non giocano più: non c’è più il gioco mimetico, che a dire il vero si è perso molto anche da noi. Infatti in un prossimo spettacolo vorrei svuotare la Sala Bianca del Teatro Comandini e mettere in scena una lotta tra cowboy e indiani, escludendo gli adulti perché siano i bambini poi a trasferire questa energia del gioco nella realtà. Un gioco sottile, perché dentro portano un’idea di morte, di presenza.

Un po’ come il vuoto e il “non volere” delle Fiabe Giapponesi, dove la domanda di fondo sta attorno alla possibilità di comprendere l’identità fra volere e non volere…

In Fiabe Giapponesi io ci sono, ma potrei non esserci e quando non ci sono, che forma ha il mio vuoto? Se provassi a rispondere direi cose molto intellettuali. C’è una frase che ricorre nello spettacolo: «La forma è il vuoto e il vuoto è la forma». In un’occasione un bimbo ha detto: «Il nulla è il deserto senza sabbia». Altrove un altro ha detto qualcosa di incredibile, quasi come se fosse Georges Didi-Huberman a parlare: «Il nulla è proprio nulla e su questo non c’è da discutere. Il vuoto, se scavi, in fondo qualcosa trovi». Che è esattamente la nostra visione di arte: non è la superficie… oppure sì, è quella superficie che si lascia vedere, non è qualcosa di trascendentale.
Qui secondo me si rivela la spiritualità del bambino, che non è infangata da una new age di elementi, è profonda, qualcosa che ti connette al tuo sacco nella pancia della mamma, a tutta la vita. Una bambina si avvicina alla nonna e dice: «Sai, ho alzato la mano per andare nella Terra dei Lombrichi con la morte». E la nonna me lo dice perché la mamma di quella bambina è in ospedale per un cancro alla testa. In Australia entrano gli spettatori, un vecchio distribuisce a tutti i bimbi tre fagioli, quindi entrano tutti con una mano chiusa a pugno: questo è un segno molto forte. Un bimbo è tornato indietro perché un altro era a metà della fila.
Come ci credono è incredibile… possono veramente diventare dei mostri. Non c’è niente di grazioso nei bambini, sono terribili, sono grandi antichi, però non bisogna aver paura di loro. O meglio: non bisogna aver paura delle nostre paure di fronte a loro, il problema è questo. Io sono dentro questi discorsi perché sto cercando di scrivere questo libro per l’editore Sossella, insieme a Lucia Amara, Teatro Infantile. Ho impostato il libro in modo tale che il mio scritto riguardi l’arte del teatro, la tecnica del teatro che porta a un teatro infantile. Non è quindi l’arte del teatro rivolta ai bambini, ma il teatro come poetica – tempo, spazio, azione – di fronte allo spettatore per eccellenza, che è un bambino. Rispetto a un bambino ho bisogno degli adulti: quindi l’infanzia potrebbe essere anche una categoria del pensiero. Non vedi più le cose escludendole, ma – per esperienza – le poni talmente dentro tale categoria che sopraggiunge il coraggio di individuare per la stessa cosa due diversi nomi. Il coraggio di spostarsi su diversi punti di vista, quello che affermava Florenskij: «Muovetevi, guardate una cosa da più punti di vista». Superiamo l’angoscia del dover fare qualcosa con un preciso obiettivo: «Devo fare questo!». Se mi dicono che mi producono uno spettacolo io rispondo: «No, prima faccio una prova, poi la vieni a vedere e decidi».

Siamo spesso portati a idealizzare l’infanzia come possibilità di recuperare una condizione più originaria, più pura. Ci pare che a una tale visione idealizzata ponga la paura come contrappeso: questo spettatore bambino fa paura. Se noi abitiamo quello stato ci facciamo paura…

È anche una questione molto pratica: Buchettino può saltare se i bambini fanno troppo chiasso e cominciano a prendersi a cuscinate, c’è un rischio effettivo. Oppure se cerchi di creare l’atmosfera delle fiabe e i bambini parlano… anche nelle replica di oggi a volte sembrava che non si riuscisse ad “afferrare la favola”, per cui ascoltavo i bambini e riprendevo le loro parole, le ripetevo in modo che ritrovassero l’attenzione. È strano, io sto raccogliendo molti esempi su questo. Le stesse fiabe fatte a Lubiana, in una stanza a quattro pareti, rappresentava un’altra difficoltà.  In quel caso il pubblico bambino entrava, separava i fagioli che erano a terra e ci ritrovavamo tutti seduti sullo stesso grande tatami, anche gli adulti, mentre tutte e quattro le pareti attorno, dietro cui si vedevano le figure  illuminate, continuamente in continuazione. Spesso sono uscita da questi spettacoli con le insegnanti arrabbiate, perché i bambini non alzavano mai la testa e quindi, secondo loro, non vedevano lo spettacolo. E invece i bambini erano attentissimi, perché quando c’era l’apice della favola, si fermavano per alzare la testa e seguire. E allora ho risposto a quelle insegnanti: «Secondo voi quelle stesse immagini non le vedevano tra i fagioli?». Perché dobbiamo guardare tutti lì? Per l’utilità? Perché sennò si disperde? Che cos’è l’utilità? Che cos’è la perdita? Quindi è strano questo pubblico, perché è un pubblico bambino: anche io idealizzo l’infanzia, ma allo stesso tempo so che è terribile. Non sai quante volte l’ho detestata. Una volta in Buchettino a Bari avevano raggiunto un tale livello di confusione che dovevo mollare. Io non posso richiamare al silenzio: sono un’attrice, non posso fare la maestra. Stavo dicendo: «Va bene, ci fermiamo qui, non c’è possibilità di fare lo spettacolo». L’attore di fronte a un bambino non può limitarsi a fare la propria parte, pretendendo che il bambino ascolti, deve continuamente raccogliere e stabilire una relazione. Lo stesso movimento che fa la voce con le parole: sono andata giù, vado su, sono andata di qua, vado di là. È un grande movimento, una grande erranza. A un certo punto, cercando di inventare qualcosa, mi sono messa in piedi e ho cominciato a girare su me stessa come una trottola, un movimento assurdo: si sono zittiti tutti. Da quel momento ho detto: «Quando alzo un dito fate chiasso, quando lo abbasso fate silenzio», perché loro avevano bisogno di fare chiasso. Quindi è una difficoltà in atto, che credo che gli insegnanti affrontino quotidianamente. È chiesto tanto a un insegnante, per questo il teatro è interessante per la scuola, perché tra scuola e teatro non c’è grande differenza nel tipo di relazione. Si può dire che il teatro è una finzione, la scuola no, anche se in realtà in qualche modo finge anche la scuola, perché l’insegnante non è se stessa quando insegna: ha una distanza, una postura, un comportamento. Quindi questa idea di finzione, di inganno, di artificio è interessante.

È interessante questo pregiudizio per cui i bambini che non si concentrerebbero mentre cercano i fagioli: ci sembra invece che sia proprio il principio della narrazione, si è sempre narrato facendo qualcos’altro…

Esatto, è proprio questo che accade. E poi non si trattava di storie raccontate ai bambini, quelli si addormentavano. Le fiabe erano per gli adulti, come fece Tolstoj quando raccolse nelle sue Storie anche i racconti di animali, oltre alle favole di Esopo che raccoglieva dalla bocca delle persone. Nella narrazione c’è un desiderio di conoscenza, di precisione, quasi matematica. La parola dice questo: desiderio di apprendere. Comenio, che fu il primo pedagogista, parlava proprio di “matesi” e “matetica”, questa capacità di dire l’invisibile attraverso il visibile. Sto lavorando molto su questo, come i disegni astratti del libro sulla voce. Sono grafici che apparentemente non dicono niente e invece contengono tutto. Sono segni che non capisci e invece sono fondamentali. C’è un musicista che ha fatto una cosa analoga, Neuhaus: ha esposto dei disegni che sono, visivamente, il suono che lui ha prodotto ma che non ha potuto registrare perché in condizioni estreme. Sono dipinti che, mentre guardi, ti fanno sentire la musica. Allo stesso modo se tu guardi il bambino, gli parli ma senti la musica, il suono che produce, la vibrazione. C’è un libro di Carla Melazzini (progetto Chance dei Maestri di Strada di Napoli) che parla di questo e che mi sta tornando molto utile, Insegnare al Principe di Danimarca. Si parla di una difficoltà oggettiva: bambini di terza media che devono recuperare un anno di scuola per il diploma e vanno dunque motivati, si devono cioè innamorare della relazione. È una difficoltà vera nei quartieri più malfamati di Napoli. È importante chiedersi perché dobbiamo portare a teatro i bambini? Che cosa voglio dire loro? Li vuoi spaventare? No. Farli felici? Nemmeno, non ho nessun potere. In queste fiabe non c’è un lieto fine, ma nel percorso – sempre in avanti – “povero, ricco, povero” c’è la filosofia zen, quella filosofia orientale di cui l’Occidente è stato impregnato, ma che ora sta perdendo. Un sentire e una conoscenza popolari che sono però stati esclusi dal nostro orizzonte. John Cage attingeva molto da lì. Perché il silenzio è musica? Perché c’è stato Cage, ma perché non è popolare questa cosa? Perché il rumore è musica? Perché non è popolare? Perché c’è un’isteria che dice che il rumore dà fastidio. Come si può andare davanti a un bambino e scimmiottare l’infanzia? Bisogna abbattere la tradizione. Questa è la nostra storia, sono le nostre ossa, sono i nostri muscoli del pensiero.

a cura di Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Carte di identità. Prima istantanea da Teatro fra le generazioni

Relazione. Questa la parola chiave, sempre e comunque, quando si ha a che fare con il teatro, con la sua dinamica, con la sua energia di propulsione emotiva, intellettuale, materiale. Se nel mondo di oggi è sempre più lontano il pensiero dicotomico su dimensione online e dimensione offline, se nella società iperconnessa e “ipercomplessa” il filosofo Byung Chul-Han sottolinea un’impossibile distinzione tra “qui” e “altrove”, è nel luogo della comunità che un qualsiasi cammino creativo può incaricarsi di un processo direzionato.

Nella mattinata di apertura di questo Teatro fra le generazioni 2018 abbiamo assistito a tre diversi esempi di relazione fondamentale del teatro. Alice nella scatola delle meraviglie (in anteprima al festival) installa l’attenzione degli spettatori su una scena di pareti modulabili che, aprendosi e chiudendosi, ricostruisce Wonderland in un labirinto di simboli. L’abitazione di questo dispositivo scenico non sempre riesce fluida e, complice il piccolo spazio, le due attrici (una per Alice e per il Cappellaio Matto, l’altra per lo Stregatto) sgusciano al meglio dentro porte e finestre, maneggiando sagome e oggetti multicolori. Di certo spicca una ricerca sulla visione del racconto, riorganizzata in una dinamica alternativa che sottrae alle attrici il compito di fare “scene madri”, consegnandolo alla scenografia (vincitrice del Premio Otello Sarzi). E tuttavia resiste con forse troppa tenacia l’ispirazione disneyiana, che allontana una restituzione chiara del poema di Lewis Carroll, concentrando l’attenzione in maniera a tratti discontinua.

Pur se molto distanti per linguaggio, Con me in Paradiso di Teatro Periferico e Fiabe Giapponesi di Societas/Chiara Guidi hanno invece saputo creare, tra scena e platea, le pareti elastiche di un parlamento politico. Non politico partitico, ma interessato a una politica della visione. Il primo porta sul palco del Ridotto un’originale operazione di innesto drammaturgico. Il testo di Mario Bianchi – che è innanzitutto uno dei “maestri” della critica e del racconto del teatro ragazzi – rielabora l’episodio neovangelico di Zaccheo in un confronto tra un italiano e un immigrato e viene poi attraversato in una scrittura scenica dal drammaturgo Dario Villa, che entra dentro al racconto per mostrare, in uno squarcio metateatrale, le reali problematiche di un laboratorio da lui condotto con un gruppo di migranti. Abdoulaye Ba, Mauro Diao e Siaka Konde riescono a non essere tanto la personificazione del migrante, piuttosto – grazie a una presenza disincantata e generosa – un esempio di procedimento critico tra contenuto e forma. Così l’impostazione didattica – certe volte sorprendentemente impietosa nei confronti dei soliti stereotipi sull’alterità – sguscia via dalla retorica e dà senso a un’abitazione dello spazio che non cerca la pulizia ma predilige la chiarezza, impreziosita a volte da tagli di luce e tableaux vivants.

Un’apertura politica ambiziosa e sottile, invece, è ciò che può permettersi un’artista come Chiara Guidi, immersa da sempre in una ricerca che dal faro tecnico-poetico del mezzo teatrale fa luce sulla “puericultura”, sulla geografia epistemologica dell’infanzia e sulle sue complesse tassonomie. Le Fiabe Giapponesi sono un rituale che proprio nella relazione trova e rafforza il nervo della riflessione su questi segmenti di pubblico.
Sul palco principale del Teatro del Popolo nove bambini e bambine – indossato sul proprio grembiule una divisa di carta – vengono letteralmente impiegati dall’attrice cesenate nella separazione di mucchi di fagioli chiari e scuri. E lì rimarranno, inginocchiati attorno al basso tavolo che è la loro fabbrica, tra tre pareti diafane dall’intelaiatura esposta, illuminati da tubi di neon, sempre in attività, testa china che si alza all’occorrenza, a seguire il racconto. Tre fiabe tradizionali nipponiche – una verde, una blu, una rossa – vengono letteralmente “afferrate” da Guidi e rivivono in dialogo con l’ombra di un sovra-narratore umanoide che appare e scompare e con sagome stilizzate.
Arduo ricostruire in poche righe il complesso percorso di senso che questa drammaturgia altamente razionale riesce a evocare: si affrontano questioni esistenziali (differenza tra nulla e vuoto, coincidenza tra l’atto di volere e l’atto di non volere), ci si incammina su una traccia di filosofia Zen, in una didattica continuamente «errante», come desidera l’autrice. Appena sembra che lo spettacolo punti un nodo, la pratica della relazione mette alla prova la platea di adulti e bambini andando a scioglierne un altro. L’attrice parla quasi sempre in ombra, un paio di volte siede in platea per «guardare lo spettacolo», lanciando segnali sul problematico statuto della presenza. Siamo qui, ma potremmo non esserci. In questo esperimento di relazione noi guardiamo, ma soprattutto ascoltiamo, inseguendo la meticolosa partitura vocale alla ricerca di un modo per smettere di cercare. Come in quella favola Zen in cui il monaco, appeso al ramo che, cedendo, lo precipiterà nelle fauci di una tigre affamata, sceglie di sporgersi ad assaggiare l’ultima mora. «Com’era dolce».

La seconda parte del festival si è svolta all’insegna di uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo: la carta. Si tratta di una produzione di Sacchi di Sabbia dal titolo Sshhhh! Pop_up teatrali e Corti di carta di Riccardo Reina, prodotto dal Teatro delle Briciole.
La suggestione provocata dai due spettacoli è sicuramente legata all’effetto visivo della carta che, nel caso di Sacchi di Sabbia, è presentata sotto forma di libri pop-up che i venti spettatori, ai quali le tre performance sono destinate, sfogliano insieme agli attori. Con gesti lenti e delicati le pagine dei libri si susseguono per raccontare il percorso teatrale della compagnia, che sui libri pop-up ha incentrato gran parte della propria ricerca teatrale. I libri selezionati sono stati infatti precedentemente costruiti per performance site specific o per spettacoli mai realizzati ed è la stessa compagnia che, facendo scorrere su uno schermo bianco delle informazioni per gli spettatori, precisa che condivideremo anche i loro fallimenti. La parola fallimento, però, sembra davvero quella meno appropriata per descrivere un lavoro suggestivo come quello di Sacchi di Sabbia. Quattro mani, un libro e della musica. Agli spettatori non è servito altro per prendere parte a un viaggio emozionante e solitario, eppure da vivere insieme agli altri.
Carta da disegnare, da scrivere, da leggere, a voce alta o per sé, da stracciare, da ricomporre o semplicemente da contemplare… La carta, da sempre, per le sue caratteristiche, permette di relazionarci con essa fisicamente, ma anche di perderci nei segni che accoglie. Di fronte alla carta, che dialoga direttamente con la nostra interiorità, siamo nudi, soli con il nostro immaginario, che ne incontra un altro e ne produce ancora in un ciclo di stupore, scoperta, nutrimento.

La carta che diventa ispirazione e disperazione, come tutte le cose che d’improvviso colpiscono a fondo e ci svelano un segreto. È il caso del primo dei tre Corti di Carta di Reina, in cui un uomo siede a una macchina da scrivere che, all’improvviso, come se entrassimo nella testa dello scrittore ispirato, comincia a produrre non più i classici suoni metallici dei tasti, ma note musicali. L’uomo, però, sembra non essere mai soddisfatto di ciò che scrive e si sbarazza, puntualmente, dei fogli che riempie, accartocciandoli e lanciandoli dietro di sé, fino a formare una montagna di carta che sembra assumere le sembianze di una Musa meravigliosa e terribile, perché misteriosa e inafferrabile, proprio come il fuoco della creatività.

Nella Califano e Sergio Lo Gatto




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto