Storie d’un tempo, favole nel presente: seconda istantanea da Segnali

La compagnia Teatro Prova ha aperto la seconda giornata di Segnali al Teatro Verdi con il suo T-REX. Gli amici non si mangiano. Nelle poltrone delle prime file i giovanissimi spettatori, con le giacche a mo’ di cuscino per farsi più alti, sono sprofondati in un religioso silenzio non appena un tirannosauro senza nome, alias Stefano Mecca, è apparso sul palcoscenico per inseguire un piccolo robot telecomandato travestito da animaletto fantastico. Il solitario dinosauro è alla ricerca di un amico, ma il suo stomaco non gli permette di avvicinare nessuno, se non per mangiarselo. Sarà un’aspirante cuoca, Romina Alfieri nei panni del topo Molly, l’unica a riuscire a non farsi divorare da lui, complice una finta formula magica che, al grido “Bubu”, renderebbe la sua carne immangiabile.
Munita di un navigatore satellitare sempre in aggiornamento e di una cucina portatile che racchiude tutte le sue speranze, ammicca al pubblico – di adulti – in una velata critica al mondo d’oggi, perché le favole come il teatro, si sa, parlano sempre del presente. Un presente in cui incontrarsi non è semplice, e lo ha esplicato bene il pianto di un bambino che, dopo aver capito di non essere al cinema ma di fronte ad attori in carne e ossa, si è andato a rifugiare tra le braccia della maestra spaventato dalla possibilità che gli “animali” sul palco scendessero in platea.
Fa da sfondo a questa moderna favola per bambini una giungla surrealista in cui si perde la topolina, alla ricerca di rari ingredienti per creare la torta perfetta, unica possibilità di vincita in un prestigioso contest di cucina. Il confusionario dinosauro e l’ordinatissimo topo sembrano troppo diversi per poter andare d’accordo: Molly, spingendo il suo antagonista ad ascoltare la propria voce interiore, si sente rispondere che la voce “dalle interiora” lui la ascolta spessissimo, ma nonostante le incomprensioni non demorde e troverà infine nel goloso T-REX un alleato indispensabile. Solo il coraggio di chiedere aiuto permetterà al tirannosauro di scoprire l’amicizia e il suo nome, Bubu, come la finta formula magica usata da Molly, e solo la collaborazione renderà possibile creare quella torta perfetta che è dolce simbolo degli ingredienti necessari per un’amicizia. L’improbabile incontro tra Bubu e Molly racconta dell’opportunità di conoscersi se solo si trova la forza di chiedere aiuto, o di prendersi per mano.

Se Amleto avesse avuto il coraggio di parlare e di scoprire le proprie carte non avremmo però mai sentito la sua storia e non potremmo continuare a raccontarla. Il secondo appuntamento della giornata di Segnali, al Teatro Sala Fontana, ha visto in scena Rossella Rapisarda, Andrea Ruberti e Dadde Visconti nelle vesti di tre Orazio contemporanei che da oltre cinquecento anni girano il mondo per tenere vivo il ricordo della tragedia del Principe di Danimarca. L’Amleto degli Eccentrici Dadarò, in prima nazionale, non usa scenografie elaborate: un quadrato nero, sullo sfondo un telo per proiezioni, un paio di bauli, qualche abito di scena. Qui ciò che interessa sono le cause, i motivi di quello che sta accadendo sul palco. Quali sono le motivazioni dei personaggi, perché agiscono in quel modo, cosa giustifica i loro desideri? In una messa in scena che strizza l’occhio alla Commedia dell’Arte i tre guitti protagonisti vestono i panni di tutti i personaggi di una delle storie più raccontate del teatro occidentale, declinandola in domande appartenenti alla nostra quotidianità. In un mondo in cui vendetta, odio, potere e denaro sembrano i principali motivi di ogni azione e scelta, anche di Stato, cosa noi, da spettatori, cittadini, esseri umani riteniamo giusto o, almeno, giustificabile? In nome di cosa ci si può arrogare il diritto di uccidere? Non solo per ragazzi, lo spettacolo cala il sipario chiamando direttamente in causa il pubblico: mentre Albert Camus riteneva ci fosse sempre qualche ragione per uccidere un uomo, gli Eccentrici Dadarò chiedono a noi se siamo in grado di trovarne almeno una. (c.f.)

Il programma del Festival prosegue con Ruote Rosa della compagnia bergamasca Luna e GNAC Teatro. La storia della ciclista Alfonsina Morini Strada, riscritta e firmata nella regia da Carmen Pellegrinelli, diventa l’occasione per illuminare storie dimenticate, tante delle quali raccontano di donne. L’immaginario visivo e il rapporto con l’illustrazione ci aprono le porte della storia immergendoci in un ambiente dal sapore d’antan.
Le interazioni tra attori e immagini create con lavagna luminosa e l’uso di proiezioni, sono una cifra di Luna e GNAC fin dai suoi esordi: la compagnia nasce, infatti, dal guizzo di Michele Eynard, illustratore e fumettista e dall’incontro con Federica Molteni, attrice, che in scena veste i panni di Emma, la sorella maggiore di Alfonsina. Giovane e misurata, Laura Mola è un’Alfonsina tenace e vigorosa, indomita – “la bici è roba per chi dentro alla regole non ci voleva stare, proprio come me”. Il racconto della passione e delle avventure da “eroina” inizia quando Alfonsina per la prima volta, a dieci anni, sale su una bicicletta e si conclude con la gloriosa avventura del Giro d’Italia del 1924 dopo essere riuscita a vincere due Giri di Lombardia, superando scandali e umiliazioni di ogni sorta. La storia della “mangia tortellini” ci agguanta e commuove, non solo per la passione che racconta, ma anche per la possibilità di porci con estrema lucidità dinanzi alla differenza che passa tra l’essere vivi e lo scoprire di esserlo in qualcosa di specifico. Davanti ai nostri occhi viene data vita e corpo a un vero e proprio romanzo di formazione dove l’evoluzione della protagonista è incarnata con grande abilità da Laura Mola che riesce a modulare le diverse intensità e a calibrare il vigore della protagonista senza esserne schiacciata, mettendosi al servizio di una storia e di un personaggio con sensibile consapevolezza artistica.

Di tutt’altra temperatura è il Barba Blu della compagnia franco-italiana Le nuvole nere per la regia di Martina Raccanelli, al primo confronto con una fiaba. La vicenda del sanguinario uxoricida viene musicata e cantata dalle quattro performer (Eva Durif, Marion Lherbeil, Laure Nonique-Desvergnes e Martina Raccanelli nel ruolo della moglie di Barbablù) sulle note, e le parole, di Donna lombarda antico canto popolare e altri canti di tradizione francese. Vocalità, movimento e narrazione si intrecciano creando un immaginario dark ai limiti dell’incubo che attorno a un grande armadio trasforma mondo, immaginazione, incubo e proiezione del vero in un’unica magmatica realtà. La scena, spoglia ed essenziale, viene riempita dal turbine di voci che si rincorrono narrando e musicando la celebre fiaba che, nel suo finale, viene rivisitata: non sono più i due fratelli che irrompono appena in tempo per salvare la sorella più giovane dalle mani di Barbablù ma, lei stessa, in preda alla follia o a una allucinazione, si salva, seguendo le voci delle altre donne morte che la consiglierebbero di gettare la chiave nel lago oscuro che circonda il castello. Un finale aperto a diverse interpretazioni per uno spettacolo che ha scelto un ingresso preciso per indagare un grande classico della letteratura per l’infanzia. (a.d.)

Agnese Doria, Camilla Fava




Viaggiare senza muoversi: prima istantanea dal festival

Segnali compie 27 anni, ma, nonostante la maggiore età acquisita da tempo, invita sempre i più piccoli a teatro per creare un legame duraturo con loro, giovani spettatori che, grazie a uno sguardo ancora bambino, si rivelano spesso il pubblico più ricettivo, critico e sincero.
Educare il giovane pubblico al teatro, “conducendo fuori” da ogni spettatore il suo modo di vedere e percepire ciò che lo circonda portandolo oltre, in una realtà altra, è un compito arduo in una società abituata a ricevere risposte più che a porsi domande, a consegnare immaginari preconfezionati anziché spingere il singolo a crearne di nuovi.
Segnali prosegue il proprio percorso di promozione del teatro per ragazzi in Lombardia, per raccontare un teatro che è prima di tutto luogo d’arte, di scambio e d’incontro.
La storia del Festival affonda le sue radici all’inizio degli anni Novanta, in quel teatro ragazzi che era riuscito a superare la sua fase pionieristica e ad affermarsi come uno degli elementi fondanti della produzione teatrale italiana.
Dal 1990 – anno della prima edizione tenutasi negli spazi dell’Ansaldo di Milano – a oggi, il contesto storico è cambiato ma Segnali continua ad accogliere compagnie nazionali e internazionali rivolgendosi sia al pubblico che agli operatori di settore, con il desiderio di creare momenti di scambio e confronto tra artisti e generazioni.

Il sipario si è aperto sulla XXVII edizione del Festival, sempre attenta a un teatro che sappia parlare anche agli adulti senza dimenticare il mondo dell’infanzia, ribadendo con forza il suo essere forma d’arte capace di raccontare l’essere umano ad altri uomini, nel presente storico in cui avviene. (c.f.)

Una figura dal portamento elegante, scalza, vestita in doppio petto di velluto, parla con un’intonazione distinta, una lingua che non conosciamo, ma di cui afferriamo tutto il senso. Anche la bimba di quattro anni che all’inizio interviene con voce cristallina chiedendo: «Ma che dici?» poco dopo si inabissa nel racconto catturata dal grammelot di Paolo Cardona, autore, attore e scenografo dello spettacolo che, a mo’ di vela per salpare, porta il nome dell’autore de I viaggi di Gulliver. Swift! è il lavoro di SKAPPA! & associès – Teaser, (compagnia italo-francese fondata nel 1998 dallo stesso Paolo Cardona e da Isabelle Hervouët), che ha inaugurato Segnali 2017, ma è anche una parola che torna sul palco e declina il proprio senso di volta in volta, a seconda dell’uso. Viaggiare senza muoversi, avendo però la possibilità di perdersi per ritrovarsi, paiono gli elementi alla base di quest’opera che è stata capace di trasportarci per un’ora dentro un’isola immaginaria, fatta di oggetti riciclati e colorati, un’isola delimitata dalle rotaie circolari su cui naviga una barca a vela, fendendo il mare di bottigliette di plastica vuote.
L’attore si sdraia a terra, il suo profilo viene proiettato sul fondo della scena e sui contorni di questa figura si avvia l’immaginifica costruzione di una metropoli composta da un enorme cumulo di oggetti da discarica, che pian piano assumono nuova vita facendosi torri e grattacieli. Qui i suoni della natura, gli eco degli uccelli e il frinire delle cicale, si alternano a elementi elettronici e sintetici, in un accostamento che seppur stridente non diventa mai minaccioso. Gli oggetti compongono e ricompongono mondi così come si può far esplodere una lingua, masticandola in bocca fino a risemantizzarla e a risputarla diversa.
Il racconto offre diverse sfaccettature e possibilità interpretative, a partire dal continuo sdoppiamento di piani con cui immagini, proiezioni e ombre investono l’attore e l’occhio a tratti smarrito dello spettatore che ha così la possibilità di spaesarsi rimanendo tuttavia sempre agganciato al meccanismo scenico proposto. Swift! combina I viaggi di Gulliver e Peter Pan in un intreccio che potrebbe rimandare anche ai viaggi fantastici e “immobili” di Judith Schalansky e all’interno di queste suggestioni mobili e “morbide”, lo spettatore è condotto, solleticato e sollecitato a crearsi un proprio itinerario di navigazione.

Il protagonista, nel corso dello spettacolo, reclama “Me black”, sorta di suo alter ego o anima, ombra proiettata sul fondo della scena che a un certo punto letteralmente prende vita autonoma e affianca l’attore sul palco. Me black, come nel Peter Pan di Barrie, è motore di azioni e avventure e, soprattutto, non risponde al suo legittimo proprietario, anzi ne rappresenta ulteriori “io possibili”, beffardi e picareschi. L’ombra si perde incarnando così la possibilità di interrogare (e interrogarsi) su quale sia, e soprattutto dove possa collocarsi, la parte più autentica di noi, quella parte così profonda e oscura che a volte capita ci sfugga, confondendosi nell’ambiente. Me black me? Dove vai? è una delle possibili domande che adulti e piccini si portano a casa come eredità di Swift!. L’opera è riuscita a mantenere la difficile china dell’apertura e, dentro a una complessità di rimandi, a rilanciare verso il pubblico la possibilità di intessere il proprio unico spettacolo, dimostrando ancora una volta come il teatro e le sue domande continuino anche dopo la chiusura del sipario. (a.d.)

Agnese Doria, Camilla Fava




Un minuto di vita, una giornata a teatro: ultima istantanea dal festival

Ogni volta che si va a teatro con dei ragazzi, o meglio ancora con dei bambini, arriva sempre l’attimo in cui si spengono le luci, scende il buio fittizio che apre lo spettacolo e immancabilmente quel buio crea un mormorio di sorpresa, una promessa di inaspettato, un brivido di mistero, se non di vera e propria paura.
Per Across the Universe, il lavoro che inaugura la giornata di oggi, il buio non è solo quello siderale dello spazio, ma anche quello della condizione odierna di un mondo adulto confinato in un divenire senza potenziale che, come gli astronauti dello spettacolo, corre per raggiungere un qualcosa al di là della sua portata: il confine dell’universo.
Daniele Bonaiuti e Chiara Renzi, autori-attori dello spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole, scelgono l’immensità dell’universo per portare in scena l’infinita ricerca di senso dell’essere umano, infinita e imprendibile come la complessità del cosmo. La scena procede per sketch ed episodi affiancati tra loro e cuciti insieme dal filo dell’esplorazione spaziale, ma in realtà coesi dall’urgenza delle domande, prima fra tutte quella sul senso della vita. Non la vita in generale: proprio la nostra, episodica, mesta, infinitesimale davanti allo spettacolo delle stelle.
La scoperta del cosmo è scoperta di sé, la conoscenza è anche un saper diventare, ma questo richiamo dell’infinito è sia ammaliatore che terrificante e i due astronauti, alla vigilia della missione, si fanno attanagliare dall’ansia: dubbi e crisi di inadeguatezza divorano la parata mediatica approntata per l’occasione. L’opera ricorda nel linguaggio l’esperienza dei Sotterraneo, con cui gli attori hanno collaborato proprio in un lavoro rivolto all’infanzia (La repubblica dei bambini, sempre una produzione delle Briciole), e avvicina spot e lustrini, “edutainment” e reality show, dichiarazioni d’amore e eventi sportivi in un susseguirsi serrato di scenette e musiche, come in uno zapping contemporaneo.
L’ironia e la levità con cui Across the Universe costruisce il discorso non addolcisce l’inevitabile nichilismo che il futuro dispiega innanzi: l’impossibilità di diventare adulti, di avere un lavoro, una famiglia, una pensione, tutto raccontato sullo sfondo di pratiche del benessere tanto di moda oggi, dallo yoga alla cura di sé, quasi fossero escamotage per sfuggire alla lama delle inquietudini. Queste tornano ancora e ancora, camuffate nell’ipertrofia del narcisismo e dei fenomeni di divismo, come nell’intervista alla star del momento, il sole, che sembra uno dei tanti psicologi da social media quando raccomanda di essere se stessi e di continuare a bruciare sempre.
“Che senso ha la mia vita?”, chiede il Teatro delle Briciole al suo pubblico adolescente. Risposta non c’è, rimane un minuto di vita, da passare sotto un riflettore, continuando a porre domande.

Di sapore radicalmente opposto, e dedicato a un pubblico assai più giovane, L’albero di Pepe di AGTP – Teatro Pirata, racconta una favola di amicizia e collaborazione, portando in scena la storia di una bambina, Pepe, che per avere un po’ di tranquillità e di ascolto si rifugia su un albero, e lì rimane, novella barone rampante, fino a che l’arrivo dell’inverno non la mette in contatto con l’infinito mutamento delle cose, mentre l’irrompere della guerra la aiuterà a ritrovare il fratello. Passato l’orrore, l’amato albero, ormai giunto al termine del suo ciclo vitale, si trasforma in casa per accogliere la nuova vita dei due fratelli. Una favola raccontata con canzoni e pupazzi di animali, in una messa in scena più consueta ma capace di accogliere nella sua trama l’entusiasmo dei bambini che rispondono alle domande sia implicite che esplicite degli attori, e sono pronti a segnalare con risate e interventi ogni accadimento, l’arrivo di un nuovo animaletto sull’albero, i rimbrotti degli adulti “assenti”. Uno spettacolo che nella semplicità del racconto include, con leggerezza, lo sguardo del suo pubblico, pronto ad assecondarlo, a divertirlo, a dargli spazio, mettendo davanti a ogni altra questione la piacevolezza del tempo che i bambini trascorrono a teatro.

Ancora favole, questa volta imbandite in solitaria da Fabrizio Pallara per Fiabe da tavolo del Teatro delle Apparizioni. Sono racconti in valigia pronti a essere trasportati ovunque, mondi in miniatura che già vivono nell’immaginario di grandi e piccini. Non c’è sorpresa, non c’è trasformazione narrativa, il giovane pubblico sa già cosa accadrà, ma c’è la magia di una restituzione delicata e immaginifica che, con pochi semplici segni e con la virtuosità interpretativa e affabulatoria dell’intervento attoriale, prende vita pronta a depositarsi nella memoria e nell’esperienza degli spettatori. Boschi di sughero e carta, coriandoli come prati fioriti, personaggi-dita riconoscibili da un semplice indicatore cromatico, oppure una sfilata di cartoline per un viaggio intorno al mondo, paglia, legno e mattoncini per le casette in miniatura, baffoni neri per l’irresistibile lupo: questa volta sono state raccontate le fiabe di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini, ma viene da chiedersi quali altre invenzioni, e quali altre magie, contengano le borse da viaggio di Pallara. Non resta che aspettare, come una volta si aspettavano i cantastorie girovaghi, per un’altra ora di fantasia e incanto.

Lucia Oliva

Se fossimo adulti sapremmo individuare certi riferimenti a Il lago dei cigni, avremmo vita facile a goderne la  suggestione. Se fossimo adulti cadremmo facilmente nella trappola di rivivere la fiaba seguendo certi antichi ricordi, troppo flebili per rintracciarla davvero, troppo coscienti per davvero assecondare un’emozione purificata dalla nostalgia per l’età infantile. Se fossimo adulti troveremmo utile questo ricorso al vissuto, ma non lo siamo. Siamo bambini di fronte al Diario di un brutto anatroccolo, fiaba scritta da Hans Christian Andersen e tradotta per la scena dalla mano gentile di Tonio De Nitto con Factory Compagnia Transadriatica. Siamo nella fiaba per un pretesto coraggioso di indurre domande difficili sul tema della diversità, dapprima deficit di inclusione, infine punto di forza di un’elevazione imprevista. Con i tre attori-danzatori (Ilaria Carlucci, Fabio Tinella, Luca Pastore) che sviluppano una relazione molto stretta, trovando cioè il legame con cui farsi comunità, in scena è chi soffre l’esclusione, l’anatroccolo (Francesca De Pasquale) che non riesce a inserirsi secondo i canoni riconosciuti dal gruppo e vive l’emarginazione in famiglia, a scuola, nel mondo del lavoro, nell’illusione d’amore. De Nitto affronta il tema con delicatezza e decisione, sfrutta del teatro la possibilità che l’incanto non sovrasti una necessaria problematizzazione e compie così l’intero arco della creazione soprattutto dedicata all’infanzia: dispone con cura e pulizia espressiva gli elementi della scena perché fuori, in questo caso gli adulti, sappiano ricondurli a fini educativi. Certo, colto ognuno da quella impressione di meraviglia, a trovarne di adulti in sala.

Simone Nebbia




Picari, lupi, pifferai: istantanea dal secondo giorno

Il viaggio ha nella letteratura di matrice picaresca una forza evocativa determinata dall’articolazione che procede da un punto oscuro, attraverso mille peripezie, verso una chiarificazione risolutiva della vicenda per un miglioramento della condizione del protagonista. Nel teatro che guarda alle nuove generazioni e le coinvolge in una coabitazione con quelle più adulte, questo arco evolutivo si concretizza di fronte al giovane pubblico stimolando soprattutto un canale emotivo di partecipazione, capace di avvolgere di trepidazione l’attesa degli eventi. Daria Paoletta di Compagnia Burambò utilizza un pupazzo che in fretta si fa bambino, si chiama Tzigo e si carica della tradizione orale zigana verso la ricerca della felicità. Il fiore azzurro, spuntato sulla tomba della madre di Tzigo, sarà una sorta di amuleto per un viaggio di formazione, così ricorrente nelle storie per bambini. L’attrice e autrice, che presta la voce a tutti i personaggi compreso il giovane zingaro, della storia si fa carico utilizzando quasi tutti i mezzi a disposizione: il canto e il ballo, la musica dal vivo che dalle note di una chitarra raggiunge il palco a far cantare Tzigo, la partecipazione concreta del pubblico che entra direttamente nella sequenza drammaturgica, la lingua intima e carnale dei dialetti meridionali, l’evocazione sensibile che fa affiorare profumi di vaniglia e colori di bosco, serpenti per capelli di streghe e lacrime di un’origine perduta, cercata, riavuta infine per apparizione e ammissione del proprio destino. È un ottimo lavoro quello di Burambò, meriterebbe per questa una maggiore severità nel tagliare il superfluo e gestire meglio l’ultimo blocco spettacolare che rischia di ribaltare le sensazioni vitalissime che tuttavia, ognuno dei bambini presenti in sala, non avrà di certo dimenticato in fretta.

Cappuccetto Rosso si presenterà solo alla fine, sarà la “zia” ad andarla a cercare fra il pubblico, facendo indossare a un bambino la mantellina di cotone rosso; la storia è già tutta accaduta, le peripezie si sono già compiute; resta solo da salvare la nonna dalla pancia del Lupo, che si è fatta mangiare tendendogli un «trappolone». In questo Cappuccetto e la nonna! della compagnia Giallo Mare Minimal Teatro, per la regia di Vania Pucci e Lucio Diana, assistiamo alle vicende della fiaba rilette dal punto di vista della nonna e di una zia che la accompagna in scena, entrambe con la voce amplificata da microfoni. La nonna diventa una figura didattica: accoglie in casa una un maiale, una capretta e una papera, pupazzi che si presentano bussando dietro una metonimica porticina sul fondo, visibilmente inadatta a riparare le abitanti dagli attacchi del lupo; fa accomodare i pupazzi su tre sedioline per assistere a una lezione dove si impara a riconoscere i mascheramenti del lupo, mostrati in un videofondale che rimanda le immagini di una lavagna magnetica manovrata su un lato dalla zia. Quello che manca sulla scena (la casa e le sue finestre, ma anche la visione orrorifica del del lupo, il bosco, i sentieri percorsi da Cappuccetto ecc) viene ricreato dunque grazie a un dispositivo artigianale che proietta disegni e altre immagini non digitali, spazio d’invenzione dove resta l’agio per immaginare. E Cappuccetto, dov’è? Era attesa per la lezione della nonna, ma non si vede. La nonna si trasforma in “Super Nonna”, esce per cercare la nipote con una slitta trainata da un gomitolone rosso, e qui la diegesi prende una deriva marcatamente spettacolistica nei suoi elementi di base: le musiche salgono di tono, le immagini del lupo diventano fondali terrifici che occupano tutto lo sfondo, Cappuccetto viene prelevato dalla platea così che l’identificazione si completi con partecipazione. Dopo il lieto fine che sembra celebrare la diversità (degli animali salvati dal lupo, che resta un mostro), resta sospesa una questione fra immersività degli elementi (la sostanza fictional data dalle voci e dagli effetti audio, il ritmo serrato e “pieno” di accadimenti che non prevedono spaesamenti di riflessione ecc) e una possibile “sciancatura” del racconto: i bizzarri animaletti intervenuti alla lezione, i gomitoli necessari per diventare supereroi e qualche tratto recitativo da cartoon slapstick. Tifiamo per i secondi.

Se Daria Paoletta ha infuso di parole e movimento il burattino Tzigo fino farlo diventare quasi umano, GogMagog sembrano procedere per la via opposta. Nella prima scena di Il pifferaio magico (anteprima di uno spettacolo che nella sua versione finale sarà accompagnato dall’orchestra dal vivo) gli attori e registi Rossana Gay e Tommaso Taddei entrano sul palco con due enormi maschere, strascicando il proprio corpo in accenni di danza al ralenti, burattinizzandosi – appunto – in una serie di gesti meccanici seppur fluidi. Tinte rosse avvolgono la scena costituita praticamente da un solo lungo tavolo imbandito, su cui piatti di frutta a mo’ di natura morta ricreano un’atmosfera onirica e inquietante al tempo stesso, come d’altronde è la fiaba della città di Hamelin: sospesa in un tempo magico e irreale ma glaciale e impietosa nello svolgersi della trama verso il finale amaro.
In poco tempo, però, tale “coreografia surreale” si chiude in favore di un approccio più diretto. I protagonisti sono ora due impiegati di una ditta “aggiustafiabe” che, contattati telefonicamente dal sindaco di Hamelin, si impegnano a risolvere il problema dell’invasione dei topi e promettono anche un “lieto fine”. Sono loro infatti a richiedere l’intervento del pifferaio magico il quale, irretito dalla taccagneria e dalla mancanza di riconoscenza del sindaco (ma, in generale, degli adulti), farà sparire oltre ai ratti anche tutti i bambini della città.
I piani della vicenda e quello più meta-narrativo della ditta si alternano in modo molto lineare e senza discostarsi dalla storia di partenza. Così, la recitazione si attesta su toni decisamente “sopra le righe”, che spesso sconfinano nella macchietta. Si profila cioè, sia da parte degli attori sia della macchina scenica tutta, una sorta di “infantilismo” dello stare sul palco che – nel ricercare a tutti i costi la partecipazione del pubblico – finisce con lo scongiurarla completamente. I ragazzi delle prime file sembrano infatti perdere l’attenzione. “Noi”, poco più dietro, non cogliamo l’urgenza di una narrazione che pare già incanalata su binari prestabiliti.
Eppure, un piccolo tentativo c’è. Alla fine la fiaba viene “aggiustata”: i bambini di Hamelin scomparsi sono semplicemente invisibili agli occhi di adulti che “non ascoltano più col cuore”. Come tornare a farlo? Per GogMagog attraverso un surrealismo delle emozioni (cuore, occhi e orecchie vengono “curati” con bislacchi strumenti) che pur offrendo una consolazione, ci lascia anche con un filo di smarrimento. Smarrimento che forse manca al resto dello spettacolo, dove regnano invece una prevedibilità e una monotonia espositive che diventano semplicismo e rischiano così di invalidare tutto il discorso. Com’è infatti possibile ritrovarsi – bambini e adulti, attori e spettatori – se non ci si è mai persi per davvero?

Simone Nebbia, Lorenzo Donati, Francesco Brusa




A Castelfiorentino gli spettacoli si fanno alle nove: istantanea dal primo giorno

A Castelfiorentino gli spettacoli si fanno alle nove. Ma non di sera. Di mattina. Già perché si comincia negli orari scolastici al Teatro del Popolo, quando le maestre hanno già raccolto i gruppi di spettatori da accompagnare fino alla platea. Se lo chiederanno se le poltrone rosse avranno qualche cuscino per vedere meglio? Forse no, ma certo a vederli da dietro questi microspettatori fa un po’ effetto, ché quasi neanche arrivano all’altezza dello schienale, fanno silenzio finché possono, poi il contagio di qualche risata, di un piccolo accenno di meraviglia che gli ruba gli occhi e li affascina con qualcosa di più grande ancora, come se quell’attrazione fosse più forte in uno spazio condiviso, di una comune esperienza.
Teatro fra le generazioni, il festival diretto da Renzo Boldrini nella provincia toscana, inizia proprio da quella preposizione inabissata nel mezzo tra i due termini in relazione: il teatro, ossia quel che nella scena s’agita a un possibile ascolto, le generazioni al plurale, convocate assieme perché il luogo promuova lo scambio sulla base della fruizione concreta e sensibile.

È una storia di leggende quella che apre la giornata, la firma Giacomo Pedullà, regista di Teatro Popolare d’Arte per il Mare Mosso scritto da Manuela Critelli. Leggende marine di pescatori si affacciano nel dialogo di un passaggio testimoniale, pedagogico, da un padre a un figlio in procinto di far salpare la barca verso il mare largo, alla ricerca di pesci, ossia del sostentamento, della vita. Ma nella loro relazione nulla avrebbe lo scarto di una scoperta, se non intervenissero eventi esterni a raggiungere da estremi opposti il mondo arcaico della nautica, entrambi come degli interventi contemporanei su ciò che pare viva nel tempo fermo di un dialogo diretto con i miti dell’epica fantastica sottomarina. A contatto i due estremi – il cui punto primario è una ragazza un po’ frivola rimasta per caso sulla barca – sembrano rintracciare punti in comune, forse proprio in virtù di quella staticità evolutiva che trattiene il mito coevo del presente, evidenziando la distanza con il tema portante, ossia quella migrazione coatta di cui soffrono i fondali del Mediterraneo. Al fine di tenerne il filo, il racconto vive in scena su un sistematico ricorso all’evocazione leggendaria (Colapesce, Ulisse, Scilla e Cariddi), innescata anche attraverso l’uso di tecniche di proiezione sul telo delle vele, a farsi ora mare ora cielo stellato; ma se nobile è il tentativo di stimolare il pubblico su un tema emergente e attuale, ancora l’insegnamento morale appare troppo didattico e concluso in una struttura aneddotica, poco indagato attraverso un maggiore spaesamento di cui le forme teatrali saprebbero disporre.

Ca’ Luogo d’Arte di Maurizio Bercini fa spostare invece la platea su montagne innevate, per dare vita alla fiaba in sette storie La regina della neve, scritta dal danese Hans Christian Andersen a metà dell’Ottocento e che narra del viaggio di formazione compiuto da Gerda, alla ricerca del suo amico Kay sparito nel bosco per mano della regina della neve. Se il lavoro è ancora in fase di studio, la resa scenica sembra già molto avanzata e la volontà degli attori di conquistare l’ascolto sembra aver già trovato un buon punto di contatto. La scena è curata e delimitata da una pedana su cui svolgere parte delle azioni di relazione e di racconto, su cui ricevere la neve dall’alto, su cui ampliare l’immaginazione di chi assiste a farsi ora casa, ora foresta, ora fiume, ora strada; i tre attori passano per i personaggi con fluidità, sanno che alla base c’è un patto di fiducia e che non hanno bisogno di dare spiegazioni, ma grazie alla mediazione teatrale possono spingersi a essere qualcosa utilizzando elementi semplici come un cappello a fare il personaggio o uno scheletro di bastoni a fare la struttura di una casa; grazie a una giocosità palpabile, solo a volte spinta troppo oltre con battute non cristalline, sanno stimolare impulsi di curiosità verso il tema da un lato e la sequenza della vicenda dall’altro.

La piccola storia del melo incantato è storia piccola che ha una versione più grande, da palco, ma è in una stanza per pochi spettatori in circolo che Giacomo Verde, altro storico esponente del teatro infanzia e di ricerca, la porta in ascolto per pochi minuti. A differenza dei primi due lavori, attorno allo schermo piatto disteso che una geometria solida trasparente proietta in forma piramidale, non ci sono bambini tra gli spettatori e questo impedisce di verificarne una fruizione dedicata. Gli adulti sentono la voce di Verde che fuori scena narra una storia popolare di origine polacca, una madre sola fatica alla ricerca di un lavoro per il figlio che non sia soltanto di sostegno alla scarsa ricchezza familiare ma che sia un motore di felicità per la loro vita. La semplicità estrema del racconto, che tiene in sé certi stilemi della struttura fiabesca classica come la ripartizione delle prove da affrontare prima di quella risolutiva o l’apparizione come svelamento della scelta da compiere, non è tuttavia sostenuta da una qualità affabulatoria limpida che renda fluidi i passaggi del testo, né da un uso non didascalico delle immagini, bloccate a sottolineare le fasi di una vicenda già di per sé stessa esile.

Ma gli spettacoli non sono che un passaggio di domande, molte delle quali affiancheranno la crescita di questi bambini, un giorno adulti, che avranno tutto il tempo di dispiegarle tra le esperienze formative, imparando come le immagini sappiano ricreare un contesto esistenziale in cui misurarsi, una visione dopo l’altra. A fine giornata vanno via, in fila indiana seguiti dalle maestre, come pulcini lungo la strada indicata da una guida. A ritroso la stessa strada che hanno fatto, al mattino presto, per arrivare in teatro.

 

Simone Nebbia