Guida

(illustrazione di Brochendors Brothers)

Abbiamo chiesto a Marco Martinelli, regista, drammaturgo, pedagogo e fondatore del Teatro delle Albe, di riflettere sul lemma “guida” partendo dalla oltre ventennale esperienza della non-scuola, nata a Ravenna nel 1991. Martinelli ci ha donato un frammento del suo recente libro Aristofane a Scampia (Ponte alle grazie, 2016), che siamo felici di ospitare sulle pagine di Planetarium. L’estratto che segue si trova dalle pp. 68-70 e riporta un ideale discorso che la guida rivolge al gruppo di non-scuolini:

«”Siamo qui, io e voi. Abbiamo sei mesi davanti, in tutto solo quaranta-cinquanta ore, e vogliamo arrivare a fare uno spettacolo insieme, vogliamo divertirci ed emozionarci noi per primi, per provare poi a divertire ed emozionare coloro che arriveranno in teatro al nostro appuntamento. Da oggi io vi prenderò sul serio. Prendervi sul serio vorrà dire che io sarò attento a tutto quello che mi racconterete. Prendervi sul serio vorrà dire che non farò finta di ascoltarvi, come fanno tante volte gli adulti con voi, come fate tante volte anche voi con gli adulti: non farò finta, vi ascolterò veramente. Ce la metterò tutta. Perché una buona guida è prima di tutto uno che sa ascoltare. Se non sa ascoltare non può fare la guida. Io ascolterò tutto quello che mi direte e tutto quello che non mi direte, ascolterò le vostre timidezze, i vostri sguardi bassi, con attenzione e rispetto, senza forzarvi in nulla, sapendo aspettare il momento in cui avrete voglia di tirar fuori le vostre ombre e i vostri lampi. Prendervi sul serio vorrà dire che, mettendo in scena Euripide o Brecht, il mio compito sarà soprattutto quello di mettere in scena voi stessi: quella sarà la mia ‘gloria’. Che, se voglio fare bene la guida della non-scuola, allora non mi devo preoccupare di fare un ‘bello spettacolo’, qualcosa ‘di cui parli la gente’: voi sarete la bellezza che cerco, e nient’altro. Io vi guarderò come si guarda un quadro di Caravaggio, vi leggerò con la stessa attenzione con cui si legge una lirica di Dante. E se voi sarete ‘bellezza’, voglio dire, se sarete autentici in scena, se giocando porterete sul palco la vostra verità, allora lo spettacolo che faremo non potrà non essere un ‘bello spettacolo’. Forse ci arriveremo a quel risultato, ma proprio perché ‘il risultato’ in quanto tale non ci interessa. Prendervi sul serio vorrà dire farvi comprendere che ciascuno di voi è necessario, che ciascuno di voi è un mondo bello e prezioso, che giocheremo insieme per sperimentare non la felicità del farci fuori a vicenda, bensì quella dell’essere coro, accordati come trombe e violini, strumenti che suonano insieme. In questa musica che suoneremo insieme ogni vostro compagno sarà importante, anche quello che di solito in classe prendete in giro, qui lo tratterete come un re. È una democrazia di sovrani, questa! Dove non si disprezza chi non ce la fa, ma si esalta il suo strano, misterioso non saper fare, che visto in controluce diventa un saper fare in altro modo. È complicato? Non è complicato. Prendervi sul serio vorrà dire che prima di tutto cercherò di prendere sul serio me stesso: non sono qui per i soldi o per la fama, sono qui perché mi interessa quello che avverrà fra di noi, un rito di umanità, uno stare in cerchio a interrogare il mistero della vita, ad affrontare l’enigma delle parole con cui chiamiamo questa successione di giorni e di notti, l’alba, il tramonto, l’amore, la violenza, il disgusto, e tutte le altre infinite cose che stanno sotto la luna”.

No, nessuna guida inizia un laboratorio di non-scuola con un discorso come quello che avete appena letto: una guida inizia mettendo tutti in cerchio, e cominciando a cantare, a saltare, a improvvisare: quelle parole ve lo ho scritte io adesso, per farvi capire. Ma è come se questo discorso fosse veramente fatto all’inizio di ogni incontro; questo discorso esprime lo spirito con cui una guida è davvero una guida nella non-scuola: un adulto che guida un gruppo di adolescenti ed è capace di farsi a sua volta guidare dalla loro energia vitale. Non è una questione di età, l’adulto può essere un trentenne come un sessantenne, è questione di prenderli davvero sul serio, giocando e sudando insieme a loro».

Marco Martinelli




Suono

di Mirto Baliani

Amo pensare che alla parola suono debba necessariamente essere associata la parola ascolto. Non può esistere un suono senza ascolto, più precisamente senza un attento ascoltatore che permette al suono ascoltato di divenire suono sentito. Un suono che nel giungere all’orecchio è in grado di modificare il nostro essere, di emozionare questo nostro corpo quando accetta di entrare in vibrazione con il mondo che lo circonda.

Il nostro apparato uditivo è di per sé un risonatore, risponde ad una sollecitazione esterna data dalla pressione che le onde sonore applicano all’aria. All’interno dell’orecchio si attiva una serie di micro movimenti fisico/meccanici che poi vengono tradotti in impulsi elettrici interpretabili dal cervello. Quando diciamo “ascolto” il nostro corpo è già entrato in sintonia o meglio sta simpatizzando con l’esterno. L’orecchio lo fa automaticamente mentre il cervello arriva in un secondo momento, in ritardo di millesimi di secondo. L’era che abitiamo, densa di iperstimolazioni sensoriali, ha dilatato questo tempo di reazione fino all’estremo punto di non reazione, in una sorta di autodifesa messa in atto dal nostro cervello eccessivamente stimolato. Si resta sempre più indifferenti a certi stimoli sonori, come si attivasse uno spietato censore che, filtrando il magma sonoro in arrivo, ritrova interesse soprattutto e purtroppo in elementi già conosciuti e decodificati in precedenza. Il suono nuovo, diverso o strano, viene sempre più spesso archiviato come disturbo, mentre quello delicato, fatto di piccole melodie nascoste nella natura, viene identificato come “rumore di fondo”, fruscio. Eppure la natura suonava prima di noi, il suono è sempre esistito a prescindere dall’uomo e sempre lo ha affascinato e interessato (oggetto anche ora di questo mio scrivere e di questo vostro leggere). A sua volta, l’uomo grazie alla conoscenza sonora che andava acquistando, ha imparato nei millenni a destreggiarsi nella natura, a orientarsi, a difendersi. Un bambino nato in una giungla sarà istintivamente allenato all’ascolto: quell’ascolto che potrà determinare la sua vita, allertandolo ad esempio rispetto a un pericolo.

Oggi accade l’esatto opposto: le nostre orecchie sono oramai atrofizzate dall’eccesso di rumori. Il cervello fa il possibile per censurare quelli più costanti: non percepiamo più il rumore delle auto che passano nella strada sotto casa come pure il suono strisciante degli elettrodomestici che aspirano, lavano e cucinano al posto nostro, ma ciò nonostante, ci ritroviamo un apparato che pur perfettamente funzionante non riveste più il ruolo di un tempo, ovvero quello di farci scoprire il mondo, di aiutarci a codificarlo.

Quando nei laboratori mi capita di lavorare con i ragazzi, li spingo da subito a esercitare un “altro udito” con una serie di esercizi in grado di stimolare (e riscoprire) questo tipo di percezione. Spesso inizio gli incontri chiedendo ai partecipanti di chiudere gli occhi e scandagliare il silenzio che li circonda. È un silenzio contaminato, dove suoni di diversa natura, intensità e distanza si incrociano e si sovrappongono. Chiedo loro di isolare mentalmente tutti i singoli suoni che sentono in quel “silenzio”, poi di sceglierne tre e in seguito di trovare le parole per descriverli agli altri. Nulla a che vedere con quello che si può sentire o meglio provare nel silenzio assoluto e destabilizzante di una camera anecoica, dove si può raggiungere il punto massimo di ascolto del proprio corpo. In quel luogo totalmente privo di interferenze esterne, possiamo renderci conto di quanto noi stessi siamo produttori di suono: il cuore che pompa, il sangue che scorre, le membrane che si dilatano, la saliva che scende nell’esofago, e così via. Si tratta ovviamente di un esempio estremo, ma anche solo l’esercizio quotidiano all’ascolto, come dicevo prima, di un più reperibile “silenzio”, porta da subito all’interno del gruppo di lavoro un aumento della concentrazione, una maggior centratura della persona e, per conseguenza, un più attento ascolto dell’altro.

Ho sempre pensato che in un ensemble sia preferibile avere un buon grado di ascolto e sinergia tra gli elementi, piuttosto che eccellenze in grado di mirabili virtuosismi ma scollegate l’una dall’altra da uno scarso ascolto. Sono certo che quanto detto sia applicabile a qualsiasi gruppo di persone anche al di fuori delle discipline artistiche, in un ufficio come in una squadra di calcio ma forse ancor più calzante se pensiamo ad una classe di bambini o ragazzi, ancora in grado di trasformare questa esperienza in “materiale vivo”, per la vita a venire.

Mirto Baliani esplora il mistero del suono attraverso numerose attività: è musicista, compositore, sound designer, illustratore e dj. Ha composto per numerose produzioni di teatro, danza, video-documentario, programmi radiofonici, mostre e performance. Nei suoi progetti Fuocofatuo (2012) e China vs Tibet (2014) ha esplorato il rapporto tra suono e immagine, tra udibile e visibile.




Poesia

(illustrazione di Moebius)

di Bruno Tognolini

(testo originariamente apparso su Versante Ripido – Fanzine online per la diffusione della poesia)

La poesia per bambini, come io la intendo e scrivo, non è composta da parole poetiche: poetica è la poesia. È una poesia che infila perle di parole famigliari, domestiche, poche e vere, quelle che i bambini sentono dire e dicono nei loro veri giorni. Queste parole sono per loro ancora fresche e nuove, ancora immense, grondanti di senso: non hanno bisogno di vestirsi dei sinonimi sorprendenti e spaesanti accostamenti dei poeti laureati, che si muovono solo fra i nomi poco usati; o al contrario di spellarsi all’osso minimo per rinverdire, come talora accade nella poesia dei grandi, che deve rianimare parole rese opache da stanche decadi d’usi e abusi, forse anche di poeti stanchi.

Qui invece opera l’attitudine primordiale (e quindi poetica) in cui l’istinto di specie pone ogni adulto che parla al suo cucciolo: parole che son novissime per chi ascolta, e quindi (grande astuzia della specie) per chi parla, che le dirà con voce nuova e illuminata, e renderanno le cose nominate agli orecchi di chi le ascolta illuminate, desiderabili e splendenti. Poche parole ma sempre di più, sempre crescenti; parole note ma sempre “più una” sconosciuta: lo spiraglio che serve per sognare cosa mai vorrà dire, e quindi crescere.

Parole note, quindi, riconoscibili, ma disposte in modo sonante e sorprendente.

La mia poesia punta sulla disposizione delle parole più che sulla loro natura. Disposizione che cammina su due piedi: SORPRESA NEL SENSO e INCANTO NEL SUONO.

La Sorpresa nel Senso è il dono sacro della Signorina Rima, che lei concede dopo decenni di buon servizio, prestato con la “strenght and submission” che consiglia Eliot. Decenni in cui impari (o almeno io ho imparato) che alla rima non devi far dire solo quello che vuoi tu, altrimenti si annoia, si impermalisce, e non ti sussurra più nell’orecchio ciò che vuol dire lei. E così le poesie vogliono dire solo ciò che vuoi dire tu, che può ben essere cosa eccelsa ma non è ciò che vogliono dire tutti: ciò che volevano dire, per esempio, tutti quelli che leggono, e non lo sapevano dire, e invece eccolo, scritto sotto i loro occhi.

L’Incanto del Suono nella mia poesia per i bambini è il ritmo, la rima, il metro, a me essenziali e irrinunciabili, regolari e pulsanti, elementari e sacri, come una preghiera, una giaculatoria, uno scongiuro, quel salmodiare a mezza voce che sussurra ininterrotto dai primordi, incomprensibile, misterico e sciamano.

Non userò qui, per dar corpo a questi due piedi della disposizione nella poesia, esempi tratti da opere mie, ma loro: poesie fatte e rifatte senza fine dai bambini per se stessi.

Ecco le parole disposte col piede della SORPRESA NEL SENSO in una vecchia conta.

 

Bim, bum, bam

Quattro vecchie sul sofà

Una che cuce, una che taglia

Una che fa cappelli di paglia

Una che fa coltelli d’argento

Per tagliare la testa al vento

 

Ma il vento ce l’ha la testa?” – chiedo a questo punto ai bambini nei miei mille incontri con l’autore nelle scuole. “Nooo!” – dicono sorridendo. Ma un nanosecondo prima, nella frazione d’istante esitante in cui ci pensavano, hanno formato nella loro frizzante mentina l’immagine ipotetica del vento con la testa, ne hanno tratto sorpresa e meraviglia, e quel sorriso ne è segno.

Ed ecco le parole disposte col piede (che batte in terra, come la poesia antica comandava, fino a chiamare “piedi” i suoi stessi versi) col piede dell’INCANTO NEL SUONO, in una conta a eliminatoria raccolta di recente, con varianti, in diverse città. In questo caso, per rendere più autoevidente l’esempio, il senso si riduce a zero e il suono si impenna in piena potenza.

 

Nel mio giardino c’è un cagnolino

Che si chiama

Àcico pelàcico pelèm-pem-pètico, pelàto pelùto pelèm-pem-puto

Chi sa dire questo nome

Uscirà dalla canzone

 

Per fortuna esistono in natura diverse specie di poesia per bambini. Forse non tantissime, forse tante sfumature di due sole: col tamburo e senza tamburo; con una forte e regolare base ritmica, e senza; o ancora un altro modo di chiamarle: filastrocche e poesie.

Alcune mie amiche poetesse, Giusi Quarenghi, Silvia Vecchini, Vivian Lamarque, suonano senza tamburo le loro poesie, o con un tamburo meno dispotico, che batte un colpo libero ogni tanto. Io le leggo e sorrido molto, perché suonate così sono stupende. E stupendo e immensamente rinfrancante è sentire poeti che cantano su uno strumento diverso dal mio e il loro canto è di pari e molto spesso maggiore bellezza. Con altre poetesse, invece, come l’amica gemella nei versi Chiara Carminati, m’è accaduto addirittura di suonare insieme (nel libro RIME CHIAROSCURE, RCS), battendo tamburi perfetti e meticolosi, all’unisono o in contrappunto, come in certi concerti afro nelle nostre vie.

Insomma, io suono solo poesie con un piede tamburo, battente, regolare, a metronomo. Le mie poesie sono sempre filastrocche. Gagliardissima poesia fatta coi piedi.

 

Bruno Tognolini è scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Ha collaborato con alcuni importanti nomi del teatro italiano, come Marco Baliani, Marco Paolini e Gabriele Vacis. È stato autore di numerosi romanzi, racconti e raccolte poetiche per bambini. Ha vinto due Premi Andersen.




Bugia

image:Alexey Kondakov

 

L’ultima storia riguarda la bugia.
Sapete che cos’è?

Nella prossimità delle voci, una adulta, le altre bambine, che popolano Giallo. Radiodramma dal vivo di Fanny & Alexander si realizza un profondo scambio di sguardi. Parte del progetto Discorsi, Giallo è un dialogo radiofonico che, come Discorso Giallo, affronta il tema dell’educazione, dopo aver affiancato l’esperienza e l’immaginario infantile e aver condiviso con i bambini alcune domande-chiave: prime fra tutte – cosa significa educare? Cosa vuol dire essere educati? Interrogativi che, durante il percorso di ricerca della compagnia, hanno posto le basi per un ciclo di laboratori condotti da Chiara Lagani con bambini dai 5 ai 10 anni. L’entrata nella dimensione teatrale, ogni volta connessa a micro situazioni narrative, ha così lasciato spazio a reazioni e riflessioni a misura dei piccoli che hanno costituito il materiale drammaturgico primario di Giallo (la cui prima versione live è stata presentata a Santarcangelo●13, nel progetto “Radio e infanzia” a cura di Rodolfo Sacchettini).

In questo frammento audio, sulla scia di alcuni esperimenti dialogici di Piaget, una voce interrogante di maestra (C. Lagani) interagisce con quella di una bambina. Parlano della menzogna e, insieme, ci pongono in ascolto di un ragionamento complesso che frequenta a suo modo tante domande – perché si mente? Per cosa è “giusto” essere puniti? Che cos’è la bugia? Il linguaggio? E l’arte, poi, che cos’è?

 

Chiara Lagani, attrice e drammaturga, è fondatrice della compagnia Fanny&Alexander. Ha vinto due premi Ubu (2000, 2005).




Contrario

di Nadia Terranova

Il contrario di una favola, di un principe azzurro, di un lieto fine, il contrario del buon senso, dell’ordine costituito e da costituire, delle cose come sono o ancora peggio come devono andare, il contrario dell’ovvio, del previsto, del prevedibile, del sopore e del tepore che sono parenti stretti della noia: se c’è una direzione che il teatro per i bambini, più ancora di quello per adulti, può e deve prendere è contromano. Prendiamo un esempio. La Cenerentola siciliana di Emma Dante, che non si chiama Cenerentola ma Angelina, soffoca in una palazzina con attico abusivo, schiacciata da una famiglia oppressiva, egoista e violenta q.b., quanto basta a sollevare il desiderio di andare via; in quel contesto nessuno è felice né contento, ma la possibilità di ribellione c’è e noi la intravediamo per la prima volta quando la nostra eroina balla e canta da sola stringendo il manico di scopa con cui dovrebbe fare le pulizie. La Cenerentola Disney è ingenua, candida, delicata? Quella dantiana è piuttosto dantesca, aggrovigliata, “arriminata”, parla dialetto e capisce la lingua della sopraffazione. La rivisitazione della fiaba (un po’ siamo noi a rivisitare lei, un po’ è lei a non smettere mai di visitare noi) è una delle strade possibili per capovolgere la morale, una qualsiasi delle morali fino a quel momento proposte. A volte si tratta di riscrivere quella fiaba, a volte di tirarne fuori il significato profondo, originale e autentico. In entrambi i casi, dare ai bambini il contrario di una morale resta un ottimo modo per divertirli e piazzare in scena una bomba che forse esploderà, di cui forse porteranno frammenti a casa, nelle loro vite, nella messa in discussione del mondo che li circonda.

Nadia Terranova è scrittrice e collaboratrice di testate giornalistiche tra cui Il Sole 24 ore, Repubblica e Internazionale. Autrice di sei pubblicazioni per ragazzi, nel 2015 esordisce con Gli anni al contrario, vincitore dei premi Brancati, Fiesole, Grotte della Gurfa, Bagutta Opera Prima, Viadana e Viadana Giovani e del premio italo-americano The Bridge Award per la narrativa.




Incubo

di Michele Bandini

L’incubo appartiene a quella sfera privata e solitaria della notte in cui si proiettano paure e inquietudini… è un agguato silenzioso del pensiero che ci sorprende nella notte… è la traduzione mostruosa di ciò che ci spaventa alla luce del sole… è una dimensione solitaria, arcaica ed immaginifica… è il risultato di un turbamento della nostra coscienza, un sguardo furtivo e confuso dal buco della serratura nella nostra stanza nascosta… la stanza del simbolico e del sommerso… l’incubo è quel passaggio incerto sull’abisso dentro ognuno di noi… una mostruosità fraterna… è un rifiuto inconsapevole della mente… è quella risposta muta alla nostra domanda sospesa… e come ogni intima manifestazione del caos interiore è vissuta ed esperita in solitudine.

Il teatro e l’arte dovrebbero agire su tutti quei livelli che caratterizzano l’incubo, che lo stratificano come esperienza verticale, ma tenendosi ben lontano da ogni possibile interpretazione psicologica o sociologica, ambito che non ci interessa né riguarda in nessun modo, bensì ripensando l’esperienza e reinventandola come azione pubblica e corale.

Il teatro e l’arte possono e dovrebbero confrontarsi con il nascosto e lo spaventoso, ma attraversandolo in modo corale e collettivo. Il teatro e l’arte hanno bisogno di confrontarsi con la parte oscura e terminale per risolvere simbolicamente e socialmente la questione… il teatro può, come un richiamo collettivo, far condividere le segrete del proprio io, trasformandolo in un grido dalla finestra, una chiamata in strada. Le nuove generazioni come le vecchie hanno bisogno di un teatro e di un’arte che collettivamente si confronti con il dubbio, l’incertezza, la morte, la perdita attraverso il simbolo, l’astrazione, la scrittura, esprimendosi attraverso il gesto corpo/voce, l’azione individuale e corale.
I giovani possono più di chiunque altro lavorare su questi elementi, in un’alternanza dinamica che può oscillare tra energia e dolcezza, tra forza e leggerezza, seguendo assi verticali e orizzontali, fatti di profondità ed energia, di libertà e rigore, di paura e meraviglia. Dall’infanzia fino all’adolescenza fare teatro significa divertimento corale, significa perdersi alla scoperta di sé stessi, ma con il sostegno e la guida degli altri, significa mostrarsi, inteso come necessità espressiva, come attestazione di presenza nel mondo, senza i rischi dell’autocompiacimento o gli egocentrismi degli adulti, significa confrontarsi con l’errore e l’incertezza, ma anche con la libertà e la grazia. I giovani di oggi hanno il bisogno di viversi collettivamente, di unire la propria voce a quella degli altri, di più ora forse rispetto che in passato, ora che il virtuale diventa luogo sociale e doposcuola digitale. Ora che la comunicazione si sviluppa prevalentemente su supporti digitali e che il linguaggio scritto si articola a partire da emoticon e abbreviazioni in cui il linguaggio si fa strumentale all’intrattenimento di una relazione e non più a un reale rapporto relazionale, diventa fondamentale quel teatro che si propone di essere luogo di condivisione, in cui si condivide uno sguardo, una voce. Condivisione intesa come un vedere insieme, condividere uno sguardo vuol dire guardare la stessa cosa dallo stesso punto, con la stessa prospettiva, ma con la variabile del sentimento personale, lavorare insieme vuol dire metterci del proprio e cooperare al raggiungimento di un obiettivo comune, che però non ha niente a che fare con un obiettivo tangibile e quantificabile.

Fare Teatro e assistere al Teatro (parola con la maiuscola e in grassetto per evitare di generalizzare pensando che basti recarsi a teatro), vuol dire riconoscere valore a una inutilità che è fondamentale e fondante per la nascita di quella comunità che si origina a partire dal sentire insieme, e dal condividere una pratica, un agire collettivo che proponga un’interpretazione del mondo e delle cose, dei particolari e degli universali, e che in questa creazione si senta come voce e corpo, presenza ed essenza, di un’azione che amplifica e celebra la vita e tutte le sue sfumature, siano esse limpide e manifeste, siano esse oscure e notturne. Il fare insieme diventa l’antidoto alla solitudine dell’esperienza incubotica, diventa una una pratica collettiva di esplorazione delle oscurità e delle inquietudini, ed è in questa ottica corale che si rende possibile quella trasformazione. La paura di sentirsi inadeguati, il terrore che si cela dietro l’umiliazione che potrebbe seguire l’errore, la ricerca difficile di quell’equilibrio tra la voglia di abbandonare per la paura di esporsi e la forza di mostrarsi nonostante il rischio del fallimento, sono questioni che collettivamente vengono risolte attraverso quel rituale potente e catartico che il teatro celebra.

Michele Bandini è attore e regista, co-fondatore della compagnia Zoeteatro. Esperto di pedagogia teatrale, ha realizzato numerosi progetti rivolti a giovanissimi e adolescenti, tra i quali Salti Immortali che si è svolto nel contesto di Scampia. È direttore artistico, assieme a Emiliano Pergolari, dello SpazioZut a Foligno nonché guida della non-scuola fondata dal Teatro delle Albe.




Daimon

ph: Nicholas Prior

di Daniele Villa

La matematica del DAIMON*

(+) somma
(-) sottrazione
(:) divisione
(x) moltiplicazione

Daimon = {angelo custode + fantasma + demone} x le varie sfaccettature del carattere
Conoscere il daimon = Socrate + Jung + Hillman + quella strana chiamata interiore che avverti a partire dall’infanzia e anche se fingi di non sentirla ti tormenta chiedendoti di fare qualcosa della tua vita, a volte una cosa specifica
Daimon + adolescenza = sogno
Daimon + età adulta = progetto
Daimon + vecchiaia = {rimpianti : gratificazioni} x {energie + aspettative di vita nella zona di mondo in cui ti trovi}
Daimon – patologia mentale + tempi oscuri = Adolf Hitler
Destino = daimon : le infinite variabili della vita
Vita = daimon : {le infinite variabili di contesto come condizioni economiche di partenza + cultura d’appartenenza + Spirito del Tempo + guerre + catastofi + relazioni interpersonali + fortuna ecc.}
Conoscere se stessi = ascoltare il daimon + rimanere sani di mente x Jung©: “Una vita che non si realizza è una vita sprecata”
Diventare se stessi = {ascoltare il daimon : fare di tutto per conservare uno straccio di equilibrio interiore} x Beckett© “Ho sempre fallito. Fallisci ancora. Fallisci meglio.”
Mediocrità = {vita appagante – daimon} x {benessere psicofisico + conformismo – rischio}
Invidia = {daimon + rischio} – {benessere psicofisico + vita appagante +€}
Fallimento1 = {uccidere il daimon + rimanere comunque vivi – coltivare il dubbio} : fare figli e proiettare il tuo daimon su di loro
Fallimento2 = {seguire il daimon sempre e comunque + confronto con la vita degli altri : uso di sostanze allucinogene} + pensiero ricorrente al suicidio
Piano B = {daimon : vita vissuta a pieno} + {buon senso x le infinite variabili della vita}

*Liberamente ispirato a New Math: equations for living di Craig Damrauer

 

Daniele Villa lavora come co-regista e drammaturgo nel collettivo Sotterraneo (Firenze, 2005) le cui produzioni teatrali replicano in molti dei più importanti festival e teatri nazionali e internazionali – tra i premi ricevuti: Premio Lo Straniero, Premio Speciale Ubu, BeFestival First Prize. Interviene inoltre con contributi scritti in numerose riviste e pubblicazioni di settore o di ambito universitario.




Ascolto

di Simone Caputo

Come riflettere sulla funzione dell’ascolto, di quali modi d’ascolto o di quali livelli? Ci si potrebbe occupare del livello semantico, in cui entra in gioco il sapere, la conoscenza che impegna l’intelletto. Oppure del livello rappresentativo, per il quale l’ascolto apre scenari, immagini e fantasie che si intersecano con le memorie di ognuno e che spesso accompagna il livello semantico. O ancora del livello emotivo che risponde alle sollecitazioni d’ogni tipo che l’ascolto propone. Questi tre livelli d’ascolto operano però contemporaneamente e hanno una attività correlata, sempre, anche quando non ne siamo coscienti. Anche in un’età come quella dell’infanzia, in cui all’ascolto come funzione spontanea e multisensoriale dell’esistere, si affianca l’ascolto consapevole, da conquistare nel tempo attraverso esperienze uditive, motorie e giocose, e soggetto ad una continua evoluzione. Esso racchiude in sé la possibilità di far vivere e provare al bambino ciò che potrebbe passare inascoltato. Parafrasando Jankélévitch, dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, là il bambino non può che cantare e ballare, sfruttando la superiore capacità che offrono i suoni di andare oltre il vincolo della referenza, di attingere e dare espressione all’ineffabile. “La musica”, dice Debussy, “è fatta per l’inesprimibile”.

Ascoltare musica non è un’attività passiva o neutra, bensì un esercizio di partecipazione personale. La molla principale di questo impegno consiste nel provare piacere: l’ascolto musicale è autogratificante, e ancor più deve esserlo nell’età dell’infanzia. Lo scopo dell’ascolto non si può ridurre però al solo piacere; scopo altrettanto importante è lo scambio di esperienze. Come all’empatia quotidiana si attribuisce il ruolo di rendere partecipi alle esperienze, alle emozioni e ai punti di vista degli altri, così all’empatia musicale si può attribuire un ruolo analogo: arricchire la vita interiore, facendo partecipare il bambino della vita interiore di altri esseri umani: «un reciproco risuonare di corpi tesi all’ascolto», come ha scritto Jean Luc Nancy, nel sottolineare l’imprescindibilità dell’esperienza d’ascolto, insieme motoria e relazionale, tra gli strumenti educativi dell’infanzia. Ascolto, quindi, come spazio – di risonanza, emotivo, personale e relazionale –, ma anche tempo – che prevede l’attesa, di un qualsiasi segno, compreso il silenzio. Perché come suggerisce un anagramma della lingua inglese, listen uguale silent.

Simone Caputo è musicologo, docente presso l’Università dell’Aquila nonché ricercatore all’Università “La Sapienza” di Roma. È inoltre redattore per la sezione musica del Dizionario Biografico degli Italiani Treccani e ha collaborato con la rivista Lo Straniero.