Segni New Generation Festival Quarto: verso possibili conclusioni

Nel programma della XIV edizione di Segni New Generations Festival (Mantova, 26 ottobre -3 novembre 2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale sul mondo del teatro ragazzi. Tra gli obiettivi, quello di indagare la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche, e le relazioni di scambio in una dimensione europea. I Dialoghi sulle estetiche del teatro ragazzi sono stati progettati e coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G (Cristina Cazzola, Cristina Carlini, Giuliana Ciancio, Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) e articolati intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto con le istituzioni; drammaturgie.

  1. Dove mi colloco; quello che
    penso

Primo
novembre; Teatro Accademico del Bibiena, Sala Piermarini.
Cinquantasette tra operatori e operatrici, artisti ed artiste. Se ne
stanno seduti, in attesa che si cominci. Prendono parola Carlotta
Garlanda e Cristina Garlini di Living, come avvenuto nei giorni
precedenti, ma questa volta – spiegano – «più
che parlare dovrete compiere un gesto».
«Via
le sedie»
quindi, «addossatevi
alla parete di sinistra, che funge da linea di partenza»
e «collocatevi
poi tra il principio e il fondo della sala»
a seconda «di
quanto siete in accordo o meno con la frase che di volta in volta vi
diremo».
Si tratta, insomma, di prendere posizione rispetto ad alcune tra le
affermazioni venute fuori nelle tre giornate precedenti; si tratta di
manifestare fisicamente l’unicità del proprio parere (che non
potrà mai coincidere del tutto con quello degli altri, tanto quanto
il corpo mio e il corpo tuo non possono occupare lo stesso punto
nello spazio) e si tratta di mettere quest’unicità in relazione
con chi, pensandola in maniera diversa, si dispone altrove:
rimanendomi accanto o stando all’opposto da me. Sorta di sondaggio
carnale, la pratica messa in atto da Living aiuta a capire come si
percepisce e come percepisce il proprio lavoro chi si dedica alla
teatralità per le nuove generazioni. E come un fosse un sondaggio ne
riporto perciò i risultati.

Primo.
“Il teatro per ragazzi viene considerato di serie B”
.

In
quaranta (70,1% del totale) sono d’accordo; in sette restano al
centro della sala (12,2%) mentre in dieci (17,5%) sono in aperto
dissenso. I disequilibri delle politiche nazionali («In
Austria il governo non investe quanto in altre iniziative culturali»,
«Ad
Honk Hong si pensa non valga la pena sostenere opere più brevi o dai
contenuti apparentemente semplificati»,
«I
bambini non votano: per questo in Italia il teatro per l’infanzia è
di serie B»),
la specificità del pubblico («i
nostri spettatori non scelgono direttamente: c’è chi lo fa per
loro»), il ridotto sostegno produttivo e le paghe al ribasso danno
il senso di una minorità che certi vantaggi oggettivi (le maggiori
possibilità di tournée, il bacino d’utenza scolastico, lo
sbigliettamento delle
matinée
) non
scalfisce.

Secondo.
“Il processo creativo è condizionato dai mediatori”.

In
quarantatré (il 75,4%) sono d’accordo: presidi, insegnanti o
assessori possono influenzare in principio o in
fieri
proposta, tema e
forma di uno spettacolo: la tal Giornata della Memoria, ad esempio, e
l’urgenza sociale del momento, i programmi didattici, il successo
di certi prodotti commercio-televisivi (considerati più facili da
fruire) sono «fattori fin troppo impattanti». In sette (12,2%)
restano in forse – «non sempre il mediatore incide e i temi
trattati sono quelli offerti dal nostro presente» –; altrettanti
(12,2%) sottolineano il ruolo necessario di maestri e istituzioni:
«in fondo si tratta di comprendere a chi ci si rivolge e in che modo
occorre farlo davvero».

Terzo.
“Partecipazione significa coinvolgimento attivo del pubblico”.

La
maggioranza ritiene che la presenza degli spettatori non sia
declinabile solo in termini di attivismo fisico esercitato
all’interno di uno spettacolo e dunque: in quattro (7,1%) se ne
stanno nel mezzo – «soprattutto per la genericità del quesito»
afferma qualcuno; perché «non dovremmo dimenticare che il teatro
lavora sulle relazioni tra gli esseri umani» dice qualcun altro –
mentre in cinquantatré (92,9%) rivendicano il valore assunto dalla
contemplazione oculare, dall’ascolto che avviene in platea, dalla
coesistenza vissuta frontalmente.

Quarta
e quinta frase – “È
responsabilità delle istituzioni individuare le politiche adatte
alla crescita del teatro ragazzi”
;
“Il settore ha una
scarsa capacità di percepirsi come tale e non lavora in quanto
categoria”
– vanno
assieme: nonostante determinino reazioni diverse. Si tratta infatti
di comprendere cosa possa un Ministero, una Regione o un Comune
rispetto al teatro e in che modo – con un Ministero, una Regione o
un Comune – ci si rapporta non come artista o compagnia ma in
quanto comparto lavorativo.

Nel
primo caso domina l’incertezza: in trentasei (63,1%) non sanno dire
la funzione specifica che toccherebbe alle istituzioni (la «messa a
disposizione di spazi e risorse» forse, e «il monitoraggio
qualitativo», «l’analisi delle ricadute economiche dirette e
indirette sui territori», «la concessione di fondi non legata alla
vendibilità di un titolo»); il 24,5% (quattordici partecipanti)
richiama le istituzioni «al proprio dovere» – definire
«politiche che agevolino sinergie produttive, sostengano il rischio
creativo, promuovano la sperimentazione interdisciplinare, tutelino
la professionalità e consentano l’applicazione in concreto del
diritto all’accesso del fatto artistico, a cominciare dai soggetti
più fragili e poveri» – mentre in sette (12,2%) rivendicano
distacco, alterità, indipendenza assoluta dalla Politica.

Nel secondo caso invece la divisione è netta: in cinque non parteggiano (8,7%) mentre i cinquantadue rimanenti si dividono perfettamente a metà (44,6% da un lato, 44,6% dall’altro): «non riusciamo a essere un insieme», «siamo frastagliati e divisi», «non costituiamo un movimento unitario», «non abbiamo un lessico comune né sappiamo rappresentarci» dicono in ventuno e – di contro – «rispetto ad altri ambiti parliamo di più tra noi», «le occasioni di confronto si stanno moltiplicando», «c’è il lavoro svolto in questi anni da Living, da Facciamolaconta, da C.Re.S.Co.» e «pensate anche a questa giornata che stiamo passando qui, adesso, in questo teatro» rispondono gli altri ventuno.

  1. Ciò che mi sembra

La
quarta giornata ha una funzione riepilogativa – le estetiche sono
assenti: cos’è per me la regia, come scrivo i miei testi, che
relazione scenico-drammaturgica ho con il pubblico, come uso il corpo
sul palco, in che modo declino questo o quel tema, qual è il lessico
che la mia compagnia ha sviluppato negli anni, che storie sto
narrando adesso agli spettatori e quali vorrei invece loro raccontare
domani. Non se ne parla, dunque, e non mi sorprende. È la
conseguenza (consueta) dell’incapacità che gli artisti hanno nel
dire poeticamente di sé ed è la conseguenza del pericolo che
sentono nel mettere in discussione il modo in cui stanno provando a
esistere in scena e della difficoltà che hanno nel trovare parole
che raccontino davvero il percorso tentato, già così incerto e
fragile nella pratica quotidiana. Come avviene di solito, anche in
questo caso si privilegiano dunque gli aspetti economico-
organizzativi.

Gli
operatori e gli artisti del teatro per le nuove generazioni si dicono
dunque nel complesso marginali, influenzati dai mediatori con cui
interloquiscono, indotti ad allestire processi che prevedano una
partecipazione diretta del pubblico che non sempre è necessaria
tanto quanto si dicono incerti nelle relazioni con le istituzioni e
incapaci di pensarsi collettivamente ed è – questa –
un’autorappresentazione identica a quella che la teatralità
(italiana, in particolare) esprime quasi in ogni occasione di
confronto, approfondimento e dibattito. La condizione limitrofa che
lamentano, insomma, è la stessa che appartiene ai teatranti in
quanto teatranti in un Paese che è penultimo in Europa per
investimento in istruzione, che destina alla cultura la metà di
quanto destinano in media gli altri Paesi europei (l’1,1% a fronte
del 2,2%) e il cui Fondo Unico per lo Spettacolo dal Vivo si è più
che dimezzato in trent’anni (-54,81% dal 1985 a oggi) tanto da
incidere sul PIL odierno solo per lo 0,019%. L’influenza dei
mediatori subita dal teatro ragazzi rispecchia l’influenza subita
anche in altri contesti ed occasioni dai teatranti – quando
producono con un Nazionale vedendosi imporre dal direttore autore e
titolo, regista o parte del cast, un numero miserrimo di giorni di
prova; quando la loro creatività viene piegata alle esigenze
turistico-culinarie di Regioni e Comuni; quando l’assessore o il
programmatore ricorda che il 2019 è l’anno di Primo Levi per cui
conviene lavorare su La
tregua
, I
sommersi e i salvati
,
Se questo è un uomo
– mentre la partecipazione attiva del pubblico, prima che
un’esigenza compositiva, fa punteggio nei bandi. Basterebbe
ricordarsi che in Italia il Codice dello Spettacolo, atteso da
quarant’anni, è decaduto perché non sono stati redatti i decreti
attuativi per rendersi conto di quanto sia disattenta, friabile e
incerta l’interlocuzione istituzionale mentre – circa
l’incapacità di pensarsi come collettività sindacalizzata – si
consulti Vita da
artisti
ovvero la
ricerca sulle condizioni di lavoro dei professionisti dello
spettacolo redatta dalla CGIL e dalla Fondazione Di Vittorio nel
2017. Intermittenza d’impiego; prevalenza di paghe basse; ritardi
nel ricevere il dovuto; mancato rispetto del CCNL (mansioni non
previste dal contratto, ore di lavoro non retribuite, prove svolte
gratuitamente); insopportabili disparità generazionali, geografiche
e di genere; quota crescente di ricatti, soprusi e discriminazioni
professionali; tecnici e artisti che, a fronte di un infortunio
subito, hanno continuato a lavorare per paura di essere sostituiti.
Siamo “lavoratori autonomi con scarse tutele e diritti” ed
esercitiamo il mestiere “in preoccupanti condizioni di precarietà”
dice di sé l’84,8% dei professionisti dello spettacolo in Vita
da artisti
tanto
quanto dicono di sé i teatranti presenti nella sala Piermarini del
Teatro Accademico di Bibiena.

Mancata dunque l’analisi estetica – mancata una riflessione compartecipata sulle effettive specificità di settore, che sono specificità innanzitutto creative – a fine giornata non mi resta che questo: la certezza che le questioni politiche riguardanti il teatro per nuove generazioni siano le stesse che riguardano l’intero comparto teatrale nazionale.

Alessandro Toppi




Segni New Generation Festival Terzo: drammaturgie

Nel programma della XIV edizione di Segni New
Generations Festival
(Mantova, 26 ottobre -3 novembre
2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale
sul mondo del teatro ragazzi. Tra gli obiettivi, quello di indagare
la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche, e le relazioni
di scambio in una dimensione europea.
I Dialoghi
sulle estetiche del teatro ragazzi
sono stati progettati e
coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G
(
Cristina Cazzola, Cristina Carlini,
Giuliana Ciancio,
Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) e
articolati intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto
con le istituzioni; drammaturgie.

Quali le peculiarità della scrittura all’interno del complesso orizzonte del teatro ragazzi? Tre linee di confronto sono emerse con maggiore forza: il punto di vista adottato nella visione drammaturgica, muovendosi amletici fra lo sguardo del bambino e quello dell’adulto; la finalità didattica, spesso territorio di avvicinamento fra teatranti, mediatori, insegnanti; il rinnovamento semantico, non solo in termini creativi.

Spunto quest’ultimo condiviso da Francesca d’Ippolito (Factory Compagnia Transadriatica Teatro), che ha sottolineato inoltre la necessità di allontanarsi da parole ghettizzanti. Pensiero potenzialmente di ampio sviluppo. Anche per la visione sul contemporaneo che presuppone. Le ramificazioni extra-teatrali. All’interno di un settore modificatosi negli ultimi anni per temi affrontati, grammatiche, lessico. Perfino ironia. Eppure la riflessione è rimasta come sospesa. Un poco fagocitata dai continui rimandi alla difficoltà nel rapportarsi con scuole e istituzioni. Un approccio sulla difensiva che ha incanalato il dialogo verso un’analisi piuttosto ingrigita dello stato dell’arte, condizionata nel profondo da dinamiche politico-sociali. Antropologiche, ha azzardato qualcuno. In termini artistici, un apparente filtro con se stessi che ci si domanda se a volte non abbia i connotati dell’autocensura preventiva. E pazienza che il problema in realtà riguardi il mondo intero e non solo il teatro. La frequenza con cui si è riportato il discorso a questo ostacolo del quotidiano, dà probabilmente la misura di come il problema venga percepito nel suo complesso, ben prima di affrontare la pagina bianca.

Più strettamente teorica la questione del punto di vista, anche per il suo legame con le discipline pedagogiche. Perentorio in questo Koehler Detlef (Theater Gruene Sosse, Francoforte), che ha più volte ribadito come lo scopo didattico sia imprescindibile in qualsiasi produzione. Come se il palcoscenico fosse prima di tutto veicolo di messaggio e strumento di avvicinamento. Altre posizioni sono parse più sfumate. O confuse. Talvolta quasi a difendere una propria natura artistica tout court, forse percepita in pericolo di fronte a una limitazione di temi e di orizzonti. D’altronde la riflessione del teatro per ragazzi come figlio di un dio minore è fra quelle che tornano e ritornano con maggiore frequenza. E ambiguità. Rischiando di alimentare un processo di auto-etichettamento che non sembra fare un gran bene all’ambiente (vengono in mente certe dinamiche proprie delle profezie che si auto-avverano). Specie quando arriva ad essere argomentato con giustificazioni identitarie. Forse la nicchia a cui spesso si fa riferimento è più comoda che restrittiva. Il rischio – lo ha fatto intendere la direttrice artistica Cristina Cazzola – è che in questa bizzarra comfort zone a molti non dispiaccia trovare il proprio cantuccio. Eppure la percezione complessiva è che il settore meriti una visione meno sulla difensiva. Di se stessi e del proprio lavoro. A proteggere una virtuosa predisposizione alla ricerca e alla sperimentazione.

Uno scarto. Di prospettiva. In direzione di una presa di consapevolezza come categoria. Concetto purtroppo soltanto sfiorato. Ma da cui probabilmente passa l’acquisizione (o meno) di strumenti utili per cambiare i rapporti di forza politici con istituzioni, realtà locali, scuola. Magari lavorando insieme perché il teatro diventi materia curriculare. L’idea al momento possiede ancora connotati utopistici. Ma non è detto che le cose non possano modificarsi parecchio in fretta nel futuro prossimo. Per un obiettivo che riuscirebbe ad unire necessità sociali, artistiche, lavorative. Non male.

Diego Vincenti