La fiaba a teatro: il diritto alle emozioni

Gli spettacoli presentati al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino, hanno suscitato una serie di riflessioni relative alle scelte operate da artisti e compagnie per rivolgersi al giovane pubblico e che riguardano da una parte i contenuti degli spettacoli e dall’altra i linguaggi utilizzati e le modalità di messinscena. Tutti questi ragionamenti nascono dalla questione relativa al legame, che esiste o che dovrebbe esistere, tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi, dal momento che esso si definisce in base al proprio destinatario: lo spettatore bambino nella sua fase di formazione.

In che modo il teatro
tenta di assumersi questa responsabilità?

Buona parte delle compagnie presenti al festival hanno scelto di mettere in scena una fiaba, o di utilizzarne la struttura o, ancora, di prenderne in prestito degli elementi, producendo spettacoli molto diversi tra loro. Questo tipo di scelta, se operata con consapevolezza, si fa portatrice di un intento pedagogico, essendo le fiabe contenitori di archetipi che appartengono all’intera umanità e che proprio nelle fiabe si tramandano destando riflessioni, confronti, rispecchiamenti, rifiuti. La fiaba, attraverso un processo di immedesimazione e catarsi, permette a chi la ascolta di vivere intensamente le vicende della storia, ma tenendosene alla giusta distanza. Occorre, quindi, munirsi di grande onestà e coraggio per affrontare la fiaba e trasmetterne i contenuti allo spettatore senza depotenziarla.

La
fiaba spesso è crudele, inquietante, perché è un viaggio
nell’inconscio, nelle paure più profonde e
remote, la fiaba scava
nelle viscere dell’uomo fino alla notte dei tempi e poi riemerge e ci
interroga.

La compagnia Zaches Teatro sembra avesse bene in mente tutto questo quando ha deciso di destinare a bambini di quattro anni un Cappuccetto Rosso misterioso e scuro, in linea con le prime versioni della fiaba. La protagonista, una bambina, ascolta con attenzione e timore la storia che una donna le racconta, finché non si addormenta, ripensando al dialogo finale tra Cappuccetto Rosso e il lupo, che ancora la fa tremare sotto le coperte. Il corpo della bambina, durante il sonno, è sospeso a mezz’aria, come tra due mondi, e quando finalmente si adagia, diventa subito chiaro che sta per iniziare il suo viaggio nella fiaba. Comincia così la messinscena di una delle storie più conosciute di Charles Perrault che, come voleva l’autore, non termina con un lieto fine, ma con un ammonimento rivolto segnatamente alle giovinette. Non soltanto alla versione di Perrault si fa riferimento, ma anche a delle varianti antecedenti che sono state raccolte da Yvonne Verdier. Il lavoro della compagnia si sviluppa a partire dall’elemento comune a tutte le versioni di questa storia: l’allontanamento dalla madre, che rappresenta la possibilità di disobbedire per andare incontro ai pericoli, imparando a riconoscerli e ad affrontarli da soli, per cercare la propria strada, per sperimentare, per crescere. La storia viene raccontata utilizzando il linguaggio evocativo della danza, della musica e del teatro di figura. Pochissime le parole. Lo spettatore è piuttosto rapito dai movimenti dei personaggi, misurati, cadenzati, perfettamente coordinati. Si tratta di coreografie in cui il gesto è spesso secco e frammentato. Questa scelta, insieme all’utilizzo delle maschere indossate dalla madre e dalla bambina, contribuisce a rendere l’atmosfera surreale, onirica e carica di presentimenti. È arrivato il momento di raggiungere la nonna e senza ricevere alcuna raccomandazione la bambina si avvia nel bosco. Ombre di rami spogli come lunghe dita pronte ad afferrare, un fortissimo vento che sembra nascondere parole tremende, la pioggia battente, suoni sinistri. Tutto si prepara per l’arrivo del lupo, che non sia fa attendere. È un bellissimo pupazzo dal pelo scuro e dallo sguardo vivissimo. L’attore che lo manovra è vestito di abiti eleganti e sembra proprio una di quelle persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere dalle quali Perrault ricorda alle giovinette di diffidare. Questo lupo dalla doppia natura, una umana e l’altra animale, non spaventa la bambina, che ne è piuttosto ingenuamente incuriosita. È un lupo insinuante, si avvicina poco a poco, lascia che la bambina cominci a fidarsi, per poi avvolgerla con un filo rosso che la trattiene. Si muove con delicatezza, annusa, esplora il corpo disteso di Cappuccetto Rosso, un gesto che trova il suo culmine nella scena finale, quando la bambina si libera della sciarpa rossa, nella quale la madre l’aveva avvolta prima di lasciarla andare nel bosco, e si distende accanto al lupo. Come non ricordare le parole del lupo di Perrault: “Spogliati e vieni a letto con me”. La bambina sprofonda in quel letto, che si apre sotto di lei come una voragine. Ha inizio forse, in quel misterioso momento, il viaggio di iniziazione nella pancia-caverna del lupo. Questa immagine dello sprofondamento, dalle molteplici interpretazioni, ricorda anche Alice che cade giù nella tana del Bianconiglio, per poi riemergere cambiata, cresciuta, dopo un lungo viaggio, un sogno, ma così reale. Lo stesso accade alla nostra bambina, che si risveglia tra le lenzuola, ma è una giovane donna, che ha superato le sue paure perché è stata capace di guardare il lupo negli occhi: “Che paura ho avuto, era così buio nella pancia del lupo!”, scrivono i fratelli Grimm. La compagnia Zaches non omette i particolari inquietanti e ambigui della storia, perché intende mettere lo spettatore di fronte alla propria paura per riconoscerla e sconfiggerla. È in linea con questo ragionamento la scelta di lasciare che il lupo si aggiri, a un certo punto, tra le poltroncine del teatro, per dare a ognuno la possibilità di sperimentare un incontro ravvicinato con il personaggio più temuto delle fiabe e di reagire a proprio modo a quell’inaspettato confronto. C’è chi piange, chi si allontana, chi azzarda una carezza. La fiaba, in fondo, non è altro che la possibilità di sperimentare i nostri limiti ed è per questo che amiamo farci raccontare, ancora e ancora, sempre la stessa, aspettando il lupo con paura ed eccitazione, per vedere che effetto ci farà, stavolta.

Un
altro spettacolo nato dalla scelta di mettere in scena una fiaba
rifuggendo dagli addolcimenti è “Pinocchi”, per la regia di
Andrea Macaluso, che decide di raccontare solo i primi quindici
capitoli

della storia di Collodi. Lo spettacolo si interrompe infatti con l’impiccagione di Pinocchio. Gli attori in scena sono tre: hanno età diverse e fisicità diverse, presenze sceniche forti o meno marcate, e sono tutti protagonisti, a turno, dello spettacolo, che nasce dalle loro improvvisazioni sul personaggio di Pinocchio. Lo stesso Collodi scrive che ha conosciuto una famiglia intera di Pinocchi. Pinocchio diventa dunque un aggettivo, che può essere attribuito a chiunque. Macaluso e gli attori giocano su questa intuizione e lavorano sul concetto di “pinocchitudine”, uno stato d’essere che apparterrebbe a ognuno di noi. Gli attori mostrano al pubblico il proprio personalissimo modo di essere Pinocchio, restituendo alla fiaba una delle sue più potenti caratteristiche: essere specchio di chi la fruisce. Siamo tutti Pinocchio, ma ognuno lo è a modo suo. La scelta di mettere in scena una fiaba in assenza di scenografia, e puntando tutto sui corpi degli attori, sulle loro coreografie di movimenti, e sulle luci e le musiche, che scandiscono l’atmosfera del racconto, sono coerenti con il tentativo di Macaluso di portare in scena la fiaba senza abbellimenti, una narrazione a tre voci. I temi che emergono dalla prima versione di “Pinocchio” – temi scuri, complessi, come quello della morte – vengono raccontati mettendo in scena fedelmente le vicende della fiaba di Collodi, senza alcun tentativo di semplificazione. Gli unici oggetti in scena hanno piuttosto un valore simbolico, come le pere che Pinocchio divora con avidità, oppure la corda annodata a cappio, che racconta senza mezzi termini la fine del protagonista. Le parole sono quelle di Collodi, non ci sono interferenze neppure nel linguaggio. È una messinscena, questa, che richiede attenzione e che è importante seguire immergendosi fiduciosi in un meccanismo asciutto e simbolico, che si pone in termini di grande rispetto nei confronti della fiaba e dei suoi contenuti.

“Amici per la pelle”, per la regia di Renata Coluccini, utilizza invece la struttura della fiaba per raccontarci una storia di amicizia tra un uomo e un’asina. Trattandosi di una fiaba moderna ritroviamo dei riferimenti al mondo contemporaneo, che vanno dal problema della disoccupazione a quello dell’ambiente. Zeno è stato licenziato, sente il peso del fallimento e della solitudine, è stufo della sua vita precaria e insoddisfacente. Molly è prigioniera in un allevamento dal quale sa che non uscirà viva. È un’asina molto intelligente che diffida dall’uomo. Decide di scappare, ma è sola, perché gli altri asini sono rassegnati al loro destino e non vogliono neppure provare a darsi un’opportunità. Zeno e Molly hanno questo in comune, essere incompresi e quindi soli. Non è un caso, dunque, che Zeno possa sentire la voce di Molly, pur essendo un uomo: i due si somigliano molto più di quanto credano e questa vicinanza emergerà in maniera così forte che non potranno fare a meno di continuare insieme questo viaggio di scoperta. Molly è determinata, ha un obiettivo molto preciso e apparentemente semplice: raggiungere il suo luogo dei sogni abitato solo da animali, perché gli uomini sono banditi. Zeno invece è confuso, forse perché è un uomo e gli uomini spesso dimenticano che il loro obiettivo profondo è semplice. I due si incontrano mentre fuggono dalle loro precedenti vite, un allontanamento inevitabile e necessario, come accade spesso nelle fiabe. Zeno, travestito da asino per lavoro, viene scambiato da Molly per un animale della sua specie, ma non ha il coraggio di contraddirla e si mette in cammino insieme a lei, che le racconta la sua storia e il suo desiderio. Sembra l’inizio di una grande e infinita amicizia, ma noi spettatori, che conosciamo la vera identità di Zeno, sappiamo che prima o poi Molly scoprirà il suo segreto, e già ci chiediamo come ci si sente quando si viene traditi. Nonostante tutto, Zeno e Molly si ritroveranno e saranno fondamentali l’uno per l’altra. Renata Coluccini costruisce, dunque, una fiaba che parla di amicizia, di tradimenti, di ricerca della propria natura presentando allo spettatore due personaggi molto diversi: un uomo, nel quale possiamo riconoscerci, e un animale capace di parlare, che rappresenta in qualche modo quel bisogno di evasione dalla quotidianità, di un luogo magico in cui poter vivere un’avventura, essere un’altra persona, cambiare pelle, metterci alla prova. Senza Molly, Zeno è un ragazzo come tanti che decide di perdersi nel bosco per allontanarsi dai pensieri opprimenti. Probabilmente, se non fosse stato scambiato per un asino, se non fosse stato al gioco e se non si fosse fatto prendere dal sentimento dell’amicizia, sarebbe solamente tornato più tardi a casa dopo una lunga passeggiata. Invece, forse, Zeno, che è riuscito a farsi
rappresentante di ogni spettatore, dopo questo viaggio, sarà una persona diversa e comunque più ricca. La fiaba rende possibile tutto questo perché ci permette di vivere contemporaneamente dentro e fuori dalla realtà e di applicare poi, nella vita, ciò che abbiamo sperimentato nel momento immersivo dell’ascolto.

Se “Amici per la pelle” utilizza la struttura della fiaba, “Buono come il lupo” è un lavoro costruito intorno a quello che viene considerato l’antagonista di moltissime fiabe.

Il lupo di Giallo Mare Minimal Teatro e I sacchi di sabbia ha perso il suo aspetto ferino, è in piedi su due zampe, veste elegantemente, sembra un impiegato pronto a sbrigare il suo lavoro di ufficio. È alla fine di un programma di riabilitazione per diventare buono, che per un lupo significa sopprimere tutti i propri istinti, primo tra tutti quello di essere un predatore. Noi spettatori assistiamo alla verifica delle competenze acquisita durante questo percorso. Il lupo esegue, con grande sacrificio, le richieste avanzate da una donna, della quale possiamo sentire solo la voce. Le prove sono durissime per un lupo, come quella di accarezzare un uccellino a ora di pranzo, piuttosto che mangiarlo! I bambini reagiscono divertiti, a volte interdetti, a volte increduli, di fronte a questo uomo ben vestito ed educato che non sembra affatto il temutissimo – e amatissimo – personaggio delle fiabe che conoscono. Per fortuna alla fine il povero lupo, stremato dalla grande fatica di fingere di essere quello che non è, si ribella ritornando alla sua natura selvaggia. E gli spettatori sono rallegrati dal fatto che la storia sia finita come doveva finire. Il lupo ha un ruolo ben preciso: scatenare la paura. È necessario il confronto con questo personaggio. Penso a “Il narratore” di Saki. Una vecchia zia cerca di tenere buoni i suoi nipotini che si agitano nel vagone di un treno e racconta loro la storia di una bambina buona e amata da tutti, che grazie alle sue virtù viene salvata da un toro. Questo racconto non desta alcun interesse nei piccoli interlocutori, ma quando un viaggiatore, che aveva assistito alla scena, prende la parola raccontando di una bambina “orrendamente” buona, tanto da essere divorata da un lupo, ecco che la storia diventa per loro interessante. La zia, però, è scandalizzata. Non si raccontano certe cose ai bambini. Questa storia la dice lunga anche su ciò che noi crediamo sia giusto destinare ai bambini nella loro fase di formazione.

È necessario che le fiabe conservino quella parte scura, misteriosa e inquietante che le caratterizza, perché rappresentano l’unico luogo protetto in cui sperimentare dei sentimenti tutti umani, dei quali però a volte abbiamo paura o ci vergogniamo. E possiamo farlo senza temere giudizio degli altri verso le emozioni che proviamo, perché tutto quello che accade quando si ascolta una fiaba, accade dentro di noi. Le fiabe difendono il diritto alle emozioni e il teatro, uno dei pochi luoghi in cui ancora si raccontano, può contribuire a mantenerne vivo questo ruolo fondamentale e necessario.

Nella Califano