Oltre la fiaba: aprirsi alla complessità del mondo. Conversazione con Francesco Niccolini

Incontriamo al festival Teatro fra le generazioni Francesco Niccolini che esattamente un anno fa, in occasione della presentazione di “Digiunando davanti al mare” al festival di Castelfiorentino , ci ha parlato della sua attività di drammaturgo e della relazione con lo spettatore bambino (QUI l’intervista integrale). In questa nona edizione del festival conversiamo con lui dopo aver assistito ai lavori di due compagnie che si sono avvalse della sua collaborazione: “La gazza ladra” dell’Asina sull’Isola e il progetto “Il grande gioco” di Simone Guerro dell’Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata ATGTP. È emerso un punto di vista stimolante e provocatorio sulla necessità di “superare” la fiaba classica e di assumersi nei confronti delle nuove generazioni la responsabilità di parlare del mondo nella sua complessità.

Una delle domande che
ci siamo posti con il nostro osservatorio sul teatro ragazzi riguarda la
relazione tra arte e pedagogia. È un aspetto presente nei tuoi spettacoli?

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della
formazione del pubblico, io ricerco l’effetto di meraviglia e la possibilità di
condividerla. Io scrivo, per cui il mio scopo è quello di creare un ponte tra
il palco e la platea e fare in modo che l’attore e lo spettatore percorrano
insieme un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una
parte. Per rendere possibile questo incontro è necessario un linguaggio comune,
intriso di curiosità e meraviglia. 
Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a
cuore a chi la racconta; in questo modo sarà in grado di evocare nello
spettatore qualcosa che appartiene alla sua vita o, nel bambino, qualcosa che
stia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco
nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia
quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Quest’anno hai
collaborato alla realizzazione de “La gazza ladra” e del progetto “Il grande
gioco”, che abbiamo visto qui a Teatro fra le generazioni. Si tratta di due
lavori diversissimi. Come si coniugano la tua poetica e i tuoi obiettivi con
questi due risultati così distanti?

Quello che continua a piacermi da morire di questo lavoro è la possibilità di cambiare continuamente le forme del racconto. Ogni volta devi confrontarti con una sfida diversa, ed è ciò che mi incuriosisce e mi stimola: essere pronti a mutare il proprio approccio in base agli elementi presenti, trovare soluzioni capaci di esaltare ogni volta le diverse abilità e potenzialità comunicative presenti in scena. È un gioco sempre diverso in cui trovare la soluzione significa scoprire come gestire l’effetto di meraviglia.

Esistono degli
stereotipi rispetto alle modalità di relazione con l’infanzia, tra questi la
necessità di comunicare attraverso narrazioni edulcorate. Si tratta di un
orientamento presente non di rado anche nel teatro ragazzi. Come ti rapporti a
questa tendenza?

Personalmente non sono così convinto che il politicamente
corretto sia sempre necessario, soprattutto quando diventa un modo per
offuscare la realtà: ne “La gazza ladra” a un certo punto ci sono due animali
che litigano sull’Arca di Noè e si scambiano anche parole come “culo stretto” o
“ciccione”. Può non piacere, può sembrare strano, ma dobbiamo pensare che si
tratta di due personaggi su una nave scossa dalle onde del mare in tempesta.
Immaginare che si mettano a fare una discussione in punta di forchetta sarebbe
assurdo. Non penso che i bambini vadano continuamente protetti, illudendoli di
vivere in una fiaba serena e felice. Lo stesso mondo dei bambini può essere
estremamente crudele. Non voglio dire che si debba cercare un effetto
traumatico, ma rendere progressivamente conto della complessità che ci
circonda. Bisogna cominciare a introdurre tutti gli aspetti duri e anche feroci
della vita, proprio per permettere che i bambini non li affrontino da soli.

Qual è il principale
problema del teatro per ragazzi oggi?

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, allo stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Moliere, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroviamo all’interno di un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro. È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Nella Califano, Michele Spinicci