A scuola di teatro. Un incontro con le insegnanti da Maggio all’infanzia

L’attività scenica come strumento pedagogico: una domanda che attraversa praticamente tutto il panorama del teatro per e con l’infanzia. Ma quali le sue concrete ricadute all’interno della scuola e dei percorsi didattici? Quali gli ostacoli e le scoperte che si incontrano, gli “aggiustamenti” che vanno di volta in volta messi in atto? Ne abbiamo discusso a Bari durante Maggio all’infanzia con un gruppo di insegnanti che si confrontano quotidianamente con tali pratiche, la maggior parte di loro ha preso parte al progetto Teatro Scuola Vedere Fare organizzato a Napoli da Le Nuvole in collaborazione con AGITA, Casa dello Spettatore e Giorgio Testa.

Ci piacerebbe partire da una delle grandi questioni che riguardano il teatro rivolto ai bambini e ai ragazzi: in che modo il teatro può affiancare i percorsi educativi e, in particolare, il percorso didattico-educativo per eccellenza che è la scuola? A partire dalle vostre diverse esperienze quali pensieri e materiali di lavoro state raccogliendo rispetto a questa domanda, cosa avete compreso?

«Io sono un’insegnante di scuola secondaria di primo grado, quindi mi rivolgo ai ragazzi dagli undici ai quattordici anni. Il mio percorso però comincia prima, con alunni con disabilità, bisogni educativi speciali e ho sempre avuto l’esigenza di ricercare tecniche e metodologie per un’attività didattica che fosse il più possibile inclusiva. Il laboratorio teatrale, a prescindere dalla realizzazione di uno spettacolo, credo sia fondamentale innanzitutto per formare il gruppo classe, creare coesione e dare a ciascuno la possibilità di partecipare. Le conoscenze e le competenze specifiche arrivano in un secondo momento, ma prima è necessario lavorare sul corpo, sul movimento, sull’interazione e, una volta stabilita una buona relazione, l’intera didattica ne risente in positivo. Gli incontri e le attività che stiamo facendo per questo progetto ci hanno permesso allora di diventare più padrone di certe tecniche e affinare il nostro sguardo sul teatro, sulle sue possibili realizzazioni e sul modo in cui ci si può rapportare, per poi poter calare questi strumenti nelle nostre classi. Lo stimolo di fondo per me è stato questo».

«Uno sguardo verso il teatro diverso, non legato ai soliti stereotipi. Attraverso questo tipo di approccio “dal di dentro” abbiamo una visione a 360 gradi di ciò che c’è dietro quello che vediamo sul palco».

«E poi il teatro ti permette di toccare in maniera trasversale tutte le discipline. Spesso ci troviamo di fronte a genitori preoccupati del fatto che il progetto teatrale possa togliere ore alle altre materie, allora noi cerchiamo, concretamente, di far capire loro che attraverso il teatro si fa tutto, però in una maniera ludica, che dà la possibilità ai bambini di “venir fuori”, di vincere ostacoli comunicativi. Molte volte soprattutto quelli più timidi, riservati, realizzano delle performance che ci sconvolgono».

«Che non ti aspetteresti mai, e forse in nessun altro ambito potrebbero farlo in questo modo».

«Riescono a esprimersi meglio e con maggior libertà, anche perché nei nostri percorsi puntiamo molto sulle emozioni».

Com’è strutturato il progetto “Teatro Scuola Vedere Fare”?

«Il percorso è iniziato a ottobre e i bambini hanno partecipato a minimo tre spettacoli nel nostro teatro di riferimento, il Teatro dei Piccoli, mentre ogni mese ci sono stati dei corsi di formazione per i docenti. Gli operatori ci hanno raggiunto anche scuola e insieme ai bambini abbiamo creato lo spettacolo, a partire dagli stimoli più vari: i libri, le esperienze condivise…».

«La visione e il fare procedono parallelamente. Oltre a questi tre spettacoli se ne può scegliere un quarto, in base a ciò che si vuole andare a raccontare, alle discipline e al percorso didattico».

«Nel corso rivolto ai docenti, invece, siamo noi a fare attività laboratoriale, attraverso la scrittura, il movimento; sperimentiamo sulla nostra pelle tutto ciò che proporremo ai piccoli. E poi chiediamo ai bambini di cosa vogliono parlare e con loro scriviamo lo spettacolo – dai testi, quando ci sono, alle scene, alla scelta delle musiche, parte tutto da loro. Alla fine partecipiamo a una rassegna di spettacoli creati dai ragazzi. Il progetto viene portato avanti nella scuola primaria e secondaria, elementari e medie, in continuità. Questo per noi significa anche rapportarsi con altri docenti del territorio e condividere le buone pratiche tanto decantate anche a livello pedagogico; ci incontriamo e ci confrontiamo rispetto a dove siamo partiti e arrivati, alle difficoltà incontrate e al modo in cui sono state risolte».

Da chi è composto il pubblico degli spettacoli dei ragazzi?

«Dai genitori e dalle altre classi che hanno aderito al progetto; ciascuna partecipa ad almeno uno degli spettacoli degli altri. Durante l’anno prepariamo un lavoro per classe o anche con gruppi interclasse».

Che tipo di confronto è quello con gli operatori?

«Ci incontriamo una volta al mese. Le indicazioni che ci vengono date riguardano soprattutto la gestione dello spazio, le possibilità sceniche, tecniche; ma lo spettacolo lo creiamo insieme ai bambini e ai ragazzi. Ed è interessante vedere come siano loro a compiere questo processo di conoscenza, dilatato nel tempo, come dovrebbe essere, e inizino a dibattere criticamente, a impadronirsi del linguaggio tecnico. Non solo, sono ragazzi che all’inizio non erano mai stati a teatro e che a poco a poco cominciano a formarsene un’idea propria. Mi è capitato di far loro scrivere un testo a riguardo, ed è emerso che uno dei primi pensieri è la paura di annoiarsi ma poi, dopo aver fatto l’esperienza, il desiderio generalmente è quello di ripeterla».

Come affrontate invece con i ragazzi il momento della visione? In che modo pratica e arte dello sguardo si intrecciano?

«Per gli spettacoli interni al progetto il nostro approfondimento è legato alla didattica della visione della Casa dello Spettatore. In classe, poi, lanciamo uno stimolo che sia uno spunto per giocare e lavorare sull’attesa, non tanto sull’aspettativa; e naturalmente c’è un momento che riguarda il dopo visione. Quello per me è stato particolarmente interessante perché, man mano che si va avanti, i ragazzi cominciano a fare incroci, paragoni, a esprimere preferenze. Noi abbiamo visto anche altri spettacoli programmati dalla scuola al di fuori di questa rassegna e loro di volta in volta esprimevano un giudizio critico».

«Non sono più degli spettatori passivi».

«Diciamo che il lavoro non si esaurisce con la visione dello spettacolo. Il momento della preparazione alla visione a volte c’è, altre volte invece preferiamo portarli completamente a digiuno per parlarne successivamente».

«E l’aspetto meraviglioso di quest’esperienza, per quel che riguarda la scuola primaria almeno, è che quasi sempre è possibile riportarla nella quotidianità didattica perché si va ad amalgamare talmente tanto con il lavoro di tutti i giorni, in maniera trasversale a tutte le discipline, che ci si ritorna al di là dei laboratori con gli esperti esterni, finendo, spesso, per andare molto oltre i tempi che ci si erano prefissati. Perché in realtà le esigenze e gli input arrivano dai bambini. Facciamo leva su tanti aspetti – la curiosità, la motivazione, gli interessi – e il loro feedback è talmente positivo che torna indietro come un boomerang, non puoi fare a meno di recepirlo. È un amalgama meraviglioso per il tuo mestiere e di fronte ti ritrovi alunni motivati ed entusiasti di imparare e vivere la realtà della scuola, che spesso è altro».

«Io ho una classe particolare, i ragazzi in generale erano e sono ancora abbastanza demotivati. Per questo progetto, però, effettivamente sono loro che ti costringono a stare dietro al lavoro, portando avanti un’attività di cooperazione e co-costruzione, così come sempre dovrebbe essere. La sfida dal punto di vista della scuola media, che ha 10 insegnanti per classe, è di contagiare, di sperare cioè che i ragazzi a loro volta contagino gli altri colleghi che non sono in quest’esperienza ma che possono trarne grande beneficio. La scommessa è anche quella di non restare gli unici referenti».

«Noi, che abbiamo cominciato con i piccoli, ci siamo accorte che rispetto all’autocontrollo, alle capacità attentive, all’espressione delle emozioni e al riconoscimento dell’altro c’è stato un percorso di crescita enorme. È il terzo anno che seguiamo il progetto: tre anni fa lo facemmo con una quinta elementare, l’anno scorso con una prima, quest’anno sempre con la stessa classe. Da un anno all’altro è come se ci fosse un abisso e, nonostante la naturale vivacità o le problematiche che hanno i nostri bimbi, è evidente che ci siano un diverso controllo delle emozioni e un’altra capacità di elaborarle. Diciamo che in qualche modo è come se fosse un percorso terapeutico per loro, al di là dell’acquisizione delle conoscenze, soprattutto in relazione alla capacità di concentrazione connessa alla visione. Il lavoro con Giorgio Testa a noi è servito moltissimo. I bambini hanno una grande abilità nel selezionare ciò che vedono e individuare la chiave di lettura di uno spettacolo, spesso sono loro a cogliere il messaggio e a compiere associazioni, diverse dalle nostre, con dei particolari specifici. Ci sono poi reazioni comuni molto simili, che possono rimandare anche ad aspetti che noi avevamo sottovalutato; questo porta a elaborare nuove situazioni di confronto. È un percorso stimolante, e anche i genitori lo hanno compreso».

Sulla base di questa esperienza e delle vostre conoscenze pedagogiche, come va posta oggi la questione della visione teatrale? Che tipo di oggetto è il teatro da guardare? Anche considerando la società frammentata, iper-rappresentata e iper-mediatizzata in cui viviamo – se ne può parlare in termini di “alterità”?

«Riguardo la visione a me viene sempre in mente un discorso di Franco Lorenzoni, che ascoltai durante un’assemblea della CGIL. Lui diceva che per poter crescere bene all’interno dell’ambiente scolastico è necessario che i bambini conoscano almeno due mondi: la scuola e qualcosa che le sia tangente, ma che non vi si mescoli troppo. Il teatro è questo mondo altro. Allora l’esperienza della visione teatrale, per quanto mi riguarda, è un avvicinamento dei bambini a qualcosa di diverso dalla scuola ma che ha degli elementi in comune, come la trasversalità di cui si parlava prima, che permette loro di esprimersi in maniera più libera, meno convenzionale, di parlare attraverso le emozioni. In quanto alterità il teatro aiuta anche ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della realtà e a entrare in relazione con la diversità, a conoscere ciò che esiste al di là di noi. Occupandomi di inclusione e lavorando con i bambini stranieri personalmente questo è un linguaggio che uso molto. A Napoli stanno facendo un’esperienza importante, io sono di Roma, e invidio questo percorso perché Roma è una città in cui oggi c’è molto poco da questo punto di vista. Sebbene anni fa sia nata un’esperienza altrettanto importante che vorrei ricordare e che in qualche modo ha posto le basi del lavoro della Casa dello Spettatore. Vent’anni fa, al Teatro Ateneo, il professor Ferruccio Marotti avviò infatti un progetto di ricerca sul teatro ragazzi e il suo rapporto con la scuola, in cui era coinvolta anche la regione Lazio. Un percorso di studi che si rivolgeva soprattutto agli insegnanti delle scuole superiori, incentrato sulla didattica del teatro e strutturato in cinque corsi di aggiornamento, condotti da altrettanti professori che provenivano da diverse parti d’Italia. Tra questi c’era anche Giorgio Testa. Ogni corso aveva un indirizzo differente rispetto a come avvicinare i ragazzi al teatro, e ricordo che Giorgio insisteva molto sulla didattica della visione, sull’importanza di far conoscere il teatro vedendolo; poi c’era anche chi puntava l’attenzione sul fare, sulle pratiche. Cinquecento ore di corso, diverse prospettive, fu una cosa estremamente interessante che alla fine sfociò in un convegno internazionale e in un bellissimo confronto tra l’Italia, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra. Ecco, questo progetto però non ha avuto seguito».

«Rispetto a questa domanda, ciò a cui teniamo moltissimo è la costruzione di un sapere critico, perché i bambini oggi – nel loro rapporto costante con i videogiochi, per esempio – tendono invece verso un atteggiamento fortemente passivo».

Utilizzate la tecnologia nei vostri laboratori, negli spettacoli?

«Pochissimo, molto poco. Piuttosto è un percorso che li libera da questo rapporto. È quasi un antidoto. Intervenire su tale versante, comunque, è molto difficile; noi abbiamo il tempo pieno, usciti da scuola i bambini sono molto impegnati (il catechismo, lo sport), le relazioni familiari non sempre si basano sull’ascolto e negli anni c’è stato un forte impoverimento linguistico. Allora ci teniamo che il teatro dei ragazzi resti quanto più “teatro” possibile».

In questo modo, secondo voi, il teatro rischia di essere percepito subito come qualcosa di vecchio?

«No, no, è un linguaggio che bisogna far conoscere… Quest’anno, per esempio, io lavoro con una prima elementare dove sono venuti gli operatori della Casa dello Spettatore. A quest’età non tutti i bambini conoscono il teatro, il primo passo quindi è porre delle domande, assumere una posizione se vuoi un po’ filosofica e in maniera maieutica “mettere in discussione” ciò che sanno, tirarlo fuori. Laura Squarcia, una delle operatrici, è venuta in classe e ha realizzato con loro un bellissimo incontro, sollecitandoli anche in maniera divertente: “Come vi immaginate il teatro?”, “Che differenza c’è secondo voi con il cinema?”; a proposito dei diversi linguaggi comunicativi ed espressivi, tutto ciò ha innescato una riflessione basata sul confronto e i bambini sono infine arrivati a ‘vedere’ le differenze. Quando poi li abbiamo portati a teatro, soprattutto chi non c’era mai stato, avevano un atteggiamento di curiosità costruttivo. Quindi c’è stata una preparazione alla visione rivolta al luogo e al linguaggio del teatro, non allo spettacolo specifico, e, dopo, un altro incontro in cui chiedere ai bambini quali fossero le loro impressioni. Ecco, il fatto interessante è stato mantenere uno sguardo ad ampio raggio».

«Di fronte al simbolo e alla metafora dei linguaggi artistici i ragazzi, i bambini hanno una potenza interpretativa incredibile. E pian piano apprezzano, comprendono e fanno opera di astrazione (i ragazzi che hanno seguito questo percorso, per esempio, ora mi fanno notare che non amano più vedere qualcosa che risulti loro particolarmente didascalico, ripetitivo). Dispongono del pensiero metaforico, che riguarda il processo creativo, e questo emerge anche nel momento del ‘fare’, in cui può accadere che attingano dagli spettacoli visti. Il punto dal quale si parte però è l’abitudine a ciò che viene dato, narrato loro da altre forme di intrattenimento con cui non fanno più un’operazione critica, di ragionamento, di astrazione, appunto. Inoltre i social e internet favoriscono una giustapposizione dei contenuti piuttosto che una loro rielaborazione, in una sorta di rapporto uno a uno».

Dal canto suo il teatro riconduce a un’esperienza comunitaria, ad avere a che fare con una materialità dell’esperienza…

«Esperienza di cui iniziano a interiorizzare le regole. Addirittura sono loro, spesso, che dicono ai genitori di non utilizzare i telefonini».

«Bello è anche il momento del confronto dopo la visione, una cosa che al Teatro dei Piccoli accade sempre. I bambini fanno un sacco di domande e c’è un confronto molto attivo con gli attori».

«Questi incontri vengono pensati in modo tale che siano i ragazzi a porre le domande e a rispondere ancor prima degli attori – che a volte sono come un pretesto per formularle –, così ché il dibattito nasca già in sala».

«Come per certi versi accade a scuola. Il teatro è uno strumento artistico e io penso che, essendo tale, debba avere più spazio di libertà di pensiero possibile. Quando chiediamo ai bambini di fare un disegno, diciamo loro che sono liberi di disegnare ciò che vogliono, è il loro disegno; allo stesso modo con il teatro devono poter esprimere liberamente le loro opinioni. Noi insegnanti siamo sempre dei mediatori potenti – a qualcuno potrebbe venire in mente: “C’è la maestra, non è che posso dire proprio quello che penso” – dunque dobbiamo cercare di lasciar spazio a una libertà di pensiero e di approfondimento. Questo vuole anche dire che in una quarta elementare, per esempio, non puoi più accettare una risposta che abbia a che fare solo con i “sì” e i “no” del “ti è piaciuto?”, devi provare a chiedere quali sono le cose belle o meno che hanno trovato e perché».

A cura di Lorenzo Donati, Sergio Lo Gatto