Un minuto di vita, una giornata a teatro: ultima istantanea dal festival

Ogni volta che si va a teatro con dei ragazzi, o meglio ancora con dei bambini, arriva sempre l’attimo in cui si spengono le luci, scende il buio fittizio che apre lo spettacolo e immancabilmente quel buio crea un mormorio di sorpresa, una promessa di inaspettato, un brivido di mistero, se non di vera e propria paura.
Per Across the Universe, il lavoro che inaugura la giornata di oggi, il buio non è solo quello siderale dello spazio, ma anche quello della condizione odierna di un mondo adulto confinato in un divenire senza potenziale che, come gli astronauti dello spettacolo, corre per raggiungere un qualcosa al di là della sua portata: il confine dell’universo.
Daniele Bonaiuti e Chiara Renzi, autori-attori dello spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole, scelgono l’immensità dell’universo per portare in scena l’infinita ricerca di senso dell’essere umano, infinita e imprendibile come la complessità del cosmo. La scena procede per sketch ed episodi affiancati tra loro e cuciti insieme dal filo dell’esplorazione spaziale, ma in realtà coesi dall’urgenza delle domande, prima fra tutte quella sul senso della vita. Non la vita in generale: proprio la nostra, episodica, mesta, infinitesimale davanti allo spettacolo delle stelle.
La scoperta del cosmo è scoperta di sé, la conoscenza è anche un saper diventare, ma questo richiamo dell’infinito è sia ammaliatore che terrificante e i due astronauti, alla vigilia della missione, si fanno attanagliare dall’ansia: dubbi e crisi di inadeguatezza divorano la parata mediatica approntata per l’occasione. L’opera ricorda nel linguaggio l’esperienza dei Sotterraneo, con cui gli attori hanno collaborato proprio in un lavoro rivolto all’infanzia (La repubblica dei bambini, sempre una produzione delle Briciole), e avvicina spot e lustrini, “edutainment” e reality show, dichiarazioni d’amore e eventi sportivi in un susseguirsi serrato di scenette e musiche, come in uno zapping contemporaneo.
L’ironia e la levità con cui Across the Universe costruisce il discorso non addolcisce l’inevitabile nichilismo che il futuro dispiega innanzi: l’impossibilità di diventare adulti, di avere un lavoro, una famiglia, una pensione, tutto raccontato sullo sfondo di pratiche del benessere tanto di moda oggi, dallo yoga alla cura di sé, quasi fossero escamotage per sfuggire alla lama delle inquietudini. Queste tornano ancora e ancora, camuffate nell’ipertrofia del narcisismo e dei fenomeni di divismo, come nell’intervista alla star del momento, il sole, che sembra uno dei tanti psicologi da social media quando raccomanda di essere se stessi e di continuare a bruciare sempre.
“Che senso ha la mia vita?”, chiede il Teatro delle Briciole al suo pubblico adolescente. Risposta non c’è, rimane un minuto di vita, da passare sotto un riflettore, continuando a porre domande.

Di sapore radicalmente opposto, e dedicato a un pubblico assai più giovane, L’albero di Pepe di AGTP – Teatro Pirata, racconta una favola di amicizia e collaborazione, portando in scena la storia di una bambina, Pepe, che per avere un po’ di tranquillità e di ascolto si rifugia su un albero, e lì rimane, novella barone rampante, fino a che l’arrivo dell’inverno non la mette in contatto con l’infinito mutamento delle cose, mentre l’irrompere della guerra la aiuterà a ritrovare il fratello. Passato l’orrore, l’amato albero, ormai giunto al termine del suo ciclo vitale, si trasforma in casa per accogliere la nuova vita dei due fratelli. Una favola raccontata con canzoni e pupazzi di animali, in una messa in scena più consueta ma capace di accogliere nella sua trama l’entusiasmo dei bambini che rispondono alle domande sia implicite che esplicite degli attori, e sono pronti a segnalare con risate e interventi ogni accadimento, l’arrivo di un nuovo animaletto sull’albero, i rimbrotti degli adulti “assenti”. Uno spettacolo che nella semplicità del racconto include, con leggerezza, lo sguardo del suo pubblico, pronto ad assecondarlo, a divertirlo, a dargli spazio, mettendo davanti a ogni altra questione la piacevolezza del tempo che i bambini trascorrono a teatro.

Ancora favole, questa volta imbandite in solitaria da Fabrizio Pallara per Fiabe da tavolo del Teatro delle Apparizioni. Sono racconti in valigia pronti a essere trasportati ovunque, mondi in miniatura che già vivono nell’immaginario di grandi e piccini. Non c’è sorpresa, non c’è trasformazione narrativa, il giovane pubblico sa già cosa accadrà, ma c’è la magia di una restituzione delicata e immaginifica che, con pochi semplici segni e con la virtuosità interpretativa e affabulatoria dell’intervento attoriale, prende vita pronta a depositarsi nella memoria e nell’esperienza degli spettatori. Boschi di sughero e carta, coriandoli come prati fioriti, personaggi-dita riconoscibili da un semplice indicatore cromatico, oppure una sfilata di cartoline per un viaggio intorno al mondo, paglia, legno e mattoncini per le casette in miniatura, baffoni neri per l’irresistibile lupo: questa volta sono state raccontate le fiabe di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini, ma viene da chiedersi quali altre invenzioni, e quali altre magie, contengano le borse da viaggio di Pallara. Non resta che aspettare, come una volta si aspettavano i cantastorie girovaghi, per un’altra ora di fantasia e incanto.

Lucia Oliva

Se fossimo adulti sapremmo individuare certi riferimenti a Il lago dei cigni, avremmo vita facile a goderne la  suggestione. Se fossimo adulti cadremmo facilmente nella trappola di rivivere la fiaba seguendo certi antichi ricordi, troppo flebili per rintracciarla davvero, troppo coscienti per davvero assecondare un’emozione purificata dalla nostalgia per l’età infantile. Se fossimo adulti troveremmo utile questo ricorso al vissuto, ma non lo siamo. Siamo bambini di fronte al Diario di un brutto anatroccolo, fiaba scritta da Hans Christian Andersen e tradotta per la scena dalla mano gentile di Tonio De Nitto con Factory Compagnia Transadriatica. Siamo nella fiaba per un pretesto coraggioso di indurre domande difficili sul tema della diversità, dapprima deficit di inclusione, infine punto di forza di un’elevazione imprevista. Con i tre attori-danzatori (Ilaria Carlucci, Fabio Tinella, Luca Pastore) che sviluppano una relazione molto stretta, trovando cioè il legame con cui farsi comunità, in scena è chi soffre l’esclusione, l’anatroccolo (Francesca De Pasquale) che non riesce a inserirsi secondo i canoni riconosciuti dal gruppo e vive l’emarginazione in famiglia, a scuola, nel mondo del lavoro, nell’illusione d’amore. De Nitto affronta il tema con delicatezza e decisione, sfrutta del teatro la possibilità che l’incanto non sovrasti una necessaria problematizzazione e compie così l’intero arco della creazione soprattutto dedicata all’infanzia: dispone con cura e pulizia espressiva gli elementi della scena perché fuori, in questo caso gli adulti, sappiano ricondurli a fini educativi. Certo, colto ognuno da quella impressione di meraviglia, a trovarne di adulti in sala.

Simone Nebbia




Picari, lupi, pifferai: istantanea dal secondo giorno

Il viaggio ha nella letteratura di matrice picaresca una forza evocativa determinata dall’articolazione che procede da un punto oscuro, attraverso mille peripezie, verso una chiarificazione risolutiva della vicenda per un miglioramento della condizione del protagonista. Nel teatro che guarda alle nuove generazioni e le coinvolge in una coabitazione con quelle più adulte, questo arco evolutivo si concretizza di fronte al giovane pubblico stimolando soprattutto un canale emotivo di partecipazione, capace di avvolgere di trepidazione l’attesa degli eventi. Daria Paoletta di Compagnia Burambò utilizza un pupazzo che in fretta si fa bambino, si chiama Tzigo e si carica della tradizione orale zigana verso la ricerca della felicità. Il fiore azzurro, spuntato sulla tomba della madre di Tzigo, sarà una sorta di amuleto per un viaggio di formazione, così ricorrente nelle storie per bambini. L’attrice e autrice, che presta la voce a tutti i personaggi compreso il giovane zingaro, della storia si fa carico utilizzando quasi tutti i mezzi a disposizione: il canto e il ballo, la musica dal vivo che dalle note di una chitarra raggiunge il palco a far cantare Tzigo, la partecipazione concreta del pubblico che entra direttamente nella sequenza drammaturgica, la lingua intima e carnale dei dialetti meridionali, l’evocazione sensibile che fa affiorare profumi di vaniglia e colori di bosco, serpenti per capelli di streghe e lacrime di un’origine perduta, cercata, riavuta infine per apparizione e ammissione del proprio destino. È un ottimo lavoro quello di Burambò, meriterebbe per questa una maggiore severità nel tagliare il superfluo e gestire meglio l’ultimo blocco spettacolare che rischia di ribaltare le sensazioni vitalissime che tuttavia, ognuno dei bambini presenti in sala, non avrà di certo dimenticato in fretta.

Cappuccetto Rosso si presenterà solo alla fine, sarà la “zia” ad andarla a cercare fra il pubblico, facendo indossare a un bambino la mantellina di cotone rosso; la storia è già tutta accaduta, le peripezie si sono già compiute; resta solo da salvare la nonna dalla pancia del Lupo, che si è fatta mangiare tendendogli un «trappolone». In questo Cappuccetto e la nonna! della compagnia Giallo Mare Minimal Teatro, per la regia di Vania Pucci e Lucio Diana, assistiamo alle vicende della fiaba rilette dal punto di vista della nonna e di una zia che la accompagna in scena, entrambe con la voce amplificata da microfoni. La nonna diventa una figura didattica: accoglie in casa una un maiale, una capretta e una papera, pupazzi che si presentano bussando dietro una metonimica porticina sul fondo, visibilmente inadatta a riparare le abitanti dagli attacchi del lupo; fa accomodare i pupazzi su tre sedioline per assistere a una lezione dove si impara a riconoscere i mascheramenti del lupo, mostrati in un videofondale che rimanda le immagini di una lavagna magnetica manovrata su un lato dalla zia. Quello che manca sulla scena (la casa e le sue finestre, ma anche la visione orrorifica del del lupo, il bosco, i sentieri percorsi da Cappuccetto ecc) viene ricreato dunque grazie a un dispositivo artigianale che proietta disegni e altre immagini non digitali, spazio d’invenzione dove resta l’agio per immaginare. E Cappuccetto, dov’è? Era attesa per la lezione della nonna, ma non si vede. La nonna si trasforma in “Super Nonna”, esce per cercare la nipote con una slitta trainata da un gomitolone rosso, e qui la diegesi prende una deriva marcatamente spettacolistica nei suoi elementi di base: le musiche salgono di tono, le immagini del lupo diventano fondali terrifici che occupano tutto lo sfondo, Cappuccetto viene prelevato dalla platea così che l’identificazione si completi con partecipazione. Dopo il lieto fine che sembra celebrare la diversità (degli animali salvati dal lupo, che resta un mostro), resta sospesa una questione fra immersività degli elementi (la sostanza fictional data dalle voci e dagli effetti audio, il ritmo serrato e “pieno” di accadimenti che non prevedono spaesamenti di riflessione ecc) e una possibile “sciancatura” del racconto: i bizzarri animaletti intervenuti alla lezione, i gomitoli necessari per diventare supereroi e qualche tratto recitativo da cartoon slapstick. Tifiamo per i secondi.

Se Daria Paoletta ha infuso di parole e movimento il burattino Tzigo fino farlo diventare quasi umano, GogMagog sembrano procedere per la via opposta. Nella prima scena di Il pifferaio magico (anteprima di uno spettacolo che nella sua versione finale sarà accompagnato dall’orchestra dal vivo) gli attori e registi Rossana Gay e Tommaso Taddei entrano sul palco con due enormi maschere, strascicando il proprio corpo in accenni di danza al ralenti, burattinizzandosi – appunto – in una serie di gesti meccanici seppur fluidi. Tinte rosse avvolgono la scena costituita praticamente da un solo lungo tavolo imbandito, su cui piatti di frutta a mo’ di natura morta ricreano un’atmosfera onirica e inquietante al tempo stesso, come d’altronde è la fiaba della città di Hamelin: sospesa in un tempo magico e irreale ma glaciale e impietosa nello svolgersi della trama verso il finale amaro.
In poco tempo, però, tale “coreografia surreale” si chiude in favore di un approccio più diretto. I protagonisti sono ora due impiegati di una ditta “aggiustafiabe” che, contattati telefonicamente dal sindaco di Hamelin, si impegnano a risolvere il problema dell’invasione dei topi e promettono anche un “lieto fine”. Sono loro infatti a richiedere l’intervento del pifferaio magico il quale, irretito dalla taccagneria e dalla mancanza di riconoscenza del sindaco (ma, in generale, degli adulti), farà sparire oltre ai ratti anche tutti i bambini della città.
I piani della vicenda e quello più meta-narrativo della ditta si alternano in modo molto lineare e senza discostarsi dalla storia di partenza. Così, la recitazione si attesta su toni decisamente “sopra le righe”, che spesso sconfinano nella macchietta. Si profila cioè, sia da parte degli attori sia della macchina scenica tutta, una sorta di “infantilismo” dello stare sul palco che – nel ricercare a tutti i costi la partecipazione del pubblico – finisce con lo scongiurarla completamente. I ragazzi delle prime file sembrano infatti perdere l’attenzione. “Noi”, poco più dietro, non cogliamo l’urgenza di una narrazione che pare già incanalata su binari prestabiliti.
Eppure, un piccolo tentativo c’è. Alla fine la fiaba viene “aggiustata”: i bambini di Hamelin scomparsi sono semplicemente invisibili agli occhi di adulti che “non ascoltano più col cuore”. Come tornare a farlo? Per GogMagog attraverso un surrealismo delle emozioni (cuore, occhi e orecchie vengono “curati” con bislacchi strumenti) che pur offrendo una consolazione, ci lascia anche con un filo di smarrimento. Smarrimento che forse manca al resto dello spettacolo, dove regnano invece una prevedibilità e una monotonia espositive che diventano semplicismo e rischiano così di invalidare tutto il discorso. Com’è infatti possibile ritrovarsi – bambini e adulti, attori e spettatori – se non ci si è mai persi per davvero?

Simone Nebbia, Lorenzo Donati, Francesco Brusa




A Castelfiorentino gli spettacoli si fanno alle nove: istantanea dal primo giorno

A Castelfiorentino gli spettacoli si fanno alle nove. Ma non di sera. Di mattina. Già perché si comincia negli orari scolastici al Teatro del Popolo, quando le maestre hanno già raccolto i gruppi di spettatori da accompagnare fino alla platea. Se lo chiederanno se le poltrone rosse avranno qualche cuscino per vedere meglio? Forse no, ma certo a vederli da dietro questi microspettatori fa un po’ effetto, ché quasi neanche arrivano all’altezza dello schienale, fanno silenzio finché possono, poi il contagio di qualche risata, di un piccolo accenno di meraviglia che gli ruba gli occhi e li affascina con qualcosa di più grande ancora, come se quell’attrazione fosse più forte in uno spazio condiviso, di una comune esperienza.
Teatro fra le generazioni, il festival diretto da Renzo Boldrini nella provincia toscana, inizia proprio da quella preposizione inabissata nel mezzo tra i due termini in relazione: il teatro, ossia quel che nella scena s’agita a un possibile ascolto, le generazioni al plurale, convocate assieme perché il luogo promuova lo scambio sulla base della fruizione concreta e sensibile.

È una storia di leggende quella che apre la giornata, la firma Giacomo Pedullà, regista di Teatro Popolare d’Arte per il Mare Mosso scritto da Manuela Critelli. Leggende marine di pescatori si affacciano nel dialogo di un passaggio testimoniale, pedagogico, da un padre a un figlio in procinto di far salpare la barca verso il mare largo, alla ricerca di pesci, ossia del sostentamento, della vita. Ma nella loro relazione nulla avrebbe lo scarto di una scoperta, se non intervenissero eventi esterni a raggiungere da estremi opposti il mondo arcaico della nautica, entrambi come degli interventi contemporanei su ciò che pare viva nel tempo fermo di un dialogo diretto con i miti dell’epica fantastica sottomarina. A contatto i due estremi – il cui punto primario è una ragazza un po’ frivola rimasta per caso sulla barca – sembrano rintracciare punti in comune, forse proprio in virtù di quella staticità evolutiva che trattiene il mito coevo del presente, evidenziando la distanza con il tema portante, ossia quella migrazione coatta di cui soffrono i fondali del Mediterraneo. Al fine di tenerne il filo, il racconto vive in scena su un sistematico ricorso all’evocazione leggendaria (Colapesce, Ulisse, Scilla e Cariddi), innescata anche attraverso l’uso di tecniche di proiezione sul telo delle vele, a farsi ora mare ora cielo stellato; ma se nobile è il tentativo di stimolare il pubblico su un tema emergente e attuale, ancora l’insegnamento morale appare troppo didattico e concluso in una struttura aneddotica, poco indagato attraverso un maggiore spaesamento di cui le forme teatrali saprebbero disporre.

Ca’ Luogo d’Arte di Maurizio Bercini fa spostare invece la platea su montagne innevate, per dare vita alla fiaba in sette storie La regina della neve, scritta dal danese Hans Christian Andersen a metà dell’Ottocento e che narra del viaggio di formazione compiuto da Gerda, alla ricerca del suo amico Kay sparito nel bosco per mano della regina della neve. Se il lavoro è ancora in fase di studio, la resa scenica sembra già molto avanzata e la volontà degli attori di conquistare l’ascolto sembra aver già trovato un buon punto di contatto. La scena è curata e delimitata da una pedana su cui svolgere parte delle azioni di relazione e di racconto, su cui ricevere la neve dall’alto, su cui ampliare l’immaginazione di chi assiste a farsi ora casa, ora foresta, ora fiume, ora strada; i tre attori passano per i personaggi con fluidità, sanno che alla base c’è un patto di fiducia e che non hanno bisogno di dare spiegazioni, ma grazie alla mediazione teatrale possono spingersi a essere qualcosa utilizzando elementi semplici come un cappello a fare il personaggio o uno scheletro di bastoni a fare la struttura di una casa; grazie a una giocosità palpabile, solo a volte spinta troppo oltre con battute non cristalline, sanno stimolare impulsi di curiosità verso il tema da un lato e la sequenza della vicenda dall’altro.

La piccola storia del melo incantato è storia piccola che ha una versione più grande, da palco, ma è in una stanza per pochi spettatori in circolo che Giacomo Verde, altro storico esponente del teatro infanzia e di ricerca, la porta in ascolto per pochi minuti. A differenza dei primi due lavori, attorno allo schermo piatto disteso che una geometria solida trasparente proietta in forma piramidale, non ci sono bambini tra gli spettatori e questo impedisce di verificarne una fruizione dedicata. Gli adulti sentono la voce di Verde che fuori scena narra una storia popolare di origine polacca, una madre sola fatica alla ricerca di un lavoro per il figlio che non sia soltanto di sostegno alla scarsa ricchezza familiare ma che sia un motore di felicità per la loro vita. La semplicità estrema del racconto, che tiene in sé certi stilemi della struttura fiabesca classica come la ripartizione delle prove da affrontare prima di quella risolutiva o l’apparizione come svelamento della scelta da compiere, non è tuttavia sostenuta da una qualità affabulatoria limpida che renda fluidi i passaggi del testo, né da un uso non didascalico delle immagini, bloccate a sottolineare le fasi di una vicenda già di per sé stessa esile.

Ma gli spettacoli non sono che un passaggio di domande, molte delle quali affiancheranno la crescita di questi bambini, un giorno adulti, che avranno tutto il tempo di dispiegarle tra le esperienze formative, imparando come le immagini sappiano ricreare un contesto esistenziale in cui misurarsi, una visione dopo l’altra. A fine giornata vanno via, in fila indiana seguiti dalle maestre, come pulcini lungo la strada indicata da una guida. A ritroso la stessa strada che hanno fatto, al mattino presto, per arrivare in teatro.

 

Simone Nebbia




Teatro fra le generazioni. Conversazione con Renzo Boldrini

Con il presente dialogo inauguriamo una serie di conversazioni sul teatro che dialoga con le nuove generazioni, assecondando la rete informale che si è venuta a creare fra Teatro fra le generazioni di Giallo Mare Minimal Teatro a Castelfiorentino, Segnali di Elsinor e del Teatro del Buratto a Milano e Maggio all’infanzia del Kismet a Bari. Partiamo con Renzo Boldrini, direttore artistico della rassegna toscana, dal 22 al 24 marzo 2017.

Renzo Boldrini, da alcuni anni avete fondato Teatro fra le generazioni, rassegna che da subito è divenuta appuntamento centrale del panorama italiano del cosiddetto “Teatro ragazzi”. Partiamo da questa etichetta, stretta e chiara come ogni definizione…

Se parliamo di teatro ragazzi dobbiamo dire di un’azione creativa mirata, che ha un referente particolare. Personalmente credo che il teatro, dai greci alle forme performatiche contemporanee, lo abbia sempre fatto: pensa un immaginario, un referente sociale, culturale, cerca un platea specifica. In questo caso, però, la responsabilità è maggiore. Evidentemente quando dialoghi con un bambino di 3 anni devi mettere in pratica dei meccanismi di salvaguardia rispetto a ciò che puoi raccontare o meno e a come farlo senza che questo diventi una sorta di trauma. Tutti stiamo assistendo, anche se non si tratta di uno spettacolo rivolto a bambini così piccoli, al caso di Fa’afafine , coprodotto dal CSS del Friuli Venezia Giulia e dal Teatro Biondo di Palermo, o di recente, visto che si parla di una platea molto larga, perfino a un’interpellanza del consiglio comunale di Scandicci dopo la visione di Lourdes, dove Andrea Cosentino è in scena con la regia di Luca Ricci, per il modo in cui tratta uno stereotipo del vivere sociale come i viaggi religiosi.
Ciò che stiamo cercando di fare a Castelfiorentino è mettere in moto alcune energie che con quel “fra”, che non è un escamotage grammaticale, provano a rivendicare un’operatività necessariamente legata a dei referenti, anagrafici, culturali, politici. Senza trincerarsi però, questo è il punto, dietro un’idea di esclusività, in un’ottica di separazione o autoesclusione, e cercando di dar avvio – per scelte tematiche, strategie di carattere compositivo ed elementi da ridefinire a seconda dei percorsi – a un ragionamento e a un dialogo più ampi in termini di platea di riferimento.

Facciamo qualche esempio…

Da molti anni ci occupiamo di una programmazione serale per le famiglie, un target costitutivamente intergenerazionale. Rispetto all’offerta artistica le possibilità prospettiche sono due: o scegli di proporre agli adulti che accompagnano i bambini spettacoli che non si riferiscono loro, con il rischio che si annoieranno mortalmente, o scegli opere che tentino di rivolgersi in modo trasversale a differenti immaginari, aspettative, gradi culturali, proponendo quell’operazione che in Francia si chiama tout public. Si tratta di parlare in contemporanea, pur avendo uno spettatore privilegiato, a una platea più grande attraverso un teatro popolare e d’innovazione insieme. Vorrei rivendicare un tentativo che è in atto anche in termini storici. Il teatro ragazzi esiste da circa cinquant’anni, è un oggetto storicamente molto giovane, e la domanda di fondo è: ha senso parlare di arte per l’infanzia? Se mi guardo intorno, in Italia, direi di no. Ma questo è un problema di arretratezza culturale (pensate ai musei che non hanno quasi mai una sezione didattica rivolta ai più piccoli, diversamente dalla tradizione mitteleuropea, anglosassone). Quindi: è arte quella che si rivolge a un pubblico “primitivo” come quello dell’infanzia? E quali sono le strategie da mettere in campo rispetto a una platea che comprende bambini piccoli, adolescenti, famiglie, che sono soggetti fra loro così diversi? Quel “fra” tenta di creare ponti che stiano il più possibile dentro la storia del teatro.

Hai parlato del “fra”, noi avevamo ragionato in partenza sulla relazione dialettica tra il teatro “con” i ragazzi e il teatro “per” i ragazzi, dunque in qualche modo hai già fatto una riflessione che amplia la nostra …

Lo sottolineo con forza: è un ragionamento di prospettiva. Va ricordato che noi siamo una residenza, la nostra azione è praticamente autoprodotta ed è l’unica che ha ancora questa valenza in Toscana, una delle regioni che ha dato origine a una modalità di lavoro in campo residenziale. Il nostro tentativo va nella direzione di un allargamento dello sguardo, vorremmo non essere più i paria di un problema che riguarda tutto il teatro d’innovazione, cioè l’autoreferenzialità. E tale tentativo avviene nonostante una disattenzione furibonda sul versante politico e anche su quello critico. Tutte le volte che nasce un fiore sensato in campo artistico è quasi un miracolo, perché il rischio è intraprendere un destino sottoculturale, se si usano le briciole di attenzione istituzionali per costruire, appunto, una trincea che è “per”, ma lo è in sottrazione.
Dagli anni Settanta ai primi del Duemila si parlava di “teatro vocato” e la domanda era: qual è il motivo per cui qualcuno mira in maniera così precisa al proprio agire? Si parlava a torto o a ragione di vocazione, bisognava aver voglia di fare teatro per i bambini, ragazzi, e l’urgenza era trovare i motivi validi di una relazione con una platea particolare. Il mio era la libertà connessa a questo pubblico “primitivo”, uso il termine nell’accezione grotowskiana, a un’ignoranza sacra, un pubblico disposto a incontrarti su un dato oggettivo, per il quale funzioni o non funzioni, affascini o non affascini. Non c’è niente di più terrificante di uno spettacolo non riuscito con i bambini, perché loro se ne fregano, vanno via, pur essendo un pubblico mediato, quindi accompagnato. Direi che il livello della vocazione negli ultimi anni si è trasformato. Ci sono una serie di compagnie che tradizionalmente lavorano più nel campo del contemporaneo, dell’innovazione, e che invece frequentano, anche in maniera significativa, il mondo della produzione per le nuove generazioni – penso a tutto il percorso del Teatro delle Briciole, de I sacchi di sabbia o di Silvia Gribaudi, Abbondanza/Bertoni, Sotterraneo. Queste proposte creano un ponte fra una tradizione e un’area creativa che, in qualche maniera, rinuncia alla vocazione (che è splendida ma produce anche settarismi). Da una parte dunque c’è una frequentazione qualitativamente alta di questo mondo, dall’altra a mio avviso c’è la necessità di un sostegno anche culturale più preciso. Una possibilità di ampliamento dello sguardo praticata ma ancora fortemente sottovalutata.

Hai parlato di alcuni principi come la salvaguardia, il riferirsi a pubblici diversi ecc. Come li hai resi operativi, in questi anni?

Parto dall’esperienza organizzativa: l’operazione che stiamo condividendo anche in questo osservatorio mette insieme tre luoghi, Castelfiorentino e due importanti città come Milano e Bari… una residenza e due centri di produzione. Si tratta di un primo dato importante: noi siamo una residenza capofila del sistema di residenze storicamente più strutturato rispetto al panorama italiano. Mi pare che già qui, dov’è una struttura in fin dei conti “fragile” a sollecitare la nascita di progetti di sistema, si disegni un’anomalia. Ne siamo felici, ma è anche insufficiente, credo ci sia bisogno di porre con insistenza domande specifiche: è necessaria questa area creativa e perché? È parte del teatro d’innovazione oppure è una forma minoritaria, succedanea, più legata a un modello educativo che artistico? Il fatto che ne stiamo discutendo e che lo faremo anche a Milano e a Bari è una parte della risposta alla tua domanda, è urgente attuare un cambiamento di sguardo, farci aiutare e affiancare.

In seconda battuta creso sia cruciale la presenza della politica, noi durante il festival avremo una serie di incontri anche con politici invitati a dialogare e non solo a “presenziare”. Con l’assessore e vicepresidente della regione Monica Barni discuteremo di residenze e del modello organizzativo del teatro d’innovazione; sarà presente Vittorio Bugli, assessore in giunta regionale che ha la delega all’immigrazione con il quale discuteremo di come la specificità del teatro fra le nuove generazioni può interagire con le politiche di accoglienza. Il teatro è un’azione artistica e culturale abituata a relazionarsi con bambini, adolescenti e giovani immigrati di seconda e terza generazione che nei nuclei familiari sono spesso responsabili della mediazione (sono nati qui, conoscono la lingua).
Mi viene da allargare il campo, e chiedermi che cosa significhi oggi il “rischio culturale”? Spesso nella storia è stato definito come scommessa ardita dei modelli rappresentativi, come avanguardia estetica. Vorrei ridiscuterne a partire dalla sua funzione pubblica, perché questo credo sia il teatro ragazzi all’interno delle comunità sociali, per esempio nella scuola. Chi non la frequenta crede che la scuola sia una sorta di serbatoio per le nuove generazioni, ma oggi lavorare per le scuole è estremamente difficile, è più facile organizzare un festival che strutturare una buona stagione di teatro scolastico, almeno nel nostro territorio. La scuola è diventata impermeabile grazie anche alle varie regolamentazioni (Gelmini ecc.), penso dunque sia bene ridiscutere insieme cosa abbia senso sostenere oggi, anche politicamente, rispetto al rischio culturale. E qui faccio un passo indietro rispetto alla questione organizzativa. Si vocifera che nel nuovo codice dello spettacolo ci sarà una quota riservata a progetto con il Miur. Dovremmo esserne contenti, noi che ce ne occupiamo quotidianamente? Se questo è inteso come “risoluzione del problema” è preoccupante, rischia di diventare una riserva indiana. Il teatro fra le nuove generazioni, nelle varie sue articolazioni, dovrebbe rimanere dentro al comparto Mibact e qualificarsi attraverso relazioni con il Miur. Se poi ci fosse una clausola sarebbe ancora meglio: si dovrebbe indicare che le attività teatrali a scuola devono essere fatte insieme a quelle imprese culturali e quei professionisti che da sempre si occupano di quest’area.

Prima parlavi di teatro popolare, vogliamo precisare il senso di questo aggettivo?

Popolare nel senso di un teatro che non taglia fuori in maniera aprioristica fette importanti di aree sociali come i bambini, i ragazzi, gli adolescenti e le comunità scolastiche, appunto, tutte figure che possiamo definire “spettatori del tempo presente”. Popolare perché non può far altro che cercare un dialogo con le estetiche che parlano al presente del teatro e della società. Io mi arrabbio abbastanza quando si pensa che l’obiettivo del teatro fra le generazioni sia formare la platea del futuro. Si parla dell’oggi, sempre.

Il teatro fra le generazioni ha a che fare con l’intrattenimento, ma l’intrattenimento non basta. Come farci i conti?

Mi ricordo un convegno a Cascina in cui ci si poneva proprio queste domande, nel 1985. Le stesse domande tentò di farle Ugo Volli e rispose Marco Baliani: intanto venite a vedere gli spettacoli, disse. Denunciò una difficoltà straordinaria e allo stesso modo oggi, come dicevo, credo sia importante riallacciare un dialogo che sia anche feroce e critico con diversi addetti ai lavori. Questa era una battuta ma è per dire che in quel periodo, il teatro ragazzi ha comunque rigenerato una serie di tradizioni perse. Penso alla narrazione, al percorso di Baliani ma anche ai primi vagiti delle esperienze nate a Settimo Torinese. E poi penso ad alcune sperimentazioni fra parola, corpo e narrazione – mi autocito – come il progetto Tele-Racconto di Giallo Mare con Giacomo Verde o al Tam Teatromusica dei primi tempi e così via.
Gli aspetti organizzativi non si possono scindere da quelli artistici, in quegli anni c’era anche qualche possibilità produttiva in più, e la tensione rispetto al pubblico che in questo settore forse è più aperta che altrove non deve scadere nella volgarità, nel pressapochismo o in tutto ciò che sta prima della scena, come forse accade nel teatro mainstream e commerciale. Sarà interessante ragionare sul portato della parola “intrattenimento”, come suggerite. È una parola che mi è ostica, però accanto c’è la parola relazione, e anche il suo contrario che è l’assenza di relazione. Che spazio c’è tra l’intrattenimento “volgare” (così come lo intendiamo noi, come nozione) e l’ovvia necessità e la capacità di avere un pubblico da incontrare nel campo dell’estetica?

Prima hai usato il termine primitivo, pensando al pubblico… forse qui sta una chiave?

Il pubblico del teatro ragazzi è un pubblico primitivo, dotato di strumenti culturali minori, in formazione, spesso è composto da bambini o anche da adulti che accompagnano i figli e non hanno mai messo piede a teatro. Un pubblico che, negli esempi più felici, non nutre aspettative legate a luoghi comuni teatrali, cerca invenzione di linguaggi, tecnica, modelli compositivi e l’accoglie di buon grado. In questo senso bisognerebbe avere più tempo per riflettere, tutti rivendichiamo l’appartenenza a un panorama teatrale tout court, non vogliamo essere ghettizzati. Non posso che rispondere a una domanda con una domanda, non ho risposte forti, torno a quella originaria: è necessaria quest’area creativa? Che finalità ha? È è possibile praticarla? Rispetto al versante estetico quest’anno ho visto degli spettacoli straordinari, che non necessariamente sono in questo programma… Sherlock Holmes di Collettivo Cinetico, i lavori di Michelangelo Campanale de La luna nel letto, residenza di Ruvo di Puglia, quelli di Teatro Gioco Vita. Esistono opere che raccontano dei punti di vista, sono come piccole torri, degli avamposti ai quali rivolgersi per rispondere alla domanda che mi hai posto e che sollecitano una discussione.

Se questo è un punto di vista da cui emergono i contenuti, il tema si evidenzia anche per ciò che riguarda le forme. Abbiamo rintracciato come lentezza e densità fossero delle parole chiave per la creazione e la fruizione dell’opera d’arte, ma riscontriamo oggi come il mondo contemporaneo sia caratterizzato da un ritmo di certo più veloce che in passato. Come si può rapportare l’arte – penso soprattutto alla scelta dei mezzi espressivi, linguistici – a confronto con questa sorta di diacronia?

Si tocca qui un punto fondamentale che esula dal teatro ragazzi, una rivoluzione in cui il teatro è un campo di particolare interesse: c’è un rischio fortemente degenerativo della capacità d’ascolto, perché la fruizione avviene con scarti ormai velocissimi, e c’è una grande difficoltà a mediare la necessità interna dell’opera rispetto alla necessità del pubblico. La reinvenzione di simulacri tradizionali come le marionette, i burattini, elementi di un teatro di figura troppo spesso riferito al solo mondo dei bambini, può fornire un grande aiuto a cospetto di una possibile disattenzione, un mezzo di confronto a bassa definizione, artigianale, per un pubblico costretto dentro gli apparati di un linguaggio ad alta definizione. Si tratta più precisamente di riportare indietro, alla forma ancestrale, le stesse figure che i ragazzi gestiscono tramite dispositivi di controllo digitali, per fare in modo che il linguaggio del computer possa entrare nella drammaturgia teatrale, accogliendo e non rifiutando i suoi elementi. È pur vero che ancora oggi non c’è un laboratorio comune di indagine perché si possano ideare storie esemplari, tali da formare un immaginario che contempli questo scarto linguistico.

Il teatro che si rivolge a questi pubblici ha nella scuola un partner ideale, ma si è scontrato spesso con una certa difficoltà di dialogo. Oggi sembra ci siano maggiori potenzialità e che le parti siano più vicine. Quali sono le azioni che una struttura teatrale può portare avanti perché la relazione con la scuola sia virtuosa? Quali sono le possibili forme di mediazione dirette o indirette?

La mia speranza è che il “per” di cui parlavamo all’inizio diventi un “fra”, anzi, meglio, diventi quel “con” che ha creato spesso derive degenerative di chiusura in un settore, ma che è il vero obiettivo del nostro mestiere.
Il rapporto tra cultura teatrale ed educazione, per come è trattato nella recente proposta di riforma “La Buona Scuola”, mi lascia un po’ preoccupato perché mi sembra porti a un passo indietro notevole. C’era un disegno al tempo dell’ETI per salvaguardare questo patto, ma non è stato poi attuato; ora invece siamo di fronte a una proposta che suscita interesse ma non fissa nessuna regola. Io credo si debba parlare di futuro, di cittadini piccoli che diventeranno grandi, a partire certamente dalla qualificazione dei mediatori perché per quanto siano auspicabili i contatti diretti, questi contesti sono sempre mediati; bisogna ritrovare allora le ragioni di un confronto tra operatori e artisti su un piano comune, ora piuttosto faticoso anche di fronte a un’offerta gratuita. Ma c’è una mappatura ricca di “case teatrali” per tutta Italia – con una conclamata prevalenza al centro-nord, rispetto alle aree territoriali sotto Napoli – in cui le scuole possono godere di un sistema residenziale per l’intera giornata, dove presentare un’opera o solo una parte, grazie anche all’aiuto di uno sguardo più specializzato, come quello della Casa dello spettatore, che permetta di superare il contatto episodico in direzione di una formazione più duratura.

Una riflessione sul teatro fra le generazioni ci riporta alla figura del “maestro”, che si segnala per una duplice sfumatura semantica: da un lato è colui che è in grado di fornire strumenti di crescita fin dai primi anni, dall’altro – specialmente in campo artistico – è lo stato cui giunge chi è stato in grado di manifestare come esemplari i propri metodi di lavoro, grazie ai risultati raggiunti sul campo con la propria opera. In che relazione si collocano per te le due sfumature?

Il rapporto tra allievo e insegnante si innesta in maniera naturale e quasi involontaria, così come accaduto a me negli anni di formazione teatrale a Pontedera, quando sono entrato a contatto con tanti maestri dai quali sul momento non sapevo prendere, ma che mi avrebbero lasciato strumenti che avrei ritrovato nel tempo. Maestri ne abbiamo anche oggi, sono coloro che hanno espresso concretamente una capacità di sintesi tra arte e relazione con una platea così particolare, sono portatori di tecniche, ma anche di visioni e di esperienze, e sarebbe bene far sì che abbiano una casa dove operare e strumenti migliori, così da alimentare questa vocazione per metà artistica e per metà formativa che è propria del nostro teatro.

A cura di Francesca Bini, Francesco Brusa, Lorenzo Donati e Simone Nebbia




Il teatro e il mistero dell’infanzia. Breve inchiesta

Ripubblichiamo in questa sezione materiali, spunti, interviste, discussioni già edite altrove in passato ma che ci paiono ancora utili per una discussione sulle forme del teatro che dialoga con diverse generazioni.
A seguire una breve inchiesta realizzata da Altre Velocità e pubblicata nel luglio 2013

 

Cosa chiede il teatro ai bambini? Cosa chiedono i bambini al teatro? Il festival di Santarcangelo cerca di smuovere al suo interno questi interrogativi, appoggiandosi a compagnie che da qualche tempo stanno sviluppando un percorso forte su e con l’infanzia. Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Fanny e Alexander, Sacchi di Sabbia hanno fatto di questo elemento un vero e proprio cardine della loro produzione recente. Ora attraverso attività di laboratorio, ora affrontando la tematica nella rappresentazione, ora in spettacoli dove il palco è occupato da gruppi di giovanissimi, le esigenze dell’infanzia e le urgenze della scena si intrecciano in un legame che diventa fonte di crescita per l’una e occasione di rigenerazione per l’altra. Lo sguardo del bambino si è rivelato un alleato prezioso per il teatro, portatore di domande che incrinano le certezze a un tempo di attori e spettatori. I protagonisti di questa ricerca ci spiegano allora qual è il loro rapporto con un terreno tanto misterioso quanto fecondo. Alla loro si aggiunge la voce di Alessandra Belledi del Teatro delle Briciole, struttura che con il percorso “Nuovi sguardi per un pubblico giovane” ha prodotto le opere di alcuni di questi gruppi.

Pathosformel
«All’interno del nostro percorso è stato piuttosto azzardato intraprendere una relazione creativa diretta con i bambini. Nella performance del progetto T.e.r.r.y. i bambini sono autori delle proprie azioni e delle forme proposte, elaborate da loro stessi nei laboratori che precedono il debutto. Questo porta dentro l’opera una materia incontrollabile, un’indeterminatezza con cui nei nostri lavori non abbiamo avuto a che fare fino ad adesso. Il laboratorio è per noi un luogo sperimentale in senso stretto: creiamo un contesto e vi inseriamo un elemento che lo possa modificare. La domanda che poniamo ai bambini è “come immaginate il futuro”, e gli chiediamo così di costruire un nuovo mondo possibile, che abbia anche delle nuove regole, diverse da quelle del mondo attuale, basato su un sistema economico nel quale le richieste sono superiori alle risorse disponibili. Vogliamo sapere da loro qual è il sistema di relazioni nel quale gli piacerebbe vivere, se avessero la possibilità di distruggere il presente».

Giovanni Guerrieri / I Sacchi di Sabbia
«Guardare all’infanzia è frutto di una lunga metabolizzazione. Come molti gruppi a noi coetanei (il nostro primo lavoro è del ‘95), ci siamo trovati dentro a un indagine feroce del quotidiano. Ci muoveva un senso di asfissia, l’urgenza di guardare le cose con ferocia facendo i conti con i nostri pregiudizi sulla realtà. L’ansia di “urlare” diveniva pressante, e con 1939 (che ha debuttato nel 2007) per la prima volta è comparso Emilio Salgari: a un certo punto un personaggio diceva «ci vorrebbe un Salgari che ci raccontasse…». Sandokan (2008) ha dunque indagato un materiale caro per la nostra formazione, verso una dimensione biografica, e da quel momento si è aperta una falla che ci ha spalancato la via al mondo dell’infanzia. Con Pop up, portato qui al festival, cercavamo uno spettacolo per bambini in grado di funzionare anche per noi, che siamo adulti. La sfida consisteva nell’eliminare l’ingombro dei corpi per rendere il segno pulitissimo, una pennellata essenziale che chiama il bambino a un movimento con la fantasia».

Teatro Sotterraneo
«Dal momento che molte delle esperienze che facciamo sono mediate, si può dire che la nostra vita non sia più fisica, immersa come è in un sistema di codici. Anche il teatro è un codice ma prevede la presenza, per questo può essere una palestra che allena a riconoscere altri codici, per capire quale manipolazione sia in atto, che tipo di realtà venga proposta. Al bambino che lavora con noi per Be Legend! abbiamo esteso lo stesso lavoro di simulazione che pratichiamo nel nostro teatro. Gli abbiamo raccontato la storia di Amleto, per poi chiedergli di dimenticarla o prenderne ciò che voleva e infine costruire una docufiction del bambino-Amleto. Lavorando con attori professionisti, spesso affiora la domanda sul perché si stia facendo una determinata azione. È la domanda che a noi interessa meno, facendo teatro. Nessun bambino ce l’ha mai posta, perché quel tipo di scarto appartiene all’infanzia naturalmente. Così è il bambino che nutre noi, non viceversa, nel momento in cui gli facciamo richieste legate al gioco teatrale».

Chiara Lagani / Fanny&Alexander
«Nel percorso di Fanny & Alexander la riflessione sull’infanzia come luogo specifico e di elezione c’è sempre stata, ne abbiamo fatto uno degli archetipi fondamentali della nostra produzione artistica. Spesso il teatro guarda al bambino come organo propulsivo della creatività e della vitalità, alla sua capacità di stipulare il contratto ludico e di immedesimarsi con una versatilità priva di membrane protettive. Queste sono metafore generative per il teatro, chiunque di noi vorrebbe essere così poco protetto e così puro rispetto a una visione. Per gli spettacoli Discorso Giallo e Giallo – Radiodramma dal vivo, invece, l’infanzia non è solo un luogo simbolico, ma è uno spazio concreto che abbiamo dovuto attraversare chiedendoci cosa significasse educare e cosa sia l’educazione. Domande che abbiamo voluto rivolgere direttamente ai bambini, soggetti privilegiati di questo processo misterioso e complesso, che a loro volta ti pongono di fronte a quesiti sconvolgenti, dal punto di vista artistico e umano».

Alessandra Belledi / Teatro delle Briciole di Parma
«Il nostro lavoro è preliminare all’andare a teatro: agli spettatori bambini occorre insegnare come andarci. Dobbiamo insegnare loro a sospendere il rumore e a fare silenzio una volta entrati, fare loro capire che stanno per entrare in una dimensione di extraquotidianità. Questo va un po’ indotto, altrimenti pretenderanno di trovarsi come al cinema con la merenda e la coca-cola in mano. I bambini non sono gli spettatori del futuro ma del presente. Siamo abituati sempre più a consumare tutto, anche l’arte, per questo è necessario educare chi guarda. L’esperienza che i bambini potranno vivere dentro al teatro li allontanerà dal frastuono, dal multitasking, facendogli fare un’azione di vita vera. La relazione teatrale diventa insomma sempre più vitale. E questo vale anche per gli adulti. Il teatro per l’infanzia, semplicemente, esalta ciò che vale per tutti: per i bambini e per gli adulti la relazione va portata avanti in un modo più attento».




Un osservatorio sul teatro e le nuove generazioni

Il teatro che si rivolge alle nuove generazioni ci invita a un esercizio di pulizia dello sguardo. Non si tratta di porci solo una domanda sul “come”, ma di rimettere al centro una questione sul “perché” andiamo a teatro e su che cosa cerchiamo. Siamo convinti che uno dei nodi più rilevanti per chi oggi si occupa di arte stia nella trasmissione, nella pedagogia, nell’incontro che si esplicita soprattutto nell’incontro con chi ha meno anni di noi. Come il teatro dialoga con chi sta crescendo? Pensando alla costruzione dell’immaginario di chi oggi ha meno di vent’anni, cosa ha da dire il teatro? Ed è il teatro ancora un luogo dove un tale processo può accadere, magari con dinamiche proprie? Di che cosa si nutre chi fabbrica proposte teatrali per e con i giovani? E come le intendono, tali proposte, le nuove generazioni? Grazie alle arti riusciamo ancora a sollecitare dialoghi veri fra le generazioni, che siano spunto per avventure non mediate?

Con queste e altre domande ci apprestiamo a costruire un osservatorio sul teatro e le nuove generazioni, raccogliendo l’invito di tre festival: Teatro fra le generazioni di Giallo Mare Minimal Teatro a Castelfiorentino, Segnali di Teatro del Buratto ed Elsinor a Milano e Maggio all’infanzia del Teatro Kismet a Bari. Planetarium è il nome che abbiamo scelto, sperando di potere in minima parte ricreare l’eccitazione di quando si entra per la prima volta in un planetario, quella meraviglia per un mondo che magicamente appare sopra i nostri occhi, capace di sopravanzare almeno per qualche ora la realtà quotidiana, un mondo che c’invita a immaginare e a conoscere.

Il nostro Planetarium, per questi prossimi mesi, sarà coordinato da Altre Velocità ma è un progetto condiviso da quattro realtà anagraficamente vicine e che da tempo si pongono domande sullo sguardo e sul racconto: Altre Velocità, Stratagemmi, Il Tamburo di Kattrin e Teatro e Critica. Planetarium potrà proseguire in futuro anche con differenti configurazioni e collaborazioni, per adesso insieme cercheremo di condividere un terreno comune di interrogativi, di raccontarvi i tre festival giorno per giorno, invitando a riflettere gli artisti in programma e altri ancora, ma anche figure esterne al mondo dello spettacolo dal vivo come sociologi, educatori, insegnanti. Buona lettura